Tra le molte differenze sociali emerse nei mesi di lockdown, a prevalere è stato lo squilibrio di genere tra coloro che hanno gestito la difficile crisi pandemica. Le donne erano coinvolte in prima linea nell’assistenza sanitaria ma non tra i decisori, in qualità di esperti. Questa disparità – questa distanza – solleva molte perplessità su quanta strada ancora resti da fare verso una reale parità di genere.
Differenze di genere, dai contagi alla leadership
Se analizziamo cosa è accaduto durante l’epidemia di covid-19 possiamo osservare differenze di genere sotto un triplice aspetto: quello legato alle dinamiche della malattia, quello assistenziale e quello decisionale. Le esperienze passate hanno mostrato l’importanza di considerare le differenze di genere nell’impatto delle epidemie. Ad esempio, durante quella di ebola in Africa il tasso di infezione fra le donne è stato più alto rispetto agli uomini soprattutto a causa del ruolo delle stesse all’interno dei nuclei familiari e nell’assistenza ai malati [1]. Ciò ha dimostrato l’importanza di includere le differenze di genere nella preparedness e nella pianificazione degli interventi di risposta.
I dati osservazionali e clinici hanno mostrato differenze di genere anche negli effetti del virus sars-cov-2, in particolar modo si sono osservati, in Italia, un tasso di mortalità e una percentuale di letalità maggiori negli uomini. Studi sperimentali evidenziano che, per fattori ormonali e per meccanismi legati alla risposta immunitaria, vi sia una maggiore suscettibilità del genere maschile alle infezioni respiratorie virali [2]. Tali meccanismi, insieme alla minor incidenza di patologie cardiache o polmonari nelle donne, potrebbero essere in parte responsabili della maggiore gravità dell’epidemia negli uomini. Al contrario, abbiamo assistito sia in Italia che in altri paesi ad una più alta incidenza di contagi tra le operatrici sanitarie, dati che rispecchiano l’ampia presenza di donne nell’assistenza sanitaria. Durante l’epidemia di covid-19 le donne hanno ricoperto gli stessi ruoli degli uomini dal punto di vista sanitario, eppure, gli esperti donna hanno avuto pochissima visibilità e a parte pochissime eccezioni, il punto di vista riportato dai media è stato solo quello maschile. Lavorando nella ricerca epidemiologica da molti anni sembra difficile trovare delle giustificazioni allo squilibrio di genere constatato durante la pandemia. In questi mesi sono state prese decisioni che saranno in grado di influenzare la vita delle persone nell’immediato e a lungo termine, che avranno ripercussioni sull’economia, sull’ambiente, e ancora una volta sono state prese solo da una parte della popolazione. In Italia, è stato istituito dal dipartimento della Protezione civile un Comitato tecnico scientifico per supportare il governo nelle decisioni strategiche di contrasto alla pandemia formato da soli uomini, nonostante diversi esperti provengano dal Ministero della salute in cui il 55 per cento del personale è femminile e il 53 per cento dei posti dirigenziali è occupato da donne.
L’Organizzazione mondiale della sanità ha promosso iniziative per l’uguaglianza di genere nelle professioni sanitarie e per supportare l’accesso delle donne nei ruoli di leadership, anche tramite la pubblicazione del “Gender equity in the health workforce: analysis of 104 countries”. Anche l’Unione europea ha promosso campagne e iniziative per l’uguaglianza di genere nelle posizioni decisionali, evidenziando come anche nel Parlamento europeo la rappresentanza delle donne sia solo di un terzo. Le cause di queste differenze di genere sono complesse da spiegare.
Una delle principali obiezioni che viene fatta per la promozione dell’uguaglianza di genere nelle posizioni di potere è che non ci siano abbastanza donne qualificate per assumere posizioni di leadership. Forzare la rappresentanza delle donne, introducendo ad esempio le “quote di genere”, secondo alcuni potrebbe portare ad un abbassamento del livello di qualifica. Ma forse per garantire l’uguaglianza di genere basterebbe assicurare le “quote per merito”.
In molti ambiti, quando sono richieste soluzioni a problemi complessi, il lavoro in équipe interdisciplinari è in grado di migliorare la performance del gruppo. La diversità di genere sembra un fattore in grado di arricchire la rappresentatività attraverso una diversa visione dei problemi e un diverso approccio alla loro soluzione, rendendo i processi decisionali più innovativi e meno conflittuali.
