Covid-19 ci ha trovati impreparati, e ha trovato impreparata anche l′epidemiologia italiana. Come è potuto accadere?
Con lo storico lavoro di John Snow sull′origine del colera che nel 1854 aveva colpito Londra, l′epidemiologia si dimostrò uno strumento potente di sanità pubblica, capace di mettere in evidenza le associazioni tra agenti o condizioni ambientali e specifiche malattie infettive, e di individuare le misure necessarie per contenerne la diffusione. Da allora abbiamo assistito a una progressiva transizione epidemiologica che ha visto nel mondo il prevalere delle malattie cardiovascolari rispetto alle malattie trasmissibili come prima causa di morte. Si è erroneamente ritenuto che le malattie infettive potessero essere tenute sotto controllo con gli antibiotici e i vaccini e che l’impegno dell’epidemiologia e della sanità pubblica dovesse spostarsi altrove. Le malattie trasmissibili sembrava riguardassero solo i paesi a basso reddito, dove l’accesso limitato a farmaci e vaccini imponeva e impone tutt’oggi un forte impegno negli interventi di sanità pubblica. Non credo che sia un caso che uno tra gli studi più informativi sulle modalità di trasmissione della covid-19 sia stato condotto in India [1]. In Italia, in particolare, l′epidemiologia si è caratterizzata per un grande interesse allo studio dell’etiologia occupazionale, dell’effetto delle esposizioni negli ambienti di lavoro e dell’effetto dei fattori ambientali, esposizione a siti inquinanti, inquinamento atmosferico, campi elettromagnetici e cambiamenti climatici. L’epidemiologia delle malattie infettive ha ceduto il campo alla clinica dove forte è la pressione da parte del mercato per quanto riguarda lo sviluppo dei vaccini, della diagnostica e della terapia, con un interesse sempre minore verso gli interventi di salute pubblica. L’epidemia di hiv ci avrebbe dovuto insegnare che l’epidemiologia è una metodologia trasversale, un metodo e uno stile di ragionamento critico e di valutazione critica delle conoscenze e dei dati che si applica a tutti gli ambiti della salute.
L’epidemia di hiv ci avrebbe dovuto insegnare che l’epidemiologia è una metodologia trasversale, un metodo e uno stile di ragionamento critico e di valutazione critica delle conoscenze che si applica a tutti gli ambiti della salute.
Non le sembra, però, che le attività messe in campo dalla nostra epidemiologia siano comunque state un utile riferimento in piena emergenza covid-19?
Certamente lo sono state. Sia l′Associazione italiana di epidemiologia (Aie) sia la direzione scientifica della rivista Epidemiologia & Prevenzione hanno fatto un grosso lavoro per favorire la condivisione delle attività messe in atto dalle regioni italiane, soprattutto da quelle maggiormente colpite: Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna. Dopo aver creato rapidamente un archivio di preprint dei lavori prodotti nel momento dell′emergenza, è stata lanciata una call for papers di lavori scientifici da sottoporre a peer review per la pubblicazione in uno speciale della rivista dedicato alla pandemia. Sono stati organizzati dei webinar con una media di 400 partecipanti. Altrettanto importanti sono stati i position paper redatti. Mi riferisco in particolare al documento dell′Aie ‟Uso di test immunologici e indagine di sieroprevalenza” che ha messo in evidenza i limiti dei test diagnostici e allo stesso tempo la rilevanza dell′attività di sanità pubblica, e all′ottimo lavoro di gruppo, coordinato da Giovannino Ciccone dell′Ospedale Molinette, che ha individuato le priorità della ricerca clinica epidemiologica [2]. A fronte di uno shock iniziale la comunità dell′epidemiologia italiana ha fatto buon servizio.
Cosa sta distinguendo la risposta dell′epidemiologia italiana da quella che era stata in occasione dell′emergere dell′infezione da hiv?
