Il lavoro dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) durante l’emergenza ha messo insieme la raccolta di dati osservazionali e il richiamo alla necessità di sperimentare le terapie in modo rigoroso, controllato e randomizzato. Dieci anni fa sottolineava come fosse necessario cogliere ogni occasione per far crescere l’attenzione sul tema della qualità della ricerca clinica, smettendo di considerarlo solo un “argomento per riflessioni più o meno colte o astratte”.
È soddisfatto del lavoro di questi mesi?
Sono abbastanza soddisfatto, per non essere eccessivamente trionfalista. Il Dpcm del 17 marzo che prevedeva che tutti gli studi clinici su covid-19 fossero approvati dall’Aifa e dal Comitato etico dell’Istituto nazionale di malattie infettive Spallanzani è stata una felice opportunità: centralizzare le decisioni ha consentito di osservare più da vicino la qualità della ricerca e promuovere studi che andassero in una certa direzione, quella della randomizzazione, beninteso sempre tenendo sott’occhio anche gli aspetti regolatori. Di questa prima parte del lavoro svolto sono contento, è stato straordinario: la Commissione tecnico scientifica (Cts) è passata dal riunirsi quattro giorni al mese a incontrarsi 65 giorni lavorativi consecutivi con convocazioni in seduta permanente.
Con quali risultati?
Ad oggi, su quasi 150 studi proposti e valutati ne sono stati approvati molto rapidamente il 30 per cento, imparando diverse cose sullo standard of care che nel contempo veniva definito con le schede Aifa. Nella prima fase, fino a fine marzo, avviare gli studi è stato un modo per fare accedere i pazienti a trattamenti per i quali avevamo una ragionevole attesa di beneficio in un momento di grave crisi emergenziale. Quindi sono stati approvati prevalentemente studi osservazionali, che definirei meglio come studi di fase 2 o di accesso a programmi per un uso allargato di farmaci, e la difficoltà era appunto pensare di randomizzare i pazienti, compreso il consenso e la accettabilità quindi un problema etico e in parte organizzativo. Come abbiamo scritto anche nel documento sullo standard of care, nella seconda fase – ovvero nel mese di aprile – Aifa ha fatto un’operazione di nudging, di spinta gentile per incentivare sperimentazioni controllate randomizzate considerandole la strada maestra per capire se una cura funziona e non solo per la minore pressione emergenziale si sono avviati studi randomizzati. Approvati i primi studi a tre bracci, ci siamo confermati nella convinzione che gli studi fossero comparativi e multi braccio, e che sarebbe stato meglio non fossero troppo numerosi perché se fossero finiti in competizione l’uno con l’altro sarebbero nati problemi. A tutto questo si deve aggiungere la definizione della terapia di fondo ottimale, lo standard of care che è stato in continua evoluzione nei tre mesi con progressive smentite di molti trattamenti proposti inizialmente.
Centralizzare le decisioni ha consentito osservare più da vicino la qualità della ricerca e per promuovere studi che andassero nella direzione della randomizzazione.
La disseminazione dei risultati della ricerca è da sempre considerata un elemento chiave di una sanità basata sulle prove: lo è anche per l’attività regolatoria?
Certamente, e siamo stati molto contenti anche per le molte cose pubblicate, protocolli degli studi, pareri, consensi, alcuni documenti sullo standard of care e le schede dei farmaci anche quando i dati di efficacia non erano positivi. Nel caso della covid-19, dopo tre mesi di osservazione e di attività di ricerca possiamo dire di essere ragionevolmente sicuri chela cosiddetta real world evidence non ha né promosso il buon uso di farmaci né dato conferme al proprio ruolo. Senza studi randomizzati rigorosi non è possibile comprendere quale strategia terapeutica preferire. Questa è senza dubbio la lezione più importante.
Si parla molto dell’importanza di restituire responsabilità alla medicina generale. Non potrebbe essere utile darle un ruolo anche nell’attività di ricerca?