Paola Michelozzi
Dipartimento di epidemiologia, Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1
Bibliografia
[1] Wenham C, Smith G, Morgan R. Covid19: the gender impacts of the outbreck. The Lancet, 2020.
[2] Kadel S, Kovats S. Sex hormones regulate innate immune cells and promote sex differences in respiratory virus infection. Front immunol 2018;9:1653.
Le pari opportunità al centro delle politiche
In un recente report delle Nazioni Unite, Anita Bhatia, UN women deputy executive director, ha dichiarato che “mentre molte voci hanno sottolineato l’impatto della pandemia sulle donne, questa preoccupazione non sembra essere stata presa in considerazione nelle decisioni che stanno assumendo prevalentemente gli uomini”. Dal report infatti emerge che, nel mondo, le donne impegnate in prima linea nell’assistenza ai malati di covid sono il 67 per cento, mentre rappresentano solo il 25 per cento dei parlamentari e il 10 per cento dei capi di stato o di governo. Per questo le Nazioni Unite evidenziano l’importanza di includere più donne nei processi decisionali. Il fatto che sia necessaria una raccomandazione da parte delle Nazioni Unite fa riflettere su quanta strada ci sia ancora da fare verso una condizione reale di pari opportunità. Se, per poter contare sul contributo delle donne in politica o nei consigli di amministrazione, bisogna ricorrere alle quote rosa è evidente che abbiamo un problema. Per non parlare del coinvolgimento – nato in seguito a proteste – delle donne per garantire un equilibrio di genere nei gruppi di lavoro delle commissioni tecniche per supportare il governo nella difficile gestione della crisi da covid-19. Non so quanto le donne, di ben nota competenza, coinvolte in extremis, abbiano apprezzato di essere state scelte in quanto donne. Il genere femminile non è una “minoranza” da tutelare e a cui dare rappresentanza, è metà della società, esattamente quanto il genere maschile.
Non è solo la prevalenza di donne al potere che può cambiare le cose, quanto invece porre la questione di genere sempre al centro dell’agenda, trasversalmente a tutte le politiche, consapevolmente ed esplicitamente. La strada da fare verso le pari opportunità è ancora molto lunga e nell’interesse del paese, non solo delle donne, perché la diversità è una ricchezza oltre che una risorsa da valorizzare.
Marina Davoli
Direttrice Dipartimento di epidemiologia, Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1
I sintomi meno visibili della covid-19: stress psicologico e ansia
Le donne sono state meno colpite dalla covid-19 e le cause sono ancora da chiarire. Nonostante ciò, tra di loro si registra una più alta prevalenza di sintomi depressivi o legati all’ansia. Sintomi che, nelle emergenze sanitarie, sembrano acuirsi. Nella Repubblica cinese, un‘indagine sullo stress psicologico dovuto all’emergenza – condotta su oltre 52 mila persone – ha rilevato che le donne mostrano sintomi di stress psicologico maggiori rispetto agli uomini [1]. Gli autori sostengono che questi risultati siano in linea con quelli ottenuti in altre ricerche [2] e che le donne risultino essere più vulnerabili degli uomini e più predisposte a disturbi da stress post traumatico. In particolare, il disturbo da ansia sembra essere tre volte maggiore nelle donne rispetto agli uomini durante la pandemia [3].
La maggiore prevalenza di sintomi legati all’ansia non è dovuta a una scarsa informazione sulla malattia e sulle misure preventive; tutt’altro, le donne risultano essere più informate rispetto agli uomini. I sintomi legati all’ansia sembrano essere correlatati ad aspetti più emotivi, legati all’incertezza di non sapere se la pandemia sia o meno sotto controllo [4]. A questo proposito risulta interessante un documento recentemente pubblicato, dal titolo molto evocativo: “Women worry about family, men about the economy: gender differences in emotional responses to covid-19” [5]. Osservando i risultati proposti dall’analisi risulta che le donne siano più preoccupate e che abbiano maggior paura rispetto agli uomini e tali risultati vengono supportati da differenze linguistiche [5]. Ad esempio, dall’analisi dei topic model emerge che le donne discutano più degli uomini di malattia e morte, che siano più preoccupate per la salute di familiari e amici, mentre gli uomini lo sono di più per gli effetti legati all’economia. Questo può aprire una riflessione sul fatto che una maggiore sensibilità femminile nella gestione della pandemia e nelle fasi successive avrebbe giovato, rendendo le persone meno distanti emotivamente.
