Malgrado il miglioramento dello stato di salute avvenuto negli anni, le disuguaglianze socioeconomiche nella salute continuano ad esistere: la salute è direttamente proporzionale al vantaggio sociale. Le disuguaglianze si evidenziano utilizzando qualsiasi indicatore di stratificazione sociale: il livello di istruzione, lo stato occupazionale, il reddito, le condizioni abitative, indicatori singoli o compositi relativi all’area di residenza.
Dove siamo arrivati
Il divario dello stato di salute per livello socioeconomico c’è, ovunque. Nel nord e nel sud del mondo come nel nord e nel sud dell’Italia. La differenza nella speranza di vita alla nascita tra gli italiani più istruiti e meno istruiti varia da due anni e mezzo in Emilia-Romagna ai tre anni e sei mesi di regioni come Friuli Venezia Giulia, Lazio e Campania. Il divario tra le donne è meno forte, ma comunque è persistente.
Le disuguaglianze si manifestano da subito, dalla nascita. I bambini di donne di bassa posizione socioeconomica pesano un po’ meno, a parità di settimane di gestazione, sesso ed età materna, di quelli nati da donne di alta posizione sociale. Le differenze nello stato di salute tra più istruiti/meno istruiti, occupati/disoccupati, tra categorie di deprivazione della sezione di censimento di residenza appaiono in tutte le fasi della vita, con un apice nell’età produttiva.
La bassa posizione socioeconomica è associata a una più elevata prevalenza di stili di vita dannosi, a una più alta prevalenza di patologie croniche e acute, fino a una più elevata mortalità, indicatore per eccellenza dello stato di salute della popolazione. Con l’avanzare dell’età è normale che si manifestino più patologie croniche contemporaneamente. Uno studio scozzese, pubblicato sul Lancet alcuni anni fa, ha mostrato che nelle aree maggiormente deprivate l’insorgenza di più patologie croniche avviene 10-15 anni prima che nelle aree ricche. Le disuguaglianze si manifestano anche nell’accesso ai servizi. All’introduzione di una nuova procedura terapeutica, ne beneficiano subito le classi più agiate. In Italia, con un servizio sanitario universalistico, la differenza si appiattisce una volta che la procedura è diventata lo standard di cura. Fortunatamente, diversi studi hanno riportato che nonostante le differenze nell’incidenza di patologie, una volta che le persone entrano nel Servizio sanitario nazionale per essere curate, gli esiti a breve-medio termine sono simili tra i vari gruppi sociali.
La sindemia di covid-19
Per colmare il divario tanto è stato fatto e si sta continuando a fare, ma ora ci troviamo in un momento cruciale: siamo alle prese con una crisi che ci fa quasi dimenticare quella del 2008. Secondo i dati Istat il secondo trimestre del 2020, rispetto allo stesso trimestre del 2019, ha visto 850.000 lavoratori in meno, per lo più giovani e donne. La stessa pandemia di covid-19 ha colpito in maniera diversa i gruppi della popolazione. I più svantaggiati hanno condizioni abitative e lavorative dove il distanziamento è poco possibile. Durante il lockdown ho avuto l’occasione di parlare con un medico di pronto soccorso, che essendo consapevole del rischio a cui era sottoposto, aveva incoraggiato moglie e figli a trasferirsi nella casa al mare. Quante persone di basso reddito hanno la possibilità, in caso di contagio o sospetto tale, di distanziarsi?
Sono morte di covid-19 più di 60.000 persone in Italia. La gravità della manifestazione della malattia e la sua letalità sono state molto maggiori in pazienti con malattie croniche come broncopneumopatia cronica ostruttiva, diabete o patologie cardiovascolari, più frequenti nei gruppi di popolazione maggiormente svantaggiati, tanto che si è parlato di sindemia di covid-19, malattie croniche e determinanti sociali. La pandemia ha portato alla sospensione delle attività ambulatoriali. Pochi mesi di ritardo nella diagnosi e nella cura di una patologia hanno avuto sicuramente un impatto diverso per i diversi strati sociali, impatto che andrà misurato. Quello che siamo chiamati ad affrontare, oltre all’emergenza epidemica, è la crisi economica, che alcuni economisti paragonano alla grande depressione del 1929.
Mancano solo dieci anni e abbiamo delle indicazioni chiare sulla direzione da seguire. Promuovere l’inclusione sociale, economica e politica implica il ridurre a monte le disuguaglianze.
Dove dobbiamo andare
In questa situazione il decimo degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, cioè quello di ridurre le disuguaglianze all’interno e fra i paesi, è una grande sfida. Tale obiettivo esige che il tasso di crescita del reddito del 40 per cento della popolazione più povera sia incrementato in modo durevole. Da qui al 2030 dovrà essere promossa l’inclusione sociale, economica e politica. Dovranno essere garantite le pari opportunità, eliminando leggi, politiche e pratiche discriminatorie. Dovranno essere agevolate una migrazione e una mobilità ordinate e sicure. Mancano solo dieci anni e abbiamo delle indicazioni chiare sulla direzione da seguire. Promuovere l’inclusione sociale, economica e politica implica il ridurre a monte le disuguaglianze. E tornando all’inizio, agli indicatori che vengono usati per misurarle, significa lavorare sull’istruzione, sul lavoro, sul reddito, sulle condizioni abitative, sull’ambiente in cui viviamo e, per gli operatori del Servizio sanitario nazionale, sulla salute.