Tra le parole chiave che ricorderemo di questa emergenza ce ne sono in particolare due, antitetiche: assembramento e distanziamento. Il distanziamento/isolamento, fisico e sociale, è l’aspetto che ha avuto un impatto devastante sulla vita quotidiana di tutti, e ha portato anche a dover ripensare molti aspetti di una professione che ha tra i suoi principi di base la vicinanza e il contatto: il tocco terapeutico e il tenere la mano sono gesti non più praticabili nell’emergenza covid. La distanza è diventata la salvezza, per chi assiste e per chi è assistito. Se solo qualche mese fa avessimo pensato di poter assistere qualcuno senza un contatto fisico non mediato dai guanti, avremmo detto che non era possibile, che era sbagliato.
Solitamente i nemici che combattiamo ogni giorno li conosciamo bene e, per quanto feroci, difficilmente ci impediscono di vivere in toto la relazione con il nostro paziente. Questa volta invece è diverso, in quanto la covid-19 ci ha messo di fronte a una sfida ancora più grande e più professionalizzante, quella di promuovere una relazione… che più di tutto si prefigge di annullare una distanza fisica a cui non siamo abituati. — Flora
In questo contributo saranno gli infermieri a raccontare come hanno vissuto questa distanza. Le testimonianze sono tratte da interviste e diari raccolti durante questa emergenza, che saranno pubblicati sulla rivista Assistenza Infermieristica e Ricerca.
Le tante declinazioni della distanza
Non poter avere un contatto fisico con il paziente, non poter entrare nelle stanze, non poter comunicare liberamente – come scrive Sebastiano “la comunicazione di questi giorni passa da quel pertugio tra la cuffia e la mascherina” – è stato l’aspetto che più ha lasciato un segno. Anche perché non sempre c’erano tute e mascherine sufficienti per cambiarsi ogni volta.
Una situazione in cui fare caring era molto problematico: la comunicazione verbale difficile, ostacolata dalle mascherine che distorcono il suono e il tono della nostra voce; quella non verbale impossibile perché il nostro viso era completamente nascosto da dpi. L’unica parte che si vedeva erano gli occhi che erano difficili da individuare da parte dei pazienti, ma soprattutto era difficile mantenere un qualsiasi tipo di contatto visivo. Il tocco ostacolato da due paia di guanti. — Lucia
E così molte volte capita di non poter stare accanto come si vorrebbe al paziente disorientato… capita di non mobilizzare più nessuno che non sia in grado di farlo da solo, perché mettere in poltrona un paziente richiede anche una certa sorveglianza che con la porta chiusa e le entrate in stanza limitate non può essere assicurata. Capita di dire: “Dottore mi sembra che il paziente stia andando peggio”. E capita di sentirti rispondere: “È necessario che venga a vederlo subito oppure può resistere qualche ora fino a che non arrivano i medici del mattino, visto che c’è rimasto un solo camice?”. — Martina
Non vorrei parlare nemmeno di quanto può essere straziante vedere la solitudine dei pazienti, isolati nelle loro stanze, dove l’unica possibilità di contatto umano è rappresentata da persone che sono vestite come operatori di una centrale nucleare. — Martina
È diventata evidente l’importanza e la potenza di una telefonata, di una videochiamata per sentire, vedere la vita fuori. Telefonate e videochiamate hanno virtualmente annullato la distanza e sono diventate l’unico modo per stabilire un contatto tra pazienti e familiari.
E così cercare di far mantenere i contatti con i familiari è diventato parte dell’assistenza di routine. Non c’era più solo la preoccupazione che il campanello fosse accessibile, ma soprattutto che il cellulare personale, unico contatto con il mondo esterno, fosse a portata di mano, carico, acceso. Tra i vari dati per l’anamnesi di routine, chiedevamo anche il codice pin in caso di spegnimento del telefono. — Martina
Tute, mascherine, visor hanno messo distanza anche in gesti e tecniche che richiedono uno stretto contatto.
Quando devi eseguire un prelievo e cerchi con lo sguardo un punto della mascherina che non sia appannato e da cui puoi vedere bene, istintivamente ti verrebbe voglia di strapparti via gli occhiali ma non lo fai perché sai che, nonostante siano appannati, ti permettono di proteggerti. — Mattia
E hanno creato distanza anche tra chi era abituato a lavorare a stretto contatto.
Nessuno di noi era riconoscibile. Il sorriso, i capelli, niente più ti permetteva di riconoscere l’altro, nemmeno la voce perché storpiata dai presidi. Ti senti solo, di nuovo. Sei ridotto a un tratto di inchiostro sulla schiena, la scritta del tuo nome, nulla di più. — Giacomo
La pandemia per molti infermieri (ma non solo) si è tradotta in scelte che hanno creato altre forme, dolorose, di distanza. Come molti altri colleghi non vediamo familiari e genitori da tempo per paura di infettarli. Li vediamo tramite videochiamate. Anche loro sono preoccupati per noi, non dicono nulla se non: “Stai attenta”. Quante parole non dette e quante emozioni in quelle parole. — Giulia
E ha cambiato il metodo di lavoro, rendendo evidente la distanza tra una conoscenza che si acquisiva giorno per giorno e una pratica che aveva bisogno di risposte immediate.
Siamo sempre stati abituati ad avere un testo, un articolo scientifico, una linea guida in cui trovare le risposte ai quesiti che emergono durante la pratica clinica. Questa volta non c’era nulla… Siamo stati costretti a reinventarci e adattarci alla continua evoluzione dell’emergenza. — Lucia
Per concludere
L’emergenza covid ha messo in luce tante debolezze del sistema, ha portato a riprogettare spazi, processi, per isolare, distanziare, qualche volta navigando a vista. Ha segnato tanti infermieri letteralmente sulla pelle e anche dentro. Ci si avvia, lentamente, verso una nuova normalità.