Per alcuni aspetti le risposte sono state simili. Allora come oggi l′informazione è servita per promuovere una serie di misure contenitive del contagio quali disinfezione dei dispositivi medici riutilizzabili e l′introduzione dei dispositivi monouso che prima non erano previsti. Lo stesso sta succedendo ora con la sanificazione delle mani, una misura che dovrebbe valere sempre per prevenire le infezioni nosocomiali e ancora di più quelle di comunità, e con l′adozione di dispositivi di protezione individuale. Tutte le attività sanitarie dovrebbero essere condotte in sicurezza. Inoltre, anche con l′hiv ci fu una spinta a introdurre subito delle terapie ancora prima che ci fossero delle prove di efficacia, come era accaduto con la zidovudina (Azt) nata come antitumorale e che successivamente diversi studi clinici dimostrarono non offrire dei vantaggi in monoterapia precoce rispetto a un inizio ritardato. Ma, a mio avviso, l′epidemiologia italiana ha avuto un ruolo importante nella gestione dell′epidemia da hiv che oggi solo in parte ritroviamo. Per esempio si riuscì a limitare un uso improprio dei test diagnostici e degli screening per l′infezione da hiv, mentre oggi sembra che si ragioni molto poco sul valore predittivo dei test rispetto alla prevalenza dell′infezione. E, cosa fondamentale, venne costruito il primo registro nazionale di casi di aids e il registro delle infezioni da hiv. In questo la regione Lazio svolse una funzione molto importante. Certamente l′implementazione di sistemi di sorveglianza epidemiologica, tra cui i registri hiv e aids, sono stati elementi determinanti per lo sviluppo delle conoscenze epidemiologiche. Qualcuno ha pagato comunque un prezzo per la costruzione di uno strumento che ora è previsto dalla norma nazionale, mi preme ricordare che il direttore dell′Agenzia regionale di sanità pubblica del Lazio, Carlo Perucci, fu denunciato per presunte schedature di malati di aids, per poi essere molto tardivamente scagionato. Credo che oggi rischiamo di trovarci in una situazione molto simile per la difficoltà di costruire dei sistemi di rilevazione dei dati fondamentali per individuare, sviluppare, programmare e infine valutare gli interventi che si rendono necessari per contrastare l′epidemia.
Sarebbe urgente orientare le poche risorse disponibili verso studi di valutazione degli strumenti metodologici migliori per affrontare un’epidemia, per conoscerne meglio gli effetti diretti e indiretti sulla salute e per ridurne l’impatto.
Quali le ‟lezioni” da trarre dunque per il futuro per una diversa preparedness della epidemiologia italiana?
Una lezione da trarre per non farsi trovare impreparati un domani è disporre di strumenti efficaci ed efficienti di raccolta di dati rapida e standardizzata, e promuovere l’implementazione di studi di valutazione dell’efficacia delle diverse misure di contenimento. È un paradosso che oggi si parli così tanto di medicina personalizzata, intelligenza artificiale, open data e manchi ancora una piattaforma condivisa a livello nazionale e regionale che abbia quei requisiti basilari per raccogliere tempestivamente i dati necessari per monitorare l′andamento dell′epidemia (oggi covid-19, domani chissà), individuare le misure più adeguate e valutarne l’efficacia. Da questo punto di vista credo che sarebbe urgente orientare le poche risorse disponibili, per esempio attraverso la ricerca sanitaria, verso studi di valutazione degli strumenti metodologici migliori per affrontare un’epidemia, per conoscerne meglio gli effetti diretti e indiretti sulla salute e per ridurne l’impatto. A questo proposito torna utile e vale la pena diffondere il lavoro citato prima sulle priorità di ricerca in ambito clinico epidemiologico di Ciccone e colleghi2, che va letto come una sorta di appello alla promozione della ricerca epidemiologica in questo ambito.
A cura di Laura Tonon
Bibliografia
[1] Laxminarayan R, Wahl B, Dudala SR, et al. Epidemiology and transmission dynamics of covid-19 in two Indian states. Science 30 Sep 2020: eabd7672.
[2] Ciccone G, Deandrea S, Clavenna A, et al. Covid-19 e ricerca clinico-epidemiologica in Italia: proposta di un’agenda di ricerca su temi prioritari da parte dell’Associazione italiana di epidemiologia. Epidemiol Prev 2020, in press. Versione preliminare: https://repo.epiprev.it/1938
Vedi anche
Le priorità della ricerca ai tempi di covid-19
La pandemia covid-19 ha generato un’enorme quantità di iniziative di ricerca clinica ed epidemiologica, soprattutto nei paesi più coinvolti dall’infezione. Tuttavia, la produzione di dati è stata frammentata e scoordinata, e caratterizzata da diverse debolezze metodologiche. Pochi i risultati ottenuti a fronte del grande sforzo. L’Associazione italiana di epidemiologia ha stimolato la formazione di un gruppo di lavoro proprio con l’obiettivo di individuare le più importanti lacune conoscitive e di proporre un’agenda di ricerca strutturata accompagnata da schede indicative della tipologia di studi da condurre.
“Questa agenda di ricerca rappresenta un contributo iniziale per indirizzare gli sforzi di ricerca clinica ed epidemiologica su temi ad alta priorità, con particolare attenzione agli aspetti metodologici. Sono auspicabili ulteriori sviluppi e perfezionamenti di questa agenda da parte delle autorità sanitarie pubbliche”, scrive il gruppo di lavoro coordinato da Gianni Ciccone presentando su Epidemiologia e Prevenzione i 12 quesiti generali di ricerca identificati come prioritari su cui orientare le risorse di sanità pubblica.