Durante la pandemia ha iniziato a parlare alle persone dal salotto di casa e con il caffè accanto. Come è nato questo nuovo modo di comunicare? È più vicino alle persone?
Dietro non c’è alcuna strategia, sono molto istintiva e spontanea e difficilmente riesco a costruire qualcosa di diverso dal mio modo di essere e pensare. Tutto è nato ben prima della pandemia, ai tempi della famosa “guerra dei vaccini”, quando alcuni amici condividevano video su YouTube e insistevano affinché anche io iniziassi a parlare al pubblico. Ero scettica all’inizio, non avendo molta familiarità con la tecnologia. Ma, una mattina, mentre ero in campagna, ho voluto provare e ho registrato un video con il telefono per capire come poter parlare alle persone della legge sull’obbligo vaccinale. Ho pubblicato il video su Facebook per sapere dagli amici cosa ne pensassero e il successo che ha avuto mi ha convinto a proseguire e a scegliere questa strada: parlare a tutti come farei con le persone care che mi chiedono un consiglio.
Per carattere ho bisogno di relazione, a proposito di prossimità. Quindi non affronto questa attività con un atteggiamento didattico, come se dovessi insegnare io agli altri, bensì come uno scambio, cercando di stabilire un dialogo con le persone a cui parlo e i tanti che mi scrivono. È fondamentale capire quali siano i dubbi delle persone e cercare di rispondere, ma capita di sbagliare e spesso sono le persone con cui interagisco a correggermi. Sento molto l’idea della community, essere un gruppo di persone che si confrontano, a cui io, più che dare delle informazioni, cerco di fornire strumenti di interpretazione della realtà, delle notizie di cui sentono parlare. Ci ragioniamo insieme, è un modo di crescere insieme.
Su cosa possono intervenire le istituzioni per migliorare la comunicazione?
Vorrei porre l’accento su un aspetto che spesso non viene considerato attentamente, ovvero la comunicazione interna alle istituzioni, che ritengo fondamentale. Parlando con i medici di medicina generale, in Lombardia, scopro che spesso mancano di informazioni, sembrano e si sentono abbandonati a sé stessi. Ecco perché credo che servirebbero canali solidi e continui di formazione, che diano supporto nella cura, anche in termini di gestione. Dovrebbero essere loro i primi destinatari della comunicazione istituzionale, prima dei giornalisti o dei cittadini raggiunti con i comunicati stampa, perché sono loro ad interfacciarsi per primi con le persone e quelli di cui le persone si fidano di più.
Parlando di prossimità, spesso le istituzioni consigliano alla popolazione di rivolgersi al medico di famiglia. Ebbene, il medico di medicina generale deve essere messo nella condizione di rispondere a queste domande in modo appropriato, per questo è importante che sia formato e informato.
Il punto cruciale è la totale incapacità di accettare, governare e comunicare l’incertezza.
Mai come in questi mesi lo stile attraverso il quale si comunica ha un impatto importante sulla credibilità di chi si occupa di salute e medicina, impatto che andrà a rafforzare o indebolire la capacità di informare e di essere credibili in futuro anche su altri temi. Com’è il sentiment delle persone a riguardo?
Purtroppo, l’impressione è negativa, e la storia suggerisce che potremo pagarla a lungo. È già capitato con la cosiddetta “suina” da h1n1 del 2009. Gli errori di comunicazione compiuti a vari livelli in quel periodo sono stati duramente pagati negli anni successivi. Molti esperti concordano sul fatto che uno dei fattori fondamentali nella crescita dell’esitazione vaccinale di questi ultimi anni sia dipesa dagli errori di comunicazione e di gestione durante questa pandemia precedente. È frustrante osservare che non abbiamo imparato nulla da quegli errori. Ho preso parte a due progetti europei sulla comunicazione delle pandemie. Ci abbiamo lavorato per anni, sono stati stanziati moltissimi fondi e poi, a fine gennaio 2020, quando avremmo dovuto farci trovare pronti, i piani pandemici non erano stati aggiornati. Alla comunicazione, in particolare, non si dà l’importanza che le sarebbe dovuta. Si continua a ripetere che le persone non hanno fiducia nella scienza – anche se i dati e le survey dipingono un quadro diverso –, ma ora questa fiducia la stiamo veramente erodendo, con atteggiamenti paternalistici o punitivi – pensiamo all’obbligo vaccinale – e soprattutto con la confusione di una comunicazione allo sbando. Il punto cruciale è la totale incapacità di accettare, governare e comunicare l’incertezza. Questa condizione è intrinseca alla pandemia, ma il disagio che provoca è amplificato dalla eccessiva quantità e pessima qualità dell’informazione che si dà al pubblico.
Quando noi comunichiamo dovremmo porci sempre con un atteggiamento di grande rispetto nei confronti delle persone.
Il modello adottato in questi mesi è stato quello dell’opinion leader, probabilmente la forma meno prossima per fare comunicazione. Come ripensare un nuovo modello, più orizzontale e meno apicale, considerando anche il rinnovamento che dovrà mettere in pratica il giornalista scientifico?
La comunicazione si muove in due direzioni. Se si deve comunicare è necessario, come prima cosa, conoscere quali siano i bisogni informativi, sapere a quali domande e dubbi rispondere. Sarebbe utile creare dei canali di ascolto per gli operatori sanitari, banalmente un indirizzo e-mail a cui i professionisti possono rivolgersi, da cui un gruppo di lavoro estrapola le domande a cui rispondere in una pagina web dedicata. Qui si potrebbero produrre contenuti che rispondono esattamente alle questioni poste dagli operatori, che hanno poi il delicato e prezioso incarico di parlare faccia a faccia con la popolazione. Sarebbe un esempio di effettiva comunicazione bidirezionale, che partirebbe dall’ascolto.
Altro discorso è quello dei social media. Le istituzioni hanno cominciato a usarli, ma col modello classico, unidirezionale, delle campagne di informazione, come in radio o in tv. La caratteristica peculiare di tutti i social è invece la preziosa possibilità di interagire con la popolazione. Non serve a niente usarli senza mai rispondere ai commenti, senza interagire, anche se questo può essere difficile e richiedere tempo e risorse.
In conclusione, vorrei sottolineare due parole su cui invito a riflettere, che credo meritino la nostra attenzione. Una delle due è responsabilità: dobbiamo renderci conto che la comunicazione ha un potere. Dobbiamo saperla usare, rendendoci conto dell’impatto di come e cosa comunichiamo. La seconda parola chiave a cui tengo moltissimo è rispetto. Quando noi comunichiamo dovremmo porci sempre con un atteggiamento di grande rispetto nei confronti delle persone: da questo deriva la trasparenza, la coerenza, e in definitiva anche la responsabilità di cui parlavo. Non abbiamo davanti a noi uno schermo, non degli “analfabeti funzionali”, ma persone, cittadini, che meritano rispetto, anche se hanno studiato meno di noi, o hanno altre conoscenze e competenze. Tenere bene a mente questo, già sintonizza la comunicazione nella maniera migliore.