Il prossimo è per definizione vicino, ma è spesso separato da noi da un confine. Lei ha parlato di Papa Francesco come di un militante capace di trasformare i confini in frontiere: ma come superare questo limite?
Il confine è un limite che può trasformarsi in una frontiera di scambio e di ricerca grazie alla buona volontà degli uomini e dei governi. Mi pare particolarmente significativo affrontare questo tema nelle ore della crisi di Ceuta in cui viene utilizzato l’esercito per evitare lo sbarco dei migranti e un agente della Guardia civil salva un neonato dalle onde del mare. Uno dei messaggi più potenti del Vangelo è proprio questo: la parabola del compelle intrare ricorda anzitutto che esistono i ricchi e i poveri. Non a caso il padrone di casa ordina al suo servo di invitare gli ultimi, “i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi”, ossia fuor di metafora che esiste una grande questione sociale legata al tema della povertà e al rapporto tra povertà e immigrazione nei cosiddetti “continenti della fame”, in particolare l’Africa della fascia subsahariana. L’ecatombe di morti senza nome e senza volto tra le due sponde del Mediterraneo e nelle diverse frontiere del mondo (per esempio, quella che separa il Messico dagli Stati Uniti) è una delle pagine più feroci e rimosse del nostro tempo. D’altra parte, l’accoglienza illimitata non è possibile e trova un limite nelle capacità di integrazione degli stranieri.
Invece di riaccendere il dibattito sull’immigrazione, per spegnerlo subito dopo in attesa della prossima ecatombe, sarebbe opportuno provare a rispondere a una semplice domanda: i governi nazionali ed europei devono o no fare il massimo per evitare la morte seriale di questi uomini-pesce, non-persone, corpi del reato, disperati senza speranza? Dobbiamo impegnarci per davvero, soprattutto dal punto di vista economico, o possiamo continuare a indignarci un tanto al chilo, scrivendo articolesse “buoniste” o “cattiviste”, ma sempre uguali a sé stesse perché sclerotizzate nell’ideologia di argomenti ormai tutti usurati, e poi voltarci dall’altra parte sino alla prossima volta? E ancora: il modo con il quale ci relazioniamo a queste stragi silenziose è misura del grado della nostra civiltà (italiana, europea, occidentale, globalizzata, cristiana, secolarizzata, post-moderna, multiculturale e chi più ne ha più ne metta) oppure no? Insomma: dobbiamo fare di tutto per salvarli, il che significa mettere ulteriormente mano al portafoglio perché le politiche di intervento costano, oppure non ci conviene farlo perché più muoiono e più diminuisce il numero di quanti, una volta sbarcati, ci ruberanno il lavoro e ridurranno la sicurezza delle nostre strade e dei nostri figli? E se optiamo, legittimamente, per la seconda scelta, magari senza ammetterlo a gran voce, ma soltanto voltandoci dall’altra parte, possiamo continuare a dirci cristiani o semplicemente umani? Soltanto rispondendo a queste domande in un modo o nell’altro e adottando comportamenti di governo conseguenti, la politica può essere in grado di recuperare un senso e una capacità di azione.
L’ecatombe di morti senza nome e senza volto tra le due sponde del Mediterraneo è una delle pagine più feroci e rimosse del nostro tempo.
Se il dialogo e il confronto sono strumenti non rinunciabili per avvicinare il prossimo, che spazio ha il conflitto nella riflessione di Papa Francesco?
Premesso che non sono un esperto né, ovviamente, un interprete del pensiero di Papa Francesco, che, sulla scorta della lettura del bel libro del professor Massimo Borghesi, mi pare avere uno spessore teologico e delle implicazioni dottrinarie che sarebbe sbagliato sottovalutare, credo di avere compreso che per Bergoglio la realtà del conflitto non può essere rimossa, ma l’impegno deve essere quello di ricercare sempre un’unità tra gli opposti. Si tratta di un pensiero forte basato sulla consapevolezza della drammaticità della storia e della natura paradossale del cristianesimo, in cui il figlio di Dio è anche integralmente uomo, che muore nella disperata e creaturale consapevolezza di essere stato abbandonato dal Padre.
