La storia del farmaco è segnata da cambiamenti che dobbiamo e possiamo identificare come successi o insuccessi. Necessariamente, un percorso evolutivo passa anche attraverso delle esperienze negative che solo in apparenza rappresentano degli insuccessi. Quando gli fu chiesto come si era sentito nel fallire migliaia di volte nel processo di “invenzione” della lampadina, Thomas Edison rispose semplicemente di avere compreso i tanti modi di non costruire una lampadina. È evidente che i fallimenti sono parte della strada che porta al successo. E questo stesso approccio vale anche nel momento in cui trattiamo una materia complessa come quella della sanità e in particolare quella dell’accesso al farmaco.
Negli ultimi decenni, abbiamo assistito a diversi cambiamenti in ambito sanitario. Uno dei più importanti è stato il passaggio dalle unità sanitarie locali (usl) alle aziende sanitarie locali (asl). Qualcuno potrebbe pensare che aver costruito la Riforma sanitaria del 1978 su una rete di usl sia stata una scelta sbagliata, qualcosa che andava assolutamente cambiato perché non rispondeva più a logiche sanitarie ed economiche in evoluzione. In realtà, l’istituzione delle aziende sanitarie locali ha rappresentato un forte miglioramento frutto dell’esperienza sanitaria di un sistema che tuttora viene considerato tra i migliori d’Europa. Si è arrivati a strutturare la gestione dell’assistenza sanitaria come quella di un’azienda, partendo innanzitutto dal principio fondamentale dell’universalità del sistema sanitario. La chiusura delle usl non andrebbe dunque letta come l’esito di un insuccesso ma piuttosto come un’evoluzione.
Un altro processo di cambiamento che credo vada considerato come il risultato di un’evoluzione riguarda la posizione del paziente all’interno del sistema sanitario. Fino a qualche tempo fa, la governance farmaceutica si basava sui cosiddetti budget “a silos” riferiti a specifiche patologie, una logica caratterizzata da una rigidità che si è scontrata con l’evidenza delle comorbilità e con la necessità di un approccio integrato e multidisciplinare. Superare questa visione non è la constatazione di un fallimento, ma la presa d’atto della necessità di evolvere, spostando la prospettiva dalla singola patologia alla persona, al suo contesto sociale e alla sua condizione di paziente affetto da diverse patologie. Così, dalla necessità di accedere tempestivamente al singolo farmaco si è passati alla necessità, altrettanto rapida, di veder garantita una presa in carico che non si limita più alla prescrizione del solo farmaco, ma che prevede anche una serie di servizi assistenziali sociosanitari. Un cambio di prospettiva più in linea con il nostro sistema sanitario universalistico che – ripeto sempre con orgoglio – rappresenta una delle best practice europee.
Occorre avere il coraggio di non temere il fallimento.
Dunque, l’apparente insuccesso spesso rappresenta la semplice presa di coscienza della necessità di evolvere e di ampliare la visione, abbandonando le soluzioni precedentemente adottate e sviluppando alternative finalizzate nel loro insieme a una migliore qualità di vita del paziente. Vediamo oggi che l’emergenza sanitaria causata dal coronavirus ha accelerato in modo obbligato il processo di digitalizzazione del sistema sanitario che in passato è stato fortemente criticato proprio per le sue carenze organizzative. Così, oggi, possiamo pensare che la pandemia, oltre agli enormi disagi e purtroppo a grandi sofferenze per la popolazione mondiale, potrebbe anche rendere più rapida l’evoluzione verso una cura più efficiente che, grazie alla digitalizzazione, si riveli più vicina al benessere e alla qualità di vita dei pazienti.
Occorre avere il coraggio di non temere il fallimento ma di accettarlo continuando a camminare su percorsi di successo. Coraggio che al nostro sistema sanitario non fa difetto, come anche questo periodo difficile sta confermando.