Avendo promosso lo studio Arco, sempre in collaborazione con lo Spallanzani, penso che coinvolgere i medici di medicina generale nella ricerca vuol dire farli partecipare alla ricerca vera, e cioè a studi controllati randomizzati multibraccio per confrontare tutti i diversi trattamenti che venivano via via proposti o utilizzati. Di questi tempi, gli studi osservazionali fanno affidamento su grandi database, che abbiamo anche in Italia di buona qualità ma che in realtà hanno risentito di questa emergenza, perché non tutti i pazienti sono stati tracciati. Come abbiamo imparato anche dalla vicenda di questi giorni, con lo studio pubblicato sul Lancet su dati di pazienti di incerta origine e poi ritirato, bisogna avere cautela nel prendere in considerazione banche dati che non siano amministrativamente certificate. Per l’efficacia, che resta il grande punto interrogativo su diverse terapie, l’unico farmaco studiato in un trial di grandi dimensioni è il remdesivir. Ma i dati parlano di efficacia moderata o di una possibile modesta riduzione di mortalità, anche se nello studio pubblicato non è statisticamente significativa. Per tutti gli altri farmaci, anche i più promettenti, i dati sono molto cauti nell’indicare un qualunque beneficio in termini di efficacia.
“Se fossi il ministro della salute mi impegnerei in un forte investimento per affermare il ruolo fondamentale delle cure primarie” aveva affermato dieci anni fa: un obiettivo ancora valido?
Non ho cambiato idea. Ci siamo attivati anche come Aifa e sono convinto che sulle cure primarie occorra fare un forte investimento. Lo ha confermato anche la pandemia: c’è l’esigenza di avere una maggiore capacità di risposta, una migliore formazione e più capacità di coinvolgimento. Questo potrebbe essere opportuno anche nelle regioni più “ricche”, qualora la rete della medicina generale sia stata indebolita o non sia più adeguata ai tempi. Abbiamo preso decisioni in questi giorni in merito all’estensione della prescrivibilità dei nuovi anticoagulanti anche da parte dei medici di famiglia – preferisco chiamarli così, almeno ogni tanto – e anche il diabete e altre patologie croniche saranno tra gli ambiti su cui investire con i medici di medicina generale. Ma occorre fare di più. Altra zona di confine è quella tra gli ambulatori delle cure primarie e le residenze sanitarie per anziani, che sono state una delle tragedie e delle vergogne dell’Italia e non solo. Penso che questo rapporto vada ripensato: serve un nuovo modello sociale che sia aperto e inclusivo e non di detenzione.
Quindi, con un programma del genere, l’Aifa potrebbe ritrovare anche un ruolo formativo?
Credo che Cts e Unità di crisi sulla covid-19, che abbiamo prontamente istituito, abbiano dato una risposta alle aspettative dei medici, ma anche dei pazienti e dei familiari iniziando a preparare delle schede informative. Quando le aspettative di cura o di terapia diventano troppo elevate, ci si trova in situazioni delicate in cui prevalgono le promesse basate su pochi dati. L’Agenzia, essendo una creatura atipica, non solo regolatoria ma anche un osservatorio sull’uso dei farmaci – basti pensare all’eccellente lavoro dell’Osmed e ai comitati etici – può intensificare la propria attività di osservazione e ricerca anche tornando a fare attività formativa, garantendo crediti e sfruttando le opportunità dell’informatica.
Senza studi randomizzati rigorosi non è possibile comprendere quale strategia terapeutica preferire. Questa è senza dubbio la lezione più importante.
Sempre a proposito di distanza. Per diversi anni ha lavorato a Ginevra, all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), un’istituzione sovranazionale che qualcuno accusa di essere troppo lontana dalla sanità delle nazioni che hanno in essi un riferimento. Qual è il suo parere? Che cosa ne pensa dell’attacco della presidenza statunitense all’Oms?
