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Genere Articoli

Città a misura di donna

Perché è importante ripensare gli spazi urbani in un’ottica di genere

Alessandro Magini

Giornalista

By Ottobre 2021Aprile 14th, 2023Nessun commento
Fotografia di Claudio Colotti

Quando i responsabili dei progetti non tengono conto della diversità dei sessi, gli spazi pubblici diventano maschili di default. Solo che metà della popolazione mondiale ha un corpo femminile”. Con queste parole Caroline Criado Perez, autrice del libro “Invisibili – Come il mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano”, chiude il capitolo dedicato alla progettazione urbana. Per quanto possa sembrare bizzarro qui in Italia, dove la riflessione sull’urbanistica di genere inizia a muovere i primi, timidi passi, un piano di trasporto pubblico, un parco o un marciapiede sono spesso il risultato di scelte maschiliste, magari prese inconsapevolmente. L’errore è quello di considerare neutro lo spazio, senza rendersi conto che non sono mai neutri, ma femminili o maschili, i corpi che ne usufruiscono.

 

Nei rari casi in cui siano disponibili dati disaggregati per genere, infatti, emerge un uso differente della città per quanto riguarda i sessi. Dall’utilizzo dei mezzi di trasporto a quello delle toilette pubbliche, passando per la percezione di sicurezza e la fruizione dei parchi, le statistiche indicano come l’approccio al tessuto urbano cambia notevolmente a seconda del sesso. Lo sanno bene a Vienna, dove tra il 1995 e il 1997 è stata costruita la Frauen werk stadt (Città delle donne lavoratrici). Partendo da una serie di dati divisi per genere e raccolti dall’Istituto nazionale di statistica, relativi ai bisogni delle persone che avrebbero abitato il complesso, il comune ha realizzato un quartiere con 350 alloggi di edilizia popolare. Poiché i dati dimostravano come il lavoro di cura non retribuito fosse svolto in netta maggioranza dalle donne, l’intero quartiere è stato edificato per rendere la loro vita più semplice, coniugando al meglio il lavoro retribuito e quello domestico e di cura. Dotata di un asilo nido interno, la Città delle donne lavoratrici sorge in un’area vicina alle scuole e ai mezzi del trasporto pubblico, dal momento che si era osservato come l’utenza degli autobus fosse prevalentemente femminile e ad accompagnare i figli a scuola fossero soprattutto le donne. Progettato da architette e ingegnere, il complesso è caratterizzato da blocchi abitativi bassi, intermezzati da cortili interni e giardini destinati al gioco, visibili dalle finestre delle case che li circondano, per aumentare il senso di sicurezza e permettere ai genitori di controllare i bambini direttamente da casa. L’intero complesso, poi, è pensato secondo il concetto della “città dei 15 minuti”, un modello di prossimità che prevede l’accesso a tutti i servizi nell’arco di un quarto d’ora a piedi. In netta contrapposizione con il modello della città funzionalista, in voga nella prima metà del Novecento, i cui quartieri sono divisi per funzione (lavoro, riposo, divertimento).

La comprensione dei bisogni si ottiene solamente ascoltando la cittadinanza, altrimenti è pura immaginazione che ti porta a ricadere negli stereotipi.  Azzurra Muzzonigro e Florencia Andreola

