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Distanza Interviste

Distanza e vicinanza nella cura

Dai baci e abbracci, decimati dal virus, alla necessità di lavorare per il cambiamento

Una conversazione con Victor Montori

Mayo clinic – Rochester, Minnesota (Usa) The Patient Revolution project

By Giugno 2020Luglio 24th, 2020Nessun commento

La risposta all’emergenza pandemica non è stata né premurosa né gentile. Neanche “elegante”, direi, continuando a commentare la tragedia ancora in atto prendendo a prestito i criteri usati da Victor Montori nel suo libro Perché ci ribelliamo. La riflessione di Victor ha radici profonde: da quelle che hanno reso possibile nascita e crescita della medicina delle prove, alle esperienze dei movimenti che si richiamano alla prospettiva del less is more: fare di più non necessariamente coincide col fare qualcosa di migliore.

 

A caccia di una terapia, in modo più o meno disordinato, la “cura” si è basata sulla raccomandazione di mantenere una distanza di sicurezza: tra i professionisti sanitari e i malati, tra gli utenti del servizio sanitario e i presidi della medicina generale, tra i cittadini stessi, gli uni con gli altri…

Un disastro globale. La pandemia ha galoppato nelle nostre vite insieme alla paura, alla disinformazione e all’isolamento. Per sconfiggere il virus dobbiamo stare lontani: il virus ha decimato la prossimità, il bacio, la stretta di mano, l’abbraccio, la presenza, il toccarsi.

Eppure, non è stato lei a suggerirci che proprio nelle situazioni di crisi più profonda dobbiamo trovare la spinta per cambiare direzione, andando verso un cambiamento?

Sì, dovremmo vedere questa pandemia come una specie di riqualificazione urbana che, accidentalmente, permette di scoprire rovine antiche, rivelando qualcosa del nostro presente. Covid-19 ha reso evidente la nostra umanità, la cura di cui sono capaci i nostri cuori e le nostre mani.

È vero, anche in Italia c’è stata una risposta solidale, nonostante il non poter vedere per settimane molti dei propri familiari, il poter uscire solo resi irriconoscibili dai dispositivi di protezione.

Per superare in astuzia il virus dovevamo essere separati, ma abbiamo ridotto il distanziamento sociale al distanziamento fisico. La solidarietà ha preso piede. Abbiamo trovato il modo di cantare dalle finestre e sui tetti delle case, di giocare a tombola da un balcone all’altro, coinvolgendo pure gli anziani spaventati e ricoverati in case di cura. Abbiamo lasciato dei regali agli addetti della nettezza urbana, abbiamo costruito tende per ospitare le persone che non hanno una casa. Abbiamo inviato poesie, biglietti e lettere a persone che non conoscevamo o a parenti che non sentivamo da anni. Il mondo ha rallentato e molte famiglie hanno sperimentato la conversazione, quella che non ha fretta.

Le comunità si sono orientate verso la cura reciproca. La cura dei pazienti è diventata più attenta e gentile. La nostra rivoluzione è stata avvalorata.

Chi non ha potuto osservare la raccomandazione del mantenere le distanze sono stati i professionisti sanitari. Molti medici, infermieri e farmacisti sono stati contagiati, in Italia e negli altri paesi. Non pochi sono morti. Come dobbiamo guardare a questa tragedia?

I medici hanno risposto presentandosi comunque al letto del malato e prendendosi cura di lui, nonostante il rischio di contagio. Hanno cercato e curato i pazienti con malattie croniche, quelli mandati indietro da ospedali sopraffatti dalla numerosità dei ricoverati, e li hanno assistiti dove si trovavano, cercando di sovvertire il meno possibile la loro vita. Le comunità si sono orientate verso la cura reciproca. La cura dei pazienti è diventata più attenta e gentile. La nostra rivoluzione è stata avvalorata; i suoi obiettivi sono fattibili, esistono, qui e ora. Non dobbiamo dimenticarlo.

Il modo con il quale osserva la realtà riesce sempre a darci fiducia. Resta il fatto che le resistenze al cambiamento di un sistema sanitario – ma prima ancora sociale ed economico – ingiusto sono fortissime.

La sanità industriale, come ho scritto nel mio libro, ha smesso molti anni fa di farsi domande. La pandemia ha semplicemente rivelato con ancora più chiarezza la corruzione della sua missione. Chi detiene posizioni di potere ha fatto gli stessi calcoli degli opportunisti e dei profittatori. Ottenere più ventilatori era troppo costoso, ed è accaduto che una persona anziana che non riusciva più a respirare abbia chiesto al suo medico di dare il ventilatore disponibile al ragazzo che gli stava accanto. Le maschere e gli altri dispositivi di protezione sono diventati introvabili e costosi, e l’esposizione al coronavirus è aumentata. Medici esausti sono rientrati a casa ma hanno preferito dormire nel seminterrato per evitare di contagiare i propri bambini, i rumori che facevano i figli sembravano in questo modo più vicini al loro telefono, così come i loro baci poggiati sulla superficie dello schermo. Per la mancanza di dispositivi di protezione, per l’inefficienza della prevenzione i visitatori sono stati tenuti fuori dagli ospedali e dalle case per anziani, e le persone ricoverate sono state lasciate soffrire senza poter contare su una mano da carezzare, morendo da sole.

