Al difficile compito di stabilire, in una sanità privatistica come quella americana, quale fosse il vantaggio competitivo di una struttura sanitaria piuttosto che un’altra, gli economisti Michael Porter ed Elisabeth Olmsted Teisberg risposero attribuendo un peso sostanziale all’offerta di cure migliori, non solo dal punto di vista della soddisfazione del paziente, ma anche dal punto di vista economico complessivo [1]. Sulla base di queste analisi, Porter sostenne la value based medicine, ovvero la medicina basata sul valore, con al numeratore l’esito clinico ed al denominatore il costo totale [2]. Il numeratore è specifico per ogni condizione clinica e strettamente correlato alle conoscenze scientifiche, mentre il costo totale al denominatore viene misurato non sul singolo intervento, bensì sull’intero ciclo di cure. La medicina basata sul valore si fonda sul concetto fondamentale che, per migliorare la qualità delle cure mantenendone la sostenibilità economica, si rende necessario ridefinire la natura della competizione in sanità, allineandola intorno al concetto di massimizzazione del valore per il paziente. All’aumentare di tale valore si assiste ad un miglioramento della sostenibilità economica in sanità, ed a trarne i benefici sono tutte le parti interessate.
Associare il termine “valore” alla salute del paziente, tuttavia, ha sempre suscitato scetticismo tra i medici che, erroneamente, lo collegavano ad una mera quantificazione in termini economici delle loro prestazioni, nonostante un numero sempre maggiore di organizzazioni sanitarie abbia cominciato ad inserire il concetto di valore tra gli obiettivi fondamentali da perseguire, implementando la teoria di Porter nello sviluppare le proprie politiche sanitarie [3].
La principale motivazione alla base del crescente interesse verso la value-based medicine, in particolare negli USA, si fonda sulla necessità di superare le problematiche legate all’aumento dei costi ed a una economia stagnante, che in sanità si riflettono nella difficoltà a pianificare in modo efficace i bilanci di spesa. In questo difficile contesto, il valore sta emergendo come un concetto – forse l’unico – che tutti gli stakeholder in sanità possono abbracciare. Provider, pazienti, contribuenti e politici tutti perseguono, infatti, il medesimo obiettivo, ovvero quello di migliorare gli esiti di salute nel modo più efficiente possibile.
Come tradurre in realtà il concetto di valore? Come spesso accade in medicina, il primo passo critico è rappresentato dalla sua misurazione. Chi fornisce prestazioni sanitarie ha bisogno di acquisire i dati sugli esiti considerati importanti per i pazienti, i cosiddetti patient-centered outcome – così come i costi per curare ciascun paziente. Questi dati costituiscono elementi essenziali per poter apprezzare un miglioramento del valore delle cure nel tempo. Tuttavia, accedere a tali informazioni non è affatto semplice, poiché la raccolta di tali dati non solo non viene incoraggiata, ma spesso perfino ostacolata dalla struttura organizzativa della sanità stessa, i cui sistemi informativi sono stati progettati principalmente per aiutare i medici nello svolgimento della loro pratica clinica e per definire le spese ad essa correlate. Esiti di salute importanti non vengono regolarmente registrati: quelli legati allo stato funzionale del paziente, ad esempio, restano addirittura come testo libero dentro le cartelle cliniche, rendendone impossibile alcuna analisi.
Le informazioni che generalmente interessano i provider sono legate principalmente alla produttività del medico, ad esempio in termini di numero di visite effettuate e costi relativi, mentre meno importanza viene data ad episodi legati alla salute del paziente, come eventuali accessi al pronto soccorso o riammissioni in ospedale.
Provider, pazienti, contribuenti e politici tutti perseguono, infatti, il medesimo obiettivo, ovvero quello di migliorare gli esiti di salute nel modo più efficiente possibile.
Impegnarsi nella valutazione di ciò che accade al paziente nel suo percorso di cura, piuttosto che limitarsi ad analizzarne le modalità di erogazione, consentirebbe di intraprendere delle sfide importanti. Prima fra tutte quella di “espandere”, in termini di tempo, la misurazione degli esiti, occupandosi di misurare e gestire non più soltanto i singoli eventi, come il ricovero, ma “i tempi di ciclo terapeutico”, ovvero gli intervalli tra i momenti chiave del percorso terapeutico del paziente, come ad esempio l’intervallo di tempo che intercorre tra una diagnosi di infarto del miocardio e l’esecuzione dell’angioplastica [4]. La misurazione di questi intervalli può essere molto difficile quando le prestazioni vengono fornite da diversi soggetti erogatori; essa ha cominciato ad assumere l’importanza che merita soltanto in tempi recenti, alla luce delle importanti implicazioni cliniche che ne possono derivare: basti pensare ad esempio ai pazienti che si presentano al pronto soccorso con un attacco ischemico transitorio, se visitati subito da medici di una stroke unit il loro rischio di ictus a 90 giorni si riduce notevolmente [5].