Cambiare prospettiva

Se la capitale austriaca è stata l’apripista, oggi i progetti di riqualificazione urbana a partire dai bisogni delle donne stanno cambiando radicalmente il tessuto di metropoli come Tokyo, Londra o Barcellona. A conferma di come il nostro Paese sia indietro su queste tematiche, è illuminante la testimonianza dell’architetta Gianna Attiani, specializzata nella progettazione di giardini, aree verdi e spazi aperti. Nel 2013, “un po’ per gioco, un po’ perché stufa di certe dinamiche italiane, senza credere davvero di vincere”, decide di partecipare a un bando per la ricostruzione di un complesso abitativo nel centro di Christchurch, terza città della Nuova Zelanda, colpita da un forte terremoto nel 2011. Oltre al severo rispetto delle norme antisismiche, il bando del comune specificava che il nuovo quartiere dovesse essere sostenibile e inclusivo. “Il nostro progetto prevedeva la realizzazione di lotti abitativi con terrazze e giardini, interconnessi da camminamenti verdi, giardini con piante autoctone, orti urbani e stenditoi comuni per creare un senso di comunità” ricorda Attiani. Vinto il concorso, vola in Nuova Zelanda dove scopre un nuovo modo di lavorare da parte delle istituzioni. “Dopo averci comunicato l’esito del bando, l’amministrazione ci convocò per una serie di incontri in cui ogni singolo aspetto del progetto veniva esaminato. Volevano sapere, al centimetro, a quale altezza sarebbero state tagliate le siepi dei giardini per non creare punti ciechi dove qualcuno avrebbe potuto nascondersi o commettere reati senza essere visto. La stessa cosa con l’illuminazione: hanno voluto analizzare uno per uno i coni di luce, per non creare punti d’ombra. La sicurezza e la sua percezione sono fondamentali per loro”. Analizzando i vialetti che attraversavano i giardini, il comune nota come questi siano troppo stretti. “Ci dissero che un genitore con un passeggino o un disabile in carrozzella avrebbero avuto difficoltà, chiedendoci di allargare i camminamenti di qualche centimetro.” In sostanza ogni aspetto del progetto vincitore è stato passato ai raggi X, valutando come i singoli elementi architettonici potessero incidere sulla qualità della vita di tutti gli abitanti. “In Nuova Zelanda ho trovato una pubblica amministrazione attenta all’inclusività dell’intero intervento architettonico, capace di guardare al progetto nel suo complesso, qui da noi non mi è mai successo. In Italia, il massimo dell’attenzione su questi temi è rappresentato dalla solita frase del tecnico del comune che chiede: ‘Ma la rispettiamo la norma sugli handicappati?’, giusto per voler esser sicuri di non incombere in problemi legali e burocratici”.

Ascoltare la città

Per iniziare a cambiare le cose è necessario prima di tutto generare dati. Ed è proprio questo l’obiettivo di “Sex and the city”, uno studio sulla disparità di genere nella città di Milano ideato e condotto dalle architette e ricercatrici urbane indipendenti, Azzurra Muzzonigro e Florencia Andreola, risultato vincitore di un bando promosso dall’Urban center di Milano, osservatorio sulla città gestito dal Comune e dalla Triennale. “La lezione di Vienna sta soprattutto nell’ascolto, nell’aver chiesto direttamente alle donne quali fossero le misure da adottare. La comprensione dei bisogni si ottiene solamente ascoltando la cittadinanza, altrimenti è pura immaginazione che ti porta a ricadere negli stereotipi”, affermano. Non a caso per la loro ricerca hanno elaborato un questionario, incentrato principalmente sulla sicurezza, la mobilità e la toponomastica, che hanno sottoposto a oltre 1400 tra uomini, donne e identità non binarie di età compresa tra i 18 e 75. Le risposte ottenute possono essere scomposte per genere, età e luogo di residenza, fornendo un’impressionante quantità di dati da incrociare e rielaborare a seconda dell’aspetto che si vuole prendere in esame. Parallelamente al questionario, le ricercatrici hanno anche provveduto a realizzare una mappatura dell’intera città, che indica ad esempio i centri antiviolenza, i bagni pubblici o i luoghi attrezzati per l’allattamento. Sul piano della toponomastica nessuna sorpresa: l’intitolazione degli spazi pubblici è lo specchio di secoli di patriarcato. L’Associazione toponomastica femminile riporta infatti che a Milano, a fronte di 2538 vie o piazze intitolate a uomini, quelle intitolate alle donne sono solamente 141. I fiori, ad esempio, hanno più strade dedicate rispetto alle figure femminili. “Per quanto riguarda la sicurezza – spiegano Muzzonigro e Andreola – in generale Milano è ritenuta una città non pericolosa dal 48 per cento delle donne e dal 68 per cento degli uomini, ma la percezione cambia sensibilmente tra il giorno e la notte. Dopo il tramonto, infatti, il 50 per cento delle donne dichiara di sentirsi in pericolo, contro il 15 per cento degli uomini”. Un dato inatteso che si evince dal questionario, invece, è quello che si ottiene mettendo in relazione l’età e la percezione di insicurezza. La ricerca ha dimostrato come a sentirsi più insicure siano le donne più giovani, quelle tra i 18 e i 25 anni, mentre con l’aumentare degli anni si tende a percepire lo spazio urbano come meno pericoloso. In un Paese in cui, secondo l’Istat, il 36 per cento delle donne non esce la sera per paura, questo si traduce nel fatto che di notte la città si trasforma in un terreno di assoluto dominio maschile.

