Sono luoghi che appartengono a tutte le periferie italiane quelli in cui si scontrano le diverse forme dell’abitare descritte da Tommaso Giagni ne “I Tuoni” (Ponte alle Grazie, 2021). Luoghi in cui emerge una complessità troppo spesso celata dalla narrazione comune della periferia come posto distante e pericoloso. Per sciogliere lo stigma che pesa su queste comunità è fondamentale, prima di tutto, predisporre un dialogo tra le diverse parti che compongono una città.
Da dove nasce il desiderio di mostrare questi luoghi?
Avevo l’impressione che ci fosse una nuova periferia da raccontare. Una nuova relazione tra gli storici quartieri della marginalità e i quartieri residenziali nati in prossimità dei grandi centri commerciali, non solo a Roma. Questi nuovi quartieri (il “Verde respiro”, ndr) accolgono delle persone che, di fatto, sono state deluse da una serie di promesse non mantenute. Si ritrovano in posti che speravano fossero simili ai sobborghi americani con villette a schiera, giardino e garage dove lucidare la macchina il weekend. Invece si trovano in posti completamente isolati: le strade aspettano di essere costruite, i parchi di essere attrezzati e i negozi mancano.
I tre protagonisti, ragazzi giovanissimi di origini e aspirazioni diverse, abitano invece il classico quartiere della marginalità – il “Quartiere” – dove gli ultimi sono stati relegati. Uno di loro, il più integrato nel contesto, vive in una casa popolare; il secondo vive in quella che si chiama “la Spina”, una serie di negozi nati per soddisfare le esigenze dei cittadini, poi abbandonati e usati a scopo abitativo; nell’ultimo livello sociale vive il terzo, un ragazzo ivoriano che abita sottoterra, in cantine/garage trasformate in case. Nonostante le diversità, abitative e caratteriali, i tre si sentono dalla stessa parte “della barricata”. Il nemico è fuori, il conflitto è con quello che è intorno, in quella che possiamo definire una sorta di triangolazione tra il quartiere della marginalità, quello residenziale e il centro storico. In questa dinamica, tra queste forme dell’abitare, mi sembrava ci fosse il giusto spazio narrativo che meritava di essere raccontato.
Le voci dei ragazzi del “Quartiere” si uniscono in un solo coro, cosa dicono?
Stanno dicendo che la marginalità mette insieme persone che hanno vicende diverse, percorsi diversi, e che l’isolamento dal resto della città è qualcosa di molto violento. Accende un conflitto che si muove in due direzioni, dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso. Avviene un doppio, se non un triplo, movimento. La sensazione di essere messi ai margini spaziali, sociali e simbolici è il problema principale. Il centro storico è cosa lontana, esclusiva, di fatto loro non ne hanno il possesso – “Siamo qui come turisti” dice uno di loro quando visitano il centro storico e l’altro risponde “Sì ma di notte, come i ladri”. La città a cui appartengono non appartiene loro. Al tempo stesso l’esistenza di un nuovo quartiere accanto, il “Verde respiro”, i cui abitanti hanno fastidio nel vivere accanto un quartiere come quello, peggiora le cose.
“Siamo qui come turisti” dice uno di loro quando visitano il centro storico e l’altro risponde “Sì ma di notte, come i ladri”.
Inoltre, questo romanzo esce dopo anni di crisi economica che ha aumentato le disuguaglianze e un anno di pandemia che annuncia – come “i tuoni”, appunto – un peggioramento delle condizioni di tutti. La crisi va a pesare sia sul “Quartiere” sia sugli abitanti del “Verde respiro”, che oltre ad essere impoveriti si scoprono pericolosamente vicini ai poveri veri. Questo genera una tensione interessante, da raccontare.
Abita nel “Verde respiro” Donatella, l’unica ad avere uno sguardo lucidissimo riguardo l’inganno di essersi lasciati portar via la casa. Perché soltanto lei ha questo sguardo politico?
Probabilmente perché ha un’idea di costruzione della propria identità diversa dagli altri tre. Ha uno sguardo molto classico, lei per arrivare a emanciparsi sceglie la strada dello studio e va incontro all’università con una grande fame. L’aspetto della costruzione dell’identità è uno dei motori del romanzo. Questi ragazzi stanno cercando di costruire la propria identità ascoltando i propri desideri e non le aspettative degli altri, non vogliono stare sulla strada che il mondo si aspetta da loro, vogliono sceglierselo da soli il percorso. Inoltre, lei ha memoria di un’esperienza che l’ha portata a vedere il quartiere di nascita (diverso dal “Verde respiro”) essere depredato dai movimenti economici che di fatto hanno espulso le comunità dai territori di appartenenza. Ha sofferto molto la disgregazione della sua comunità di riferimento, prova rabbia soprattutto verso i genitori, i quali hanno la colpa di aver scelto di andare a vivere in un quartiere completamente senz’anima, anestetizzato, senza vita.
Questi movimenti economici comportano la gentrificazione di alcuni quartieri, in cui si verifica una ricomposizione sociale della popolazione verso l’alto. Oppure ciò che accade con Airbnb, che trasforma dei territori in cui la popolazione è radicata in posti dove gli affitti sono brevi e nessuno abita davvero quel luogo – svuota di senso l’abitare. Di fatto svuota i centri storici e li fa diventare dei parchi a tema e questo innesca una serie di meccanismi domino: la turistificazione e la gentrification, che fa qualcosa di simile, disgrega comunità. Sono dei processi economici non irreversibili che andrebbero controllati con delle politiche pubbliche e invece prevalgono le dinamiche che non badano al vivere insieme, all’idea che i territori sono fatti di persone che li abitano.
