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Prossimità Interviste

La prossimità in psichiatria d’urgenza

Dalla contenzione alla vicinanza per comunicare

Intervista a

Paolo Milone

Psichiatra

A cura di

Nicolò Saverio Centemero

Ente ospedaliero Cantonale

By Luglio 2021Aprile 26th, 2022Nessun commento
Fotografia di Lorenzo De Simone
La contenzione meccanica dei pazienti psichiatrici è ancora oggi una delle questioni più controverse e dibattute in Italia e nella comunità internazionale relativamente all’assistenza psichiatrica. Questa pratica, infatti, solleva una grande quantità di problemi di ordine etico, clinico, giuridico e medico legale. Se esistono posizioni, in ambito giuridico e psichiatrico, che assimilano la contenzione meccanica a una pratica da poter utilizzare in stato di necessità, molto diffusa è la posizione alternativa che sostiene l’illegittimità etica e giuridico-costituzionale di questo strumento, che ne nega la valenza terapeutica. Sicuramente è una pratica molto diffusa, non solo nei reparti psichiatrici, e anche per questo numerose associazioni si sono unite nella promozione di una campagna, “…e tu slegalo subito”, che ne chiede la totale abolizione. In questo scenario libri come “L’arte di legare le persone” di Paolo Milone, psichiatra genovese, sono sicuramente utili per continuare a considerare la contenzione come un tema chiave sul quale confrontarsi.

 

Paolo Milone è uno psichiatra genovese, classe 1954, che ha lavorato in un centro di salute mentale e in un reparto ospedaliero di psichiatria d’urgenza. Per Einaudi ha pubblicato, nel gennaio di quest’anno, “L’arte di legare le persone”, il suo primo libro. Si tratta di un testo frammentario, poetico, ironico, a tratti dolcissimo, a tratti cupo e violento. Protagonista è la psichiatria d’urgenza, narrata per impressioni, aneddoti e riflessioni. Momenti lirici e attimi di pura tragedia si susseguono a ritmo incalzante e senza un apparente fil rouge. Non c’è teoria, non c’è nulla di astratto, c’è il quotidiano del duro lavoro clinico, della sofferenza dei pazienti, del ritorno a casa alla notte stremati… ma c’è anche l’amore per i suoi matti, così come li chiama l’autore, e per la propria professione: “In psichiatria d’urgenza, quella che va accettata completamente è la persona, non la malattia. Altrimenti accetteremmo che i dementi attraversino la strada col rosso senza intervenire”.

La parola prossimità, con il suo duplice significato di vicinanza fisica e metaforica, ha molto a che fare con la contenzione, a cui lei dedica parecchio spazio nel libro. Per contenere bisogna essere prossimi al paziente, al suo corpo. Tuttavia, questa prossimità, questa vicinanza richiesta dall’atto stesso del contenere, le permette anche di “riunire frammenti spezzati tra loro, mettere insieme mente e corpo, riunificare la persona, come un gesso rinsalda le ossa. Far di pezzi, uno”. Come, per lei, la contenzione è prossimità?

La contenzione fisica, che è comunque un atto estremo, oltre a evitare che il paziente si faccia male, serve ad aiutare una persona confusa – che non ha consapevolezza di sé, del suo corpo, della differenza tra sé e la realtà esterna – a riprendere contatto con sé stesso, con il suo corpo e a percepirsi come unità unica e separata dal mondo esterno. È interessante notare che questa unificazione è, in alcuni casi, mal sopportata: il paziente è più angosciato dalla prossimità con sé stesso che dalla scissione. Questo fa parte del gioco opposto e continuo tra prossimità e psicosi. Se poi consideriamo la carenza di prossimità e, per esempio, degli abbracci, imposta a tutti in questo periodo di pandemia e di distanziamento, la domanda è: ma siamo sicuri che l’aumento della prossimità e più abbracci siano quello che i pazienti psichiatrici desiderano? In realtà i pazienti psichiatrici non desiderano un ritorno della prossimità e rifuggono dall’abbraccio. La ragione principale è che, avendo un io fragile, temono di essere invasi dall’altro e, quindi, tengono maggiori distanze.

La prossimità è materia scottante e delicata.

