Con il Recovery plan verrà messa in moto una riforma dell’assistenza territoriale per una sanità di prossimità. Come andrebbe ripensata l’organizzazione del lavoro delle professioni infermieristiche?
È indubbio che per realizzare una rete di servizi di cure primarie e di ospedali di comunità è necessario un rafforzamento della professione infermieristica. Già in molte regioni il territorio è coperto da una rete infermieristica che assicura l’assistenza domiciliare e ambulatoriale decentrate nella comunità, mentre in altre ci sono ancora molte zone scoperte. Quello che dovremmo chiederci è se rafforzare la dotazione infermieristica sia una questione di ordine quantitativo o qualitativo. Spesso il dibattito è incentrato sulla richiesta di aumentare il numero degli infermieri. Abbiamo circa 14mila studenti all’anno iscritti al corso di laurea infermieristica e 12-13mila arrivano alla laurea. Con strategie mirate a incentivare i giovani ad avvicinarsi a questa professione potremmo arrivare ad una stima di massimo 16mila iscritti, quindi non è un numero dilatabile a prescindere. Tuttavia, il vero nodo da scogliere non è tanto il numero di infermieri quanto la qualità formativa offerta oggi. Sono dell’idea che dovremmo intervenire in modo più radicale sulla qualità, a partire dai modelli organizzativi. In Italia manca non solo una differenziazione della figura dell’infermiere con competenze specifiche e coerenti al contesto in cui deve dare assistenza, ma anche contestualmente la sperimentazione di modelli organizzativi, soprattutto nelle cure primarie, innovativi e a maggiore responsabilizzazione.
Il vero nodo da scogliere non è tanto il numero di infermieri quanto la qualità formativa offerta oggi.
Quale scenario futuro immagina per preparare una professione a una rete di servizi differenziata?
Dovremmo seguire il modello dei Paesi anglofoni che prevede più livelli nella professione infermieristica e, conseguentemente, dovremmo prevedere anche un’offerta formativa differenziata con una laurea magistrale a indirizzo specialistico. L’ordine professionale degli infermieri, la Fnopi, propone anche l’introduzione di scuole di specializzazione post laurea per una leadership con responsabilità elevate. Questo ci permetterebbe di avere a disposizione competenze e responsabilità differenziate sul territorio e capaci di affrontare situazioni e contesti diversificati nella tipologia e nel livello di complessità. Inoltre ci permetterebbe di occupare un’area maggiore di intervento e, auspicabilmente, di fornire più prestazioni con maggiore autonomia rispetto a quanto avviene oggi. È impellente una riforma dei ruoli delle professioni sanitarie coinvolte nella medicina generale. Basti pensare che difficilmente in Italia riusciremo ad avere un medico di medicina generale ogni 1500 abitanti. In altri Paesi il rapporto è molto più alto, per esempio in Scozia si conta un general practitioner ogni 3000/3500 abitanti con la presenza però di una rete di infermieri altamente competenti per fare da filtro a una prima serie di problemi che si incontrano nella prossimità. Sviluppare prossimità vuol dire sì avvicinarsi ai problemi degli individui delle famiglie, ma anche dare delle risposte concrete e veloci a seconda del contesto. E questo non può prescindere da una professione infermieristica con ruoli differenziati e con più responsabilità sia cliniche che manageriali. Si consideri, tra le altre cose, che la gestione delle case di comunità, proprio da un punto di vista manageriale, sarà probabilmente in carico a personale infermieristico. Quindi serve un ripensamento moderno dei ruoli e pertanto della formazione delle nuove generazioni di infermieri. La dirigenza infermieristica come la dirigenza medica andrà formata in scuole di management interprofessionali e interdisciplinari.
Sviluppare prossimità vuol dire sì avvicinarsi ai problemi degli individui delle famiglie, ma anche dare delle risposte concrete e veloci a seconda del contesto.
Quello del task shifting è un tema ancora molto discusso nel nostro Paese…
Nei Paesi anglosassoni, le reti di ospedali e di servizi territoriali più qualificate sono sostenute grazie alla figura specialistica del nurse practitioner che presuppone una serie di responsabilità, comprese anche parte dello screening diagnostico di base e la prescrizione di alcune terapie concordate in un protocollo. In Italia questo modello non è ancora decollato o, meglio, formalizzato, basti pensare che gli infermieri non sono neanche autorizzati a prescrivere i presidi a supporto dell’assistenza. A tutt’oggi la professione medica fatica ad accettare che quella infermieristica possa crescere e assumere un ruolo di partnership e non di dipendenza. Questa resistenza si incontra, in particolare, nella medicina generale che, diversamente da quella ospedaliera, non è a stretto contatto con gli infermieri e, tendenzialmente, non si accorge del cambiamento culturale in atto nell’ambito delle professioni sanitarie in generale. Spesso il dibattito è circoscritto al binomio “medici di medicina generale e infermieri” quando invece è necessario pensare a team multiprofessionali integrati, formati anche, per esempio, da dietisti e fisioterapisti, e in stretto coordinamento con le reti di volontariato e gli studi libero professionali.
C’è bisogno di una riprogettazione culturale, curricolare in prima istanza.
Dove investirebbe quindi i soldi del recovery plan?
Ci mancano capability, competenze e formazione mirata e diversificata: è questa la sfida futura. Investirei quindi parte dei fondi per dare solidità alla rete formativa universitaria delle professioni sanitarie e dell’infermieristica, sia offrendo strutture di laboratorio e dotazioni di tutor professionali ai corsi di laurea ma prevedendo scuole di specializzazione con borse di studio per formare la leadership. È impensabile che la prossimità nasca dall’oggi al domani quando tutto il sistema accademico e formativo è incentrato sull’ospedale e sull’acuzie; c’è bisogno di una riprogettazione culturale, curricolare in prima istanza. C’è un Paese che deve innescare una marcia in più se vogliamo immaginare fra dieci anni una rete di servizi di prossimità che non sia rappresentata dal singolo infermiere o medico di medicina generale che va da una casa all’altra a effettuare una prestazione, ma che sia veramente una rete di presa in carico e di gestione di problematiche periferiche prima che arrivino in ospedale.
A cura di Laura Tonon