A proposito di abitare i territori, in “Periferia”, Carlo Cellamare e Francesco Montillo raccontano che a Tor Bella Monaca è diventata tradizione che chi si sposa risistemi il portone condominiale. Cosa genera questa auto-organizzazione?
Essenzialmente l’idea che chi dovrebbe farlo non lo farà e quindi lo fa il cittadino, mettendo delle toppe. L’auto-organizzazione è da lodare e anche il fatto che ci si metta insieme dal basso, ma la questione è che questo diventa un alibi, poi, per chi davvero dovrebbe occuparsene – “tanto ce la fanno da soli”. Si innesca un meccanismo perverso, il signore che scende sotto casa e si mette a spazzare la strada, perché tanto chi dovrebbe farlo non lo farà. Tutto questo dovrebbe essere qualcosa di temporaneo, perché se diventa definitivo significa che c’è un problema.
Penso che la politica dovrebbe, innanzitutto, ridurre le distanze tra periferia e centro.
Ha detto che per capire il “Quartiere” bisogna entrarci “in punta di piedi”. Quindi senza la pretesa di conoscere a priori le esigenze?
Con rispetto, cercando di capire che innanzitutto quelli sono territori che spesso sono stati messi ai margini e stigmatizzati, quindi ulteriormente allontanati, non solo in senso spaziale ma in senso simbolico. Questa cosa porta le persone a sentirsi in colpa, a sentire come un fallimento il fatto di vivere lì. Genera poi una diffidenza fisiologica. Genera un sistema che si regge su dei codici che possono essere capiti solo dall’interno. Dall’esterno bisogna avvicinarsi e capire di cosa si sta parlando. Mentre noto che chi non sa nulla di periferie spesso irrompe, pretendendo, intanto, di leggere subito i meccanismi che muovono le dinamiche che si innescano. Spesso, ci si basa su pregiudizi, stereotipi, su delle forme che sono assolutamente regressive. Io non volevo raccontare una periferia di criminalità o di innocenza, di solito i due poli opposti, fortissimi, su cui si basano le narrazioni legate alla marginalità. Sono degli elementi presenti, certo, ma bisognerebbe raccontare un po’ meglio la complessità e le sfumature che esistono.
Ogni territorio ha le sue esigenze e le sue specificità, gli abitanti le conoscono molto meglio di chi arriva da fuori.
Che forma hanno le parole “riqualificazione” e “valorizzazione” in questa periferia?
Sono parole di cui ormai diffido. La riqualificazione spesso nasconde dei meccanismi abbastanza violenti, se non di espulsione, di interventi da una parte molto superficiali (l’idea che se si chiama uno street artist a ridipingere un palazzo questo porterà bellezza e la bellezza salverà il mondo). Dall’altra la riqualificazione nasconde spesso degli interessi speculativi, si finisce per mandar via le persone che in quel quartiere ci abitano. Bisognerebbe fare degli interventi concreti. Penso che la politica dovrebbe, innanzitutto, ridurre le distanze tra periferia e centro. Parlando con dei ragazzi del quartiere periferico di Tor Sapienza, chiedevo loro “Qual è il centro per te?” e loro mi rispondevano Piazza dei Mirti – cioè la piazza principale di un quartiere vicino, Centocelle, un quartiere periferico a sua volta – perché è il capolinea dell’autobus. Lavorerei quindi, oltre che sui collegamenti pubblici, anche su una politica della casa più attenta, ragionerei sul coinvolgimento degli abitanti, ascoltando le esigenze, dialogando, anziché affidarsi a un intervento dall’alto. Bisogna trattare ogni territorio come un luogo a sé. Ogni territorio ha le sue esigenze e le sue specificità, gli abitanti le conoscono molto meglio di chi arriva da fuori e con qualche occhiata pensa di risolvere la cosa.
Un dialogo tra istituzioni e abitanti maggiore che renda meno isolate, all’interno delle città, le periferie.
Uno sguardo al futuro, le sfide che meriterebbero più attenzione per far sì che questo altrove non sia più lasciato nell’oscurità?
Il dialogo riassume tutto. Un dialogo tra istituzioni e abitanti e uno scambio maggiore che renda meno isolate, all’interno delle città, le periferie. Senza più l’idea di uno stigma che pesi su quartieri come Tor Bella Monaca a Roma, la Zona Espansione Nord (Zen) a Palermo, la Barona a Milano, senza l’idea che questi luoghi siano malfamati e pericolosi, quando poi basta andarci per vedere che la situazione è molto più tranquilla di quello che ci si possa immaginare. Ecco, uno scambio tra la città al suo interno, più aperto, più disposto a un confronto sia verticale, tra istituzioni e abitanti, sia orizzontale tra le parti che compongono una città. Non credo ci debbano essere più dei luoghi malfamati dove nessuno si sogna di andare, né la soluzione sono degli approcci episodici (per esempio, il teatro di cintura a Roma, dove in realtà vanno solo persone che non vengono da quel quartiere, vedono lo spettacolo e se ne vanno, senza nessuno scambio reale con il territorio). Lo scambio deve essere regolare e aperto, non episodico, uno scambio vero, un confronto reale. Non so dove andremo, non so neanche se è compito di chi scrive immaginare quello che verrà. Io mi sono limitato a registrare una tendenza, una conflittualità nuova che riguarda questa triangolazione tra quartieri di marginalità, quartieri residenziali dove il ceto medio è impoverito e i quartieri del centro storico sempre più disabitati.
A cura di Giada Savini