Ho lasciato l’Oms con molto affetto anche perché – come mi ha detto il direttore salutandomi – “una volta che si è stati della Who, si resta sempre della Who”. Dunque, non solo la difendo ma posso dire che l’atteggiamento del presidente degli Stati Uniti mi ha fatto molto male. Questo attacco ha rappresentato un indebolimento gravissimo di un sistema collaborativo sul quale dobbiamo far conto e semmai rafforzarlo. In realtà il sistema per rafforzare l’Oms è a portata di mano perché gli investimenti necessari per far funzionare meglio l’istituzione sarebbero alla portata di tutti i paesi, se lo volessero. Per il resto, non c’è distanza tra l’Oms e le diverse nazioni. Non è vero che si occupa solo dei paesi poveri perché i ricchi non ne avrebbero bisogno. Basti pensare all’attività per la preparedness per l’influenza: un classico esempio di come l’Oms può essere utile a tutti, a iniziare dai modelli di studio e di raccolta dei dati. L’Oms e forse solo l’Oms ha una profonda cultura di ricerca collaborativa e di studi randomizzati anche durante le emergenze. La distanza vera è quella determinata dalla tendenza di alcuni paesi ricchi che preferiscono agire in autonomia. Sappiamo come i problemi nascano anche in Europa quando si perde questo senso di coesione. Quindi, ci vorrebbe innanzitutto “più Europa” e anche “più Oms”: a questo proposito, è un bene che sia spesso proprio l’Europa a interagire con l’Oms, perché è un segno di unione e di maggiore capacità. La distanza è dovuta all’egoismo e alla convinzione di poter essere autosufficienti. La pandemia ci sta dicendo che ogni è paese può essere fragile – pensiamo a cosa è successo alla Svezia e alle ammissioni di aver risposto in un modo probabilmente sbagliato all’emergenza sanitaria – e saremmo tutti meno vulnerabili se sostenessimo di più l’Oms. Alcuni degli accordi o proposte vaccinali per renderli disponibili a tutti sono figli dei principi dell’Oms che anche l’Europa ha in qualche modo appreso, e non viceversa.
Un’ultima domanda. La tragedia della covid-19 che stiamo attraversando è un esempio di una delle questioni centrali tra quelle affrontate qualche anno fa in un libro dallo psicanalista Luigi Zoja: continua a crescere la distanza con la domanda di distanziamento sociale e anche la malattia ci ha messo di fronte alla separazione dei percorsi “puliti” da quelli contaminati, al trasporto delle bare verso una destinazione lontana…
Nel suo libro Zoja parla di vicinanza e lontananza del prossimo e alcune delle pagine più belle sono quelle in cui lui parla del concetto di ospitalità citando l’Odissea: “Vengono tutti da Zeus, gli ospiti e i poveri, e anche un dono piccolo è caro” aveva detto Nausicaa [1]. Un altro riferimento, pensando al modo di vivere questa malattia, è a una trasmissione che ho sentito di recente – Uomini e profeti, su Radio Tre – in cui una nota psicoanalista italiana, Manuela Fraire, spiega che scoprirsi fragili o senza difese essendone consapevoli è difficile ma è una cosa che dobbiamo imparare a sostenere. Credo che rifletta la difficoltà che abbiamo sperimentato all’inizio della crisi, che definirei l’imbarazzo di non poter fare niente di immediatamente risolutivo. Ecco che, improvvisamente, dovevamo fare qualche cosa, fare di più, dare qualche farmaco. Eppure, forse la cura è stata proprio nel decidere di fare un passo indietro, di prescrivere terapie meno aggressive, stare più a casa, a maggiore distanza e così via.
Lei ha vissuto oltre un mese distante, prima in ospedale e poi in isolamento: dall’altra parte del muro, insomma…
Non sono stato mai così male da essere seriamente preoccupato. Guardando fuori vedevo un giardino con un parcheggio, un po’ vuoto, e degli alberi bellissimi, pini marittimi. Mi sono sentito molto protetto dai medici e dagli infermieri in questo essere trattenuto a lungo e non dimesso rapidamente. Sono stati tutti molto bravi allo Spallanzani e lo sono con tutti. Ma credo sia vero quello che dice Beppe Ippolito: il vero patrimonio del paese sono gli infermieri, forse ancor più dei medici che tutti sempre ricordano. Mi sono sentito protetto anche dal vedere quanto sia divenuta forte la determinazione di tutti a difendere il Servizio sanitario nazionale, l’attaccamento alla sanità pubblica. Nessuno, in caso di covid-19, ha pensato di farsi ricoverare in una clinica privata…
Bibliografia
[1] Zoja L. La morte del prossimo. Torino: Giulio Einaudi editore, 2009.