Ripensare al sistema della mobilità non vuol dire mantenere questo stato di cose e quindi agevolare il lavoro di cura svolto solamente dalle donne, ma significa invertire la prospettiva: iniziare a mettere la cura al centro della progettazione urbana, a prescindere dal genere che se ne faccia carico.  Azzurra Muzzonigro

Anche il sistema dei trasporti è nettamente sbilanciato a favore degli uomini, favorendo gli spostamenti tipici del lavoro pendolare. “Per quanto riguarda la mobilità, abbiamo guardato alle ricerche internazionali, che dimostrano come donne e uomini tendano a seguire due modelli diversi. Gli uomini si muovono in maniera più lineare, andando al lavoro alle 9 di mattina e tornando alle 18. Le donne seguono invece un pattern più frammentato e pedonale, fatto di piccoli spostamenti, dovuto al fatto che il lavoro di cura grava in massima parte sulla popolazione femminile”. Mentre parla dei dati raccolti sui trasporti, Muzzonigro ci tiene a fare una premessa fondamentale: “Ripensare al sistema della mobilità non vuol dire mantenere questo stato di cose e quindi agevolare il lavoro di cura svolto solamente dalle donne, ma significa invertire la prospettiva: iniziare a mettere la cura al centro della progettazione urbana, a prescindere dal genere che se ne faccia carico”. Progettare gli spazi urbani tenendo conto delle esigenze femminili, infatti, può finire per alimentare stereotipi e ingiustizie. “Se parlo di città delle donne perché voglio agevolare il lavoro di cura, il rischio di fare confusione c’è, ma basta chiarire una cosa dall’inizio: nel momento in cui la città viene ripensata per risolvere i bisogni dei cittadini, che siano uomini, donne o minoranze di genere, a beneficiarne sono tutti”. I risultati della ricerca saranno pubblicati il prossimo mese, a ridosso delle elezioni comunali di Milano. Se la giunta che uscirà dalle urne saprà farne buon uso, potranno rivelarsi preziosi. Se invece deciderà di ignorarli, si sarà persa una grande occasione.

