Tra i temi ricorrenti nel magistero di Papa Francesco c’è senza dubbio quello della prossimità: un concetto che ritorna spesso nelle sue parole e che trova applicazione concreta nei suoi gesti. Partendo dall’idea di un Dio vicino, il pontefice gesuita richiama di continuo la necessità di farsi prossimi agli altri: non solo a quanti sono naturalmente vicini come familiari o connazionali, ma anche a coloro che sono lontani. È, il suo, un appello costante a mettersi al servizio della gente che normalmente viene dimenticata, lasciata ai margini, perché considerata distante: in particolare i migranti – estranei, stranieri per antonomasia – i malati, gli anziani, i poveri, insomma tutta quella che Bergoglio definisce l’umanità scartata.
La vicinanza è lo stile di Dio, ha detto ripetutamente il Papa argentino, invitando a testimoniare tale prossimità con l’amore fraterno che supera ogni barriera e raggiunge ogni condizione, e offrendo come modello da imitare la figura evangelica del buon samaritano, che con compassione si è fatto vicino a ogni individuo. Soprattutto in questo periodo segnato da covid-19 in cui la parola d’ordine è, al contrario, distanziamento. “La pandemia – ha scritto nel messaggio per la Giornata mondiale del malato 2021 – ha messo in risalto la dedizione e la generosità di operatori sanitari, volontari, lavoratori e lavoratrici, sacerdoti, religiosi e religiose, che con professionalità, abnegazione, senso di responsabilità e amore per il prossimo hanno aiutato, curato, confortato e servito tanti malati e i loro familiari. Una schiera silenziosa di uomini e donne che hanno scelto di guardare quei volti, facendosi carico delle ferite di pazienti che sentivano prossimi in virtù della comune appartenenza alla famiglia umana”.
È necessario farsi prossimi agli altri: non solo a quanti sono naturalmente vicini, ma anche a coloro che sono lontani.
Un atteggiamento, dunque, che si articola nelle tre modalità “vicinanza, compassione e tenerezza”, come ha ripetuto in un angelus e un’udienza generale a febbraio e marzo scorsi. Questa prossimità il vescovo di Roma non la predica soltanto, ma la pone in essere in prima persona. Basti pensare alla recente visita nel martoriato Iraq, fortemente voluta e compiuta nonostante tutto e tutti; o alla decisione di donare dosi di vaccino agli indigenti assistiti dall’elemosineria apostolica per sostenere la campagna di immunizzazione. “In questo tempo in cui tutti siamo chiamati a combattere la pandemia – ha detto a Pasqua nel messaggio urbi et orbi – i vaccini costituiscono uno strumento essenziale per questa lotta. Nello spirito di un internazionalismo dei vaccini, esorto l’intera comunità internazionale a un impegno condiviso per superare i ritardi nella loro distribuzione e favorirne la condivisione, specialmente con i Paesi più poveri”.
Non solo, nell’America Latina ferita dal coronavirus – dove nei giorni scorsi si è superata la quota dei 700 settecentomila morti – attraverso la nunziatura apostolica a Bogotá, ha fatto giungere in Colombia materiale medico e chirurgico per la cura dei pazienti contagiati: quattro respiratori polmonari, diverse mascherine e circa duecento occhiali di protezione. Naturalmente non è stata la prima volta: un anno fa, in pieno lockdown, nel giorno del suo onomastico (san Giorgio, il 23 aprile) aveva inviato dispositivi sanitari, tra cui tute per le terapie intensive, a ospedali di Italia, Spagna e Romania. Poi, ad agosto, aveva fatto recapitare diciotto ventilatori e sei ecografi portatili in Brasile, dove a essere maggiormente colpiti erano e sono tuttora gli indigeni dell’Amazzonia.