La covid-19 è ancora molto presente. Da qualche settimana lo sguardo è meno rivolto al presente: guardiamo avanti, nel chiederci cosa accadrà. E ci prendiamo il tempo di tornare a sfogliare le pagine scritte nelle settimane di maggiore crisi. In molti hanno raccontato – in blog improvvisati, gallerie fotografiche o in dichiarazioni ai media più diversi – la propria esperienza: cosa hanno visto dalla finestra, il vicino sul balcone che suonava la tromba a un’ora stabilita, le lunghe file davanti al supermercato, gli scaffali semivuoti dei negozi. Ma anche quale dramma hanno personalmente attraversato. È il caso di Michela Chiarlo, medico dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Torino.
“Puoi dire quello che vuoi, qualunque cosa, e nessuno può giudicarti”, ha scritto Amelia Nierenberg nei suoi “Quarantine diaries” sul sito del New York Times. Ha sentito anche lei questa “libertà” di potersi esprimere come voleva?
Devo premettere che scrivo da anni e che, quando ho iniziato a lavorare, ho rallentato molto la pubblicazione di post sul mio blog non tanto per questioni di tempo, ma per il timore di trasgredire alla regola di riservatezza nei confronti dei malati. Questo vale per qualsiasi racconto e tanto più per le fotografie. Quando è iniziata l’emergenza covid-19 avevo talmente tante cose dentro che ho ripreso a scrivere come forma di auto-psicoterapia. Tornando a casa dovevo necessariamente tirar fuori quel che avevo dentro. Anche per la necessità di confrontarmi con altri operatori, ma non solo: anche per far sapere all’esterno cosa stava accadendo. Di fatto in questo periodo abbiamo percepito la possibilità di una sorta di maggiore libertà, quasi una sospensione delle norme. Anche per le fotografie: sono stati i pazienti e i familiari a volersi mostrare l’uno con gli altri.
In questo periodo abbiamo percepito la possibilità di una sorta di maggiore libertà, quasi una sospensione delle norme.
Rispetto ai familiari di cui hanno parlato diverse persone raccontando la quarantena in famiglia, è stato necessario rispettare una “distanza” tra voi operatori e loro per il timore di contagio? Questo vi ha fatto sentire più soli?
Tutti i professionisti sanitari hanno dovuto porsi il problema della scelta di distanziarsi o meno dai familiari. A meno di non essere una coppia di operatori sanitari esposti ugualmente alla vita di ospedale. Cosa fare con i bambini, con i nonni, con il proprio compagno, nel mio caso. Lasciare i figli novanta giorni con i nonni? Impensabile. Tenerli a distanza indefinitamente? Oppure magari rivederli, col rischio di un contagio a catena? Ho vissuto questa situazione con ansia, non benissimo, ma accettando il rischio, pur sentendomi un po’ in colpa. Quando poi a lui è venuta la febbre ho pensato davvero di aver portato in casa il coronavirus, pur non essendo mai stata male: alla fine lui aveva tutt’altro, ma sono stati giorni non facilissimi. D’altro lato, ero abituata a vedermi pochissimo con il mio compagno, incrociandoci io a fine turno al mattino mentre lui andava al lavoro o viceversa. Abbiamo deciso di continuare a vivere insieme normalmente ed è stato bellissimo trovarlo al rientro a casa in smart working e vivere gli spazi con una vicinanza che prima non avevamo.
Tutti i professionisti sanitari hanno dovuto porsi il problema della scelta di distanziarsi o meno dai familiari. A meno di non essere una coppia di operatori sanitari esposti ugualmente alla vita di ospedale.
Quando domani si cercherà di descrivere la vita durante il coronavirus, resoconti come i vostri, in prima persona, saranno preziosi. È una crisi vissuta sull’altalena tra lontananza e vicinanza. Sempre sul New York Times, Mary Laura Philpott ha raccontato la quarantena vissuta con la propria figlia: una solidarietà temporanea. Diversa, drammatica e intensa quella che ha unito medici e infermieri ai malati in ospedale. Anche molti medici e infermieri hanno fatto e stanno ancora vivendo una prossimità inedita con le persone malate… Sarà davvero “temporaneo” il rapporto con i pazienti ricoverati in questa emergenza? Si parla molto di una “distanza necessaria” tra il malato e il curante: è davvero indispensabile una distanza di sicurezza?
Di sicuro, per noi è stata una situazione senza precedenti. Un’esperienza diversa, beninteso, per medici e infermieri essendo loro ancora più strettamente a contatto con i malati, conoscendo molti più dettagli della vita personale dei pazienti. Sia per l’essere i medici meno numerosi in rapporto alle persone ricoverate, sia per la tendenza dei medici a cercare una maggiore e più protettiva distanza con il paziente. Essere però la sola persona con cui in certe circostanze il malato può avere un contatto, sebbene vestita da astronauta, porta te a fare cose che in altri momenti non avresti pensato di fare e il malato a chiederti qualcosa che in altre situazioni non chiederebbe mai. Abbiamo ricevuto telefonate di persone guarite che ci informavano come stava andando, ma si tratta ancora di una situazione in cui la malattia è in corso. Non so quanto sarebbe auspicabile proseguire in un rapporto del genere perché la relazione tra medico e paziente è sempre in qualche modo sbilanciata, tanto è vero che come medici abbiamo delle remore a rapportarci con persone che conosciamo. Ci può stare un avvicinamento temporaneo e poi un distacco, come del resto avveniva anche prima della covid.