L’implementazione del concetto di valore in sanità richiede un vero e proprio lavoro di squadra, significa acquisizione dei dati prodotti da diverse figure del sistema di erogazione delle cure, significa anche e soprattutto condivisione di responsabilità sulle prestazioni sanitarie offerte al paziente.
Il miglioramento degli esiti, come la riduzione dei costi dell’assistenza sanitaria, non può essere raggiunto senza una cooperazione attiva tra i diversi provider, di difficile realizzazione se tutti continuano ad operare come soggetti distinti volti a raggiungere solamente i propri interessi. È necessario, quindi, un importante cambiamento, sia culturale sia organizzativo, tra gli operatori sanitari, che possa spingerli a collaborare come un’organizzazione concentrata nella distribuzione dei migliori risultati di salute, da raggiungere nel modo più efficiente possibile.
Il valore non deve in alcun modo rappresentare uno strumento per confrontare i diversi erogatori di cure, bensì si pone l’obiettivo di creare un contesto di miglioramento, sia a livello di struttura sanitaria che di singolo medico. Nonostante il raggiungimento di questo obiettivo sia tutt’altro che facile, sono numerose le iniziative di valutazione degli esiti e dei costi, di organizzazione di medici in gruppi multidisciplinari, nonché di evoluzione del sistema di pagamento premiante gli erogatori più efficaci nel migliorare il “valore” delle cure fornite.
Il miglioramento delle cure non sarà, tuttavia, sufficiente a consentire di affrontare le problematiche di natura economica in cui versa l’assistenza sanitaria, ed è molto probabile che anche i pazienti dovranno farsi carico dell’aumento delle spese. In questi tempi di incertezza, provider ed operatori sanitari hanno comunque bisogno di fare un passo in avanti verso una nuova prospettiva di cura. Il concetto di valore in sanità ne suggerisce una.
Bibliiografia
[1] Porter ME, Teisberg EO. Redefi ning health care: creating value-based competition on results. Boston: Harvard Business School Press, 2006.
[2] Porter ME. What is value in health care? N Engl J Med 2010; 363:2477-81.
[3] Lee TH. Putting the value framework to work. N Engl J Med 2010; 363:2481-3.
[4] Cannon CP, Gibson CM, Lambrew CT, et al. Relationship of symptom-onset-to-balloon time and door-to-balloon time with mortality in patients undergoing angioplasty for acute myocardial infarction. JAMA 2000;283:2941-7.
[5] Wasserman J, Perry J, Dowlatshahi D, et al. Stratifi ed, urgent care for transient ischemic attack results in low stroke rates. Stroke 2010;41:2601-5.
Il politeismo dei valori
L’attitudine a riconoscere e distinguere i limiti è un’arte che va coltivata e praticata con cura
Siamo di fronte a un vero e proprio “politeismo dei valori”, a uno scontro tra posizioni per principio incompatibili, sebbene di fatto normalmente conciliare grazie a sottintesi e, talvolta, tortuosi compromessi pratici. Il punto è che – una volta usciti dai binari della tradizione, in base ai quali è la trasgressione stessa a dettare la misura dello scarto rispetto alla norma – non si può più contare né su saldi punti di riferimento, né su netti criteri di giudizio. Per questo le domande “Fino a che punto posso inoltrarmi nel raggiungere i miei obiettivi o nell’esaudire i miei desideri?” o “Dove si trova, se si trova, la linea di demarcazione tra il buono e il cattivo, tra il lecito e l’illecito?” sono destinate a non avere risposte convincenti e univoche. Certo, non è stato facile rispondere a tali questioni neppure nel passato, ma oggi la difficoltà è conclamata a causa dell’inflazione delle possibili soluzioni. In mancanza di regole oggettive o intimamente condivise, gli individui sono pertanto sempre più indotti ad adattarsi a una paradossale morale provvisoria permanente. […] Quando le filosofie e gli Stati vogliono sottoporre tutti a etiche e a leggi fondate su granitici valori universali e assoluti, ma incapaci di articolarsi nella concreta comprensione dei casi particolari, quando fanno di ogni erba un fascio nel condannare le intenzioni e gli atti delle persone, non tengono conto del fatto che non esiste uno spazio omogeneo di verità morali, ma uno spazio complesso, caratterizzato da una pluralità di valori specifici a rete, entro i quali muoversi “simpaticamente” per collegarli a contesti più ampi.
Remo Bodei
Professore Emerito di Filosofia dell’Università di Pisa – Docente presso la University of California at Los Angeles
[da Limite. Bologna: Il Mulino, 2016]