Covid-19 ha reso evidente la nostra umanità, la cura di cui sono capaci i nostri cuori e le nostre mani.

Nelle scorse settimane, medici e infermieri sono stati dipinti come degli eroi. Sono tornati di attualità i temi della paura e del coraggio, di cui avevamo parlato a Roma nel convegno di 4Words…

Credo che la paura alimenti l’assistenza sanitaria industriale. Come l’avidità, anche la paura lavora contro la cura. La paura cambia le persone, suggerisce cure spietatamente vincolate ai protocolli e limita i risultati. La paura ti dice di compilare il modulo e soddisfare il protocollo, anche se il tuo cuore suggerirebbe qualcosa di più umano, un’eccezione. La paura limita la curiosità per l’altro, ci fa guardare dall’altra parte, allontanandoci da ciò che è difficile, ti fa pensare che “stanno lavorando per risolverle il problema” anche quando sappiamo che non stanno risolvendo nulla di tutto ciò che è sbagliato. Anche quando sentiamo che l’assistenza sanitaria dovrebbe essere migliore, la paura ci invita invece ad “apprezzare” ciò che abbiamo. Quando vediamo che le cose sono davvero inaccettabili, la paura ci porta a “migliorarle” o a “innovare” qualsiasi cosa tranne i fondamenti dell’assistenza sanitaria industriale. La paura offusca lo sguardo e confonde la volontà di coloro che, almeno per un momento, iniziano a trovare il coraggio di pronunciare parole diverse. Alla fine, la paura ti morde la lingua finché non hai voce. Eppure, anche la paura ci fa accorgere delle cose. La paura non nasce dall’indifferenza. La paura ci sgomita nella pancia per attirare la nostra attenzione. La paura ci aiuta a notare le cose. La paura potrebbe non conoscere la risposta, ma segnala che c’è una domanda che dovremmo porci. La paura non è sola. Il coraggio è lì per orientarci verso quella domanda, verso il dubbio, il dolore, l’oscurità. Il coraggio ci sfida a offrire una mano aperta e ad allungarci verso la mano che potrebbe cercarci. L’assistenza sanitaria industriale rende il coraggio senza senso, futile, mal riposto, sconveniente, sbagliato. Le persone che avrebbero il coraggio di prendersi totalmente cura degli altri sono indotte a credere che il coraggio sia raro e straordinario.

In questi giorni, sembra che la situazione in Italia – come in altri paesi – stia migliorando. Cosa troveremo una volta usciti dall’emergenza? Le rovine di cui diceva prima, cosa avranno svelato?

Alla fine, diventeremo immuni al virus. Quindi torneranno i sorrisi da dietro le maschere, ci stringeremo le mani senza guanti e gli abbracci torneranno a essere stretti. Impareremo a fidarci dell’aria e ci toccheremo di nuovo. Chi ha cantato sul balcone scenderà per strada per cantare canzoni di solidarietà. La persona solitaria sarà toccata, quella spaventata troverà sollievo.

Ancora una volta, un’alba di cura, gentilezza e amore sembrerà poetica, utopica.

Lo sapevo, è un inguaribile ottimista…

No, non è detto che vada così. Molto probabilmente, il nuovo giorno non ci vedrà abbracciare o cantare con persone sconosciute, ma tornare a condurre i nostri affari come al solito. La crisi economica postpandemica metterà con urgenza all’ordine del giorno l’inasprimento dell’industrializzazione dell’assistenza sanitaria, per rendere tutto più efficiente, standardizzato, automatico, artificiale e impersonale. Più redditizio, meno premuroso. Un modo per rispecchiare più fedelmente una società fatta da persone che, mobilitate per la produttività, dimenticheranno rapidamente come sia stata la solidarietà a condurle fuori dalla lunga notte che abbiamo attraversato. Ancora una volta, un’alba di cura, gentilezza e amore sembrerà poetica, utopica. Però, voglio credere a un domani diverso. Improbabile ma non più impossibile, in cui riconosceremo l’uno nell’altro le cicatrici di quella lunga notte, un promemoria del nostro destino comune. Un giorno in cui ricorderemo che la nostra attività umana è di prenderci cura l’uno e dell’altro. Ricorderemo che l’abbiamo già fatto e ricorderemo le canzoni. E, all’alba, ci ribelleremo per una cura attenta e gentile per tutti.

A cura di Luca De Fiore