Siciliana di nascita e romana di adozione, Giovanna racconta di essere nata due volte e del “suo continuo essere e non essere quel corpo (…) col ritmo serrato e affascinante della sua dolente lingua poetica” scrive Dacia Maraini nella presentazione del suo primo libro “Dolore minimo”. Racconta la sua transessualità come una metamorfosi a tappe, in un viaggio a ritroso per raggiungere sé stessa.
Come è stato il percorso di presa di coscienza interiore di una nuova identità?
Giovanna è arrivata insieme alla poesia, e viceversa. La consapevolezza di essere in un certo modo, mi sono resa conto con gli anni, l’ho raggiunta quando ho iniziato a scrivere versi. Forse il grado di introspezione che può dare la scrittura è qualcosa di miracoloso, una rivelazione luminosa che non sarebbe giunta se non provando a dare significato a quello che ero scrivendo. Come se, insomma, la penna sapesse già e il bisogno di scrivere un modo per dirselo.
Qual è stata la parte più difficile e dolorosa di questo cambiamento necessario e doveroso?
La parte più difficile, per quello che mi riguarda, è sempre stato fare i conti con sé stessi. Dover ammettere che qualcosa sarà sempre andato perduto. L’identità costruita lentamente e a fatica. Le crisi, le debolezze. La paura, che in qualche modo, trova sempre il modo per tornare. E, soprattutto, dover familiarizzare con la certezza che la strada non avrà mai fine: per tutta la vita sarà necessario prendere farmaci per evitare di intravedere, sulla tua pelle, l’ombra di ciò che eri. Questo mi terrorizza: che, alla minima distrazione, potresti ricadere nell’incubo.
Quando il dolore diventa minimo?
Nel momento in cui comprendi che ti appartiene, che è tuo come la maglia che indossi, il colore dei capelli, come la voce in gola. Allora saprai che in quel dolore, grande, terribile, lacerante, ci sei tu: una parte di te sarà per sempre in quel dolore. Se lo accetti, diventerà piccolo. Se lo accetti, ti lascerà andare.
Cosa significa affrontare la transessualità oggi nel nostro Paese?
L’Italia ha una legislazione che tutela e segue le persone trans, dal punto di vista medico-sanitario e giudiziario. Un po’ meno dal punto di vista sociale e della discriminazione. La società forse è l’elemento precario, non ancora del tutto pronto né istruito. Eppure sono fiduciosa.
Lawrence Ferlinghetti scriveva che la poesia è la distanza più breve tra due essere umani “Poetry is a naked woman, a naked man, and the distance between them”. Possiamo trovare un parallelismo tra la poesia e la sua biografia?
Dicono che la scrittura poetica debba allontanarsi dal sé, dall’autobiografia. Eppure sono fermamente convinta che non c’è maniera migliore di descrivere il mondo se non partendo da sé stessi, dal proprio corpo, dalla prospettiva che questo offre, dalla sua posizione in mezzo alle cose.
La poesia potrà aiutare a cambiare mentalità facendo vedere il mondo da un punto di vista diverso?
Assolutamente sì. La letteratura da sempre si fa portavoce di questo valore civile fondamentale votato all’educazione e alla formazione delle società future.
“Dove non siamo stati” è il suo secondo libro di poesia. Quale viaggio racconta?
È un viaggio nell’assente, in ciò in cui non siamo più (o non siamo ancora stati): corpi, luoghi, storie. Per capire che, proprio lì, invece, siamo sempre stati. E la parola poetica è un canale, un tramite tra noi e l’invisibile.
Il suo prossimo libro?
Ho alcune idee, non mi dispiacerebbe provare a scrivere in prosa.
Imparai così dall’imperfezione /
degli alberi nel farmi ramo sottile /
e spigoloso per tendere / obliquamente /
alla verità della luce.
Capivi, madre, l’ordine nascosto /
delle cose – così quando ai miei otto /
anni sussurravi «figlia mia», /
io ti rinnegavo tante volte /
quante erano le foglie che svolavi. /
«Siamo foglie d’autunno, figlia mia» /
era il tuo unico, dolce monito.
Solo ora comprendo, / a ventidue anni
e un nuovo nome, / quanto male avrei fatto /
a rinnegare l’antichissima voce /
che mi ha fatto salva la vita.
E forse, figlia mia, sei giunta di notte /
quando le ore non hanno volto, /
né pianto, né ombra di nome /
per mostrarmi che in ogni vita /
c’è un punto esatto che cede / ma anche
un punto, più occulto, / che resiste.
Allora ci fu solo da sbrogliare / gli anni
subìti, mettere a posto / le parole e liberare
all’aperto / quello che a mani giunte
si temeva. / E quel mostro che in tanti anni /
avevo allontanato, fu assai più /
docile quando, abolite le catene, /
lo presi infine per mano.
Da quando il corpo ha cominciato /
a mutare, ogni punto è una parete /
sfondata. Non ci sono più angoli /
inviolati a contenerti.
Tu resti. Così la pelle sconquassa / in marea
e il corpo s’apre / a voragine. Inghiotte tutti
/ in un gorgo verticale d’odio. / Rimaniamo
soli, come allora, / e il peso della pelle
si screzia. / Questo – dici – è il male
necessario / all’accettazione.
Ma le cicatrici restano e neppure /
quelle il corpo dimentica. / È come se la
natura, liberata, / vi ballasse ora adagio
sopra / a ricordarci che mai a niente /
si rinuncia per sempre.