La sintesi finale spetterà a Dio, ma intanto, nella vita di quaggiù, bisogna abbracciare un pensiero polare ottimistico, che cerca di valorizzare gli elementi di unità e non quelli di divisione. Questa dottrina dell’unità degli opposti si trova già negli scritti del fondatore dei gesuiti Ignazio di Loyola, percorsi come sono da una continua polarità tra la grazia divina e la libertà dell’uomo, ed è stata riproposta nel corso del Novecento da due teologi molto importanti nella formazione di Bergoglio, il francese Herny de Lubac e l’italo-tedesco Romano Guardini, al cui studio del pensiero il futuro pontefice pensò di dedicare la sua tesi di dottorato in teologia. Per raggiungere questo obiettivo è necessaria la predisposizione al dialogo in cui emerge la formazione e l’identità gesuita di questo Papa. Per un gesuita la propria identità non è una fortezza da difendere, ma un ponte verso gli altri, che sono tanto più interessanti quanto da lui distanti. In questa visione il dialogo diventa un metodo che si fa sostanza: non significa, ovviamente, rinunciare ai propri convincimenti, ma pensare che una verità figlia del confronto con l’altro sia più larga e inclusiva e, quindi, maggiormente fondata. In un gesuita l’identità e il dialogo non sono mai dimensioni contrapposte perché la verità non è un ciondolo da esibire, ma il prodotto di una ricerca che si arricchisce mediante la ricerca stessa. Questa inclinazione al dialogo deriva dalla natura missionaria ed esplorativa dei gesuiti, un abito mentale che li ha fatti diventare degli specialisti delle terre vergini, che fossero i continenti sconosciuti da cristianizzare, i territori interiori di un fanciullo da educare o la coscienza di una persona da penetrare con la confessione.
L’impegno deve essere quello di ricercare sempre un’unità tra gli opposti.
Nella sua ultima enciclica “Fratelli tutti”, Papa Francesco illustra bene questa attitudine curiosa proprio nel paragrafo dedicato al dialogo e all’amicizia sociale, quello in cui spiega una semplice verità, ossia che “la vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita”, riprendendo un verso del poeta e cantautore brasiliano Vinícius de Moraes. L’esistenza – aggiunge – è un poliedro dove il tutto è superiore alle singole parti e ciò obbliga a includere i marginali e le periferie “perché nessuno è inutile, nessuno è superfluo”.
Se il prossimo è una donna, può nascere qualche problema in ambienti della Chiesa. Anche a questo riguardo Papa Francesco sta suggerendo una nuova direzione. È così?
Con la necessaria prudenza, mi pare di sì. Per esempio, recentemente Papa Francesco ha istituzionalizzato con un motu proprio la presenza delle donne sull’altare durante la messa, nella lettura dei testi sacri e come dispensatrici dell’eucarestia. Il rapporto tra le donne e la Chiesa cattolica è sempre stato all’insegna della contraddittorietà, dentro un campo di tensioni calato in contesti storici assai mutevoli. Tradizionalmente la donna ha occupato lo spazio di una doppia polarità: da una parte, il misticismo, grazie al quale si è fatta portatrice di esigenze di riforma ecclesiastica, ma anche politica, secondo una linea plurisecolare che da Caterina da Siena passa per Teresa d’Avila e arriva sino a Teresa di Lisieux, attraversando i molteplici fenomeni di “sante vive”, dotate di poteri carismatici e profetici; dall’altra, “l’inferno monacale” delle suore “con gli occhi bassi”, rinchiuse nei recinti claustrali dei monasteri, isolate dal mondo e sottomesse ai poteri maschili del sacerdote confessore. In mezzo a questi due indicativi estremi abbiamo un mondo fluttuante, in cui il ruolo della donna nella Chiesa e secondo la Chiesa nella società ha seguito, spesso in contrasto e, nei migliori dei casi, arrancando, la storia dell’emancipazione femminile, a sua volta collegata ai processi di secolarizzazione in atto. Nel solco del richiamo al Concilio Vaticano II, Papa Bergoglio sembra indicare, prudentemente, una prospettiva. Intanto, con la sua decisione, la presenza della donna si istituzionalizza insediandosi nello spazio dell’altare, ma spetterà al tempo fare il resto perché lo spazio del potere è sempre più il tempo della donna.