Essere la sola persona con cui il malato può avere un contatto, porta te a fare cose che in altri momenti non avresti mai pensato di fare e il malato a chiedere qualcosa che non ti avrebbe mai chiesto.
Quattro società scientifiche hanno di recente preparato delle raccomandazioni per migliorare la comunicazione con i familiari di malati impossibilitati a comunicare. Quanto sono utili questi documenti e quanta distanza esiste tra linee guida di questo tipo e la vita quotidiana in ospedale?
In generale direi di sì. Abbiamo molto da imparare sulla comunicazione anche perché non c’è stata insegnata ed è una di quelle cose che viene lasciata molto alla pratica. Mai all’università viene spiegato come comunicare con i familiari. Ognuno ha punti di forza e punti di debolezza e quindi ha momenti di difficoltà nella comunicazione con i pazienti e con i loro parenti. Quindi è utile un documento di indirizzo, soprattutto su come si comunica a distanza. Come sempre l’applicabilità dipende anche dal contesto, dal momento e dal luogo dove la comunicazione si svolge. “Preparatevi al colloquio e cercate un ambiente tranquillo”: sia in presenza sia al telefono è complicato essere interrotti; trovare un luogo non rumoroso è oggettivamente molto difficile, anche perché in una “zona covid” una stanza tranquilla semplicemente non esiste. In medicina d’urgenza è un po’ più facile ma abbiamo avuto un unico spazio per il riposo, con un tavolo per mangiare, uno spazio per telefonare ai familiari o dove davamo le consegne. Ci si scontra dunque con la realtà, ma rinunciare a dare linee guida perché nella realtà le cose sono diverse sarebbe sbagliato. Anche perché questi documenti sottolineano la rilevanza delle questioni che affrontano, in questo caso la comunicazione: penso per esempio all’importanza di presentarsi quando si telefona, al conoscere bene il nome del malato e così via. Ovviamente dipende anche molto dal tipo di persona con la quale ci si deve rapportare: ci sono persone con cui è particolarmente difficile relazionarsi.
Ognuno ha punti di forza e punti di debolezza e quindi ha momenti di difficoltà nella comunicazione con i pazienti e con i loro parenti.
L’ultima domanda è di Federica Zama Cavicchi, collega dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Torino. “Ora che il mare sta tornando calmo, cosa resterà di questa bufera?”
Spero che restino cose belle. Una maggiore collaborazione tra colleghi, un maggiore rispetto e una minore lotta di competenze. Nella situazione che abbiamo attraversato la collaborazione è stata eccellente. Non mi aspetto che resti lo stesso clima di amicizia ma spero che sia conservata una maggiore comunicazione tra colleghi e la disponibilità a imparare cose nuove. Come medici, penso porteremo con noi la consapevolezza dell’importanza degli infermieri, che si sono trovati a eseguire compiti diversi con grande intensità e competenza.
Spero che restino cose belle. Una maggiore collaborazione tra colleghi, un maggiore rispetto e una minore lotta di competenze.
Riccardo ha 50 anni, è un po’ sovrappeso come quasi tutti i nostri ricoverati, ha sintomi da una settimana, ma è peggiorato improvvisamente: gli abbiamo messo un casco al volo, ma appena lo disconnettiamo respira malissimo. È giovane, sano, sappiamo tutti che merita una chance in più del casco, bisogna intubarlo e portarlo in rianimazione. Lui è inquieto, vorrebbe bere, vorrebbe togliere il casco, parlare con la moglie. Gli spieghiamo che non si può. Ciascuna di queste cose comprometterebbe la delicata operazione dell’intubazione e diminuirebbe significativamente le sue possibilità di sopravvivenza.
Mentre gli spieghiamo cosa faremo è spaventatissimo, dentro al suo casco rumoroso, mentre quattro omini blu, di cui può intravedere solo gli occhi sotto una maschera di plastica, gli urlano che respira troppo male e che è necessario addormentarlo, mettergli un tubo in gola e connetterlo a un respiratore per dare ai suoi polmoni la possibilità di guarire. Chiede se è proprio necessario. Sì. Chiede se avviseremo noi la moglie. Sì. Siccome tra gli infermieri che preparano i farmaci e l’anestesista che si appresta alla procedura sono la figura più inutile, cedo a Riccardo la mia mano da stringere. Mentre me la stritola mi fa la domanda che tutti speriamo di non ricevere: “Quante probabilità ho di svegliarmi?”
Gli do l’unica risposta possibile, quella che so essere per certo una bugia, ma spero sia almeno ciò di cui ha bisogno in questo momento: “Buone possibilità”. Poi mi sento troppo in colpa e aggiungo: “Lo facciamo perché è la cosa che le dà le maggiori possibilità di guarire”. Nelle varie leggi non scritte dell’ospedale c’è quella di non essere mai troppo ottimisti. Mai definire una notte “tranquilla” prima che il turno sia finito, mai promettere che “andrà tutto bene”. Non basta un arcobaleno al balcone perché una profezia si auto-avveri. Riccardo è morto a meno di ventiquattro ore da quel “Quante probabilità ho di svegliarmi” che mi appesantirà per sempre il cuore, ricevendo come ultima risposta la mia inutile rassicurazione.
I brani in corsivo sono ripresi da una storia pubblicata nel libro Abbracciare con lo sguardo, al quale Michela ha contribuito.