Architett*

Nel 2017 Francesca Perani è stata la prima donna italiana a diventare architetta. Insieme alle colleghe Silvia Vitali e Mariacristina Brembilla è riuscita infatti a ottenere, per la prima volta nel nostro Paese, il timbro che riportava la parola “architetta” al femminile, dopo un’espressa richiesta all’Ordine degli architetti di Bergamo. La notizia, accolta favorevolmente dalla maggioranza delle testate nazionali, ha scatenato numerose polemiche sui social network, dove in molti – sia donne che uomini – hanno ritenuto poco rilevante la questione, come fosse un vezzo ideologico, la fissazione di una femminista pignola. A chi la pensa così, Perani ribatte che “se è difficile accettare soltanto il termine, figuriamoci quanto è difficile accettare la professionista”. Con l’obiettivo dichiarato di “disintossicare l’architettura dalle disuguaglianze” e promuovere la professionalità femminile, Francesca Perani ha fondato il collettivo RebelArchitette, un’associazione culturale formata da 15 attiviste che si è subito messa in rete con decine di associazioni analoghe di ogni parte del mondo, dal Cile al Canada, dall’Iran all’Islanda. Per dimostrare come la loro non fosse una fissazione, le attiviste di RebelArchitette, come prima azione, hanno deciso di monitorare 411 eventi di architettura svolti in Italia tra il 2017 e il 2018, organizzati sia dagli ordini che da enti privati. I risultati, raccolti nel report “Timefor50”, parlano chiaro: nel 37 per cento degli eventi i relatori erano solamente uomini, anche in convegni con 20 ospiti sul palco. Gli eventi tutti al femminile erano solo il 2 per cento del totale. Del restante 61 per cento dei casi, ovvero negli eventi misti, soltanto il 12 per cento aveva una presenza femminile pari o superiore a quella maschile. Tutto questo in un Paese, l’Italia, in cui la percentuale di donne nella professione è del 43 per cento, una delle più alte al mondo.

Nel libro “Where are the women architects?” la storica dell’architettura canadese Despina Stratigakos dimostra come la mancanza di riferimenti di modelli femminili sia la causa di un terzo dei casi in cui una donna abbandona l’architettura. Per questo motivo, il collettivo RebelArchitette ha realizzato supporti digitali che raccontassero profili di eccellenza dell’architettura femminile, italiani o esteri. Oltre a un libro che raccoglie le esperienze di 365 architette provenienti da diversi paesi, compresi quelli emergenti, il collettivo ha realizzato una mappatura di oltre mille architette che si siano distinte per merito in tutto il mondo. Disponibili gratuitamente sul sito del collettivo (www.rebelarchitette.it) questi lavori sono stati consultati decine di migliaia di volte, spesso anche da pesi emergenti e con una condizione femminile ben peggiore dell’Italia come l’India.

Dal 2017 ad oggi, il collettivo RebelArchitette ha richiesto il timbro con la dicitura “architetta” al femminile a tutti i 106 ordini degli architetti d’Italia: 5 hanno rigettato la richiesta, mentre 30 hanno risposto positivamente. Poiché tra i 30 ordini che hanno approvato la richiesta figurano alcuni degli ordini più numerosi, come Milano, Napoli, Roma e Torino, oggi il 65 per cento delle professioniste italiane può finalmente avere il timbro ufficiale al femminile.

L’università

Se mancano i dati di genere negli studi urbanistici e il mondo dell’architettura è nettamente dominato dagli uomini, evidentemente il problema è alla base. Come formiamo gli architetti e le architette del futuro, si discute di questi temi nel mondo accademico? La prima risposta che danno Azzurra Muzzonigro e Florencia Andreola è una risata amara. Entrambe conoscono bene l’università italiana, avendo insegnato al Politecnico di Milano. “No, lo studio dell’urbanistica di genere non è presente nelle nostre università, io non ho mai incrociato questo tema durante l’intero percorso universitario, neanche in un modulo di un modulo. Si esce dall’università pensando che questa questione non esista. Semplicemente, la categoria degli architetti e dei pianificatori in Italia non si è posta il problema”. “Dal punto di vista della ricerca scientifica – prosegue Andreola – nel nostro Paese c’è veramente poco. Quasi tutte le nostre letture su questi temi sono in inglese o spagnolo, e se si trova qualcosa in italiano, il linguaggio e le idee sono quelli di trent’anni fa”. A una mancanza dal punto di vista scientifico e pedagogico, si aggiunge un problema di metodo, una chiusura da parte degli atenei che non riescono ad aprirsi alla città. “Si creano delle bolle accademiche, il tema è quello di far uscire gli studi scientifici delle università, mettendoli in contatto con i processi urbani reali” conclude Muzzonigro.