La prossimità è materia scottante e delicata. Ognuno di noi tiene con gli altri una distanza minima di sicurezza, che varia da persona a persona. Questa distanza, presente anche tra gli animali, viene ridotta soltanto tramite comportamenti cerimoniali di corteggiamento o di gioco. Nei pazienti psichiatrici, ogni disturbo comporta una diversa distanza minima dall’altro. Gli schizofrenici sono quelli che stanno più lontani e così i paranoici. I borderline, fragilissimi, hanno molta cura della distanza: se voi vi avvicinate, loro si allontanano. Lo stesso fanno i nevrotici. Magari è questione di centimetri, ma è così. I depressi non curano le distanze, sono già invasi dai loro pensieri. Gli euforici, gli isterici, i caratteriali, i tossicomani, si avvicinano sempre di più, al di sotto della media delle persone e della vostra sopportazione, e siete voi che vi allontanate. È anche da notare che nella relazione la parola funge contemporaneamente da avvicinatore e distanziatore sociale. Per parlare bisogna avvicinarsi alla distanza dell’udito, ma non serve di più e ci si spiega senza toccarsi. Quando la parola cede non la si può più usare, come accade nella psicosi acuta, dove si comunica col corpo, si passa al corpo a corpo. Lo stesso si ritrova tra la madre e il bambino piccolo. Nel mio libro “L’arte di legare le persone”, la prima paziente che presento, comunica il suo dolore col suo corpo, si procura innumerevoli tagli sulla pelle, e comunica il suo interesse per me arpionandosi con le unghie al mio braccio. Duro ma efficace.

Joan Didion in un saggio intitolato “Why I write” dice: “Scrivo interamente per capire che cosa penso, che cosa sto guardando, cosa vedo e che cosa significa. Cosa voglio e di cosa ho paura”. Lei, in alcune occasioni in cui ho avuto modo di ascoltarla e nella nota finale del suo libro, afferma che quanto racconta è, in qualche modo, una prossimità della verità. Mi chiedo se questo margine di distanza dalle vicende realmente vissute, se questa sua rielaborazione dei fatti, non le sia servita per una comprensione profonda di quello che pensa e di quello che le fa paura della cura psichiatrica?

Essere prossimi a noi stessi e alla realtà è la cosa più difficile di tutte. Si riesce a vivere e a capire solo mantenendo una certa distanza da noi e dalla realtà. Nessuno riesce a essere prossimo più di tanto a sé stesso, a tutte le sue pulsioni, anche quelle innominabili, a tutte le sue ambivalenze, alle sue parti malate, alle sue paure. Molto di noi viene relegato nell’inconscio o viene proiettato all’esterno su altre persone; così, è inevitabile, si creano continue piccole confusioni, fraintendimenti tra noi e gli altri che fanno parte della normalità della vita. Noi siamo sempre lontani da nostre parti, da nostri pezzi e peregriniamo tutta la vita alla loro ricerca. Forse questa è anche una delle ragioni che ci spinge alla ricerca degli altri. In qualche modo soffriamo sempre di una solitudine da noi stessi. Questa difficoltà alla prossimità con noi stessi è ancora maggiore nei pazienti psichiatrici.

Essere prossimi a noi stessi e alla realtà è la cosa più difficile di tutte.

C’è un verso che amo particolarmente nel suo libro: “La parola è paglia”. È una metafora evocativa che si presta a molteplici interpretazioni. Da quanto scrive nel capitolo nono – “la parola non è luce che scaccia i fantasmi della notte” o “non è legna da conservare per il freddo” – mi sembra che lei suggerisca che la parola in psichiatria sia perigliosa, un’approssimazione, un tentativo fallito di trasmettere un concetto univoco tra chi parla e chi ascolta… Cosa comporta questo nella cura?

È proprio vero che nella psicosi la parola perde il suo potere comunicativo, è inutilizzabile, quindi la psicosi è il luogo della solitudine rispetto agli altri, ma anche della solitudine rispetto a noi stessi, non si riesce a comunicare con noi stessi. La psicosi è un modo primitivo di funzionare della mente, quindi tutti noi viviamo in sua prossimità: basta abusare di alcool perché la nostra mente inizi a funzionare con modalità psicotiche, basta avere un problema di ipossiemia o ipoglicemia cerebrale che la nostra mente cominci a funzionare in modi più primitivi. Non esiste una differenza tra persone normali e folli, ma tra diversi modi di funzionare della stessa mente di ciascuno di noi.

Altra questione è quella della prossimità dello psichiatra con la psicosi dei suoi pazienti. La psicosi, in qualche modo, è contagiosa; gli psichiatri, un po’ come i radiologi con le radiazioni, stanno attenti al loro tempo di esposizione alla psicosi e usano trucchi, stratagemmi che li tengono al riparo, che li proteggono. Ognuno ha i suoi, servono per restare ancorati, prossimi, alla realtà.