Antonella Camposeragna
Dipartimento di epidemiologia, Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1
Bibliografia
[1] Qiu J, Shen B, Zhao M, et al. A nationwide survey of psychological distress among Chinese people in the covid-19 epidemic: implications and policy recommendations. Gen Psychiat 2020;33:e100213.
[2] Liu N, Zhang F, Wei C, et al. Prevalence and predictors of Ptss during covid-19 outbreak in China hardest-hit areas: gender differences matter. Psychiatry Res 2020;287:112921.
[3] Wang Y, Di Y, Ye J, et al. Study on the public psychological states and its related factors during the outbreakof coronavirus disease 2019 (covid-19) in some regions of China. Psychology, Health & Medicine. Advance online publication.
[4] Zhong BL, Luo W, Li HM, et al. Knowledge, attitudes, and practices towards covid-19 among Chinese residents during the rapid rise period of the covid-19 outbreak: a quick online cross-sectional survey. Int J Biol Sci 2020;16:1745-52.
[5] van der Vegt I, Kleinberg B. Women worry about family, men about the economy: gender differences in emotional responses to covid-19. arXiv preprint arXiv:2004.08202.
Violenza di genere durante il lockdown
Il distanziamento sociale permette di difenderci dal rischio di contagio. Ma non per tutti è stato possibile stare a distanza dai rischi per la propria salute. Per le donne che subiscono violenza infatti la distanza dal pericolo è venuta a mancare. Il lockdown ha azzerato la distanza con il partner autore della violenza, mentre ha dilatato quella dalla rete di supporto sulla quale potevano contare, ovvero i centri che le avrebbero accolte ed aiutate in un percorso di emancipazione dalla violenza. Ma sono state a distanza anche da tutti gli altri servizi sociali e sanitari, persino dai pronto soccorso, che avrebbero potuto intercettare e leggere una domanda di aiuto. Il pronto soccorso è infatti un osservatorio privilegiato in grado di incrementare il riconoscimento di donne che hanno subito violenze o abusi, e consentire una presa in carico da parte del sistema di sicurezza e di protezione sociale. Inoltre, non bisogna dimenticare come la chiusura delle scuole abbia esposto anche i figli a un maggior rischio di assistere o subire la violenza in casa [1,2].
Secondo le stime di un rapporto del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, sono previsti due milioni di casi in più di violenza da parte del partner nel biennio 2020-21. In Italia la situazione è altrettanto preoccupante. I dati per i mesi di marzo e aprile riportano una forte crescita delle telefonate per segnalare episodi di violenza domestica e richieste d’aiuto. Tra le regioni italiane, il Lazio e la Toscana risultano essere quelle in cui questa crescita è stata maggiore. Mentre i mesi di gennaio e febbraio registravano un decremento nell’utilizzo del servizio rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente, durante il lockdown è aumentato il numero di donne che si sono rivolte al numero verde 1522: 1151 telefonate nel 2020 a fronte di 933 del 2019. Nel mese di marzo sono stati 716 i contatti (670 nel marzo 2019), mentre dal 1 al 18 aprile 2020 sono saliti a 1037 (397 nello stesso periodo del 2019). Tuttavia, questo non necessariamente deve riflettere un aumento della violenza di genere durante la pandemia. È stato osservato, infatti, come la crescita delle chiamate alle linee di assistenza possa essere conseguenza dell’intensificarsi delle campagne d’informazione, permettendo a più donne di prendere consapevolezza della violenza. Inoltre, può anche riflettere una maggiore difficoltà, per effetto delle norme anti contagio, di accedere alle reti territoriali antiviolenza o ad altri servizi socioassistenziali. Comportando, in quest’ultimo caso, un cambiamento nelle modalità e nei canali ai quali la donna si rivolge per richiedere aiuto.
Naturalmente la questione della violenza sulle donne ha radici profonde e viene da lontano, ma questa situazione di isolamento ha messo ulteriormente in evidenza quanto ancora siamo distanti dal saper affrontare questo problema di salute pubblica e sociale [3,4]. Seppure una comprensione più approfondita dell’impatto della pandemia sulla violenza di genere richiederà tempo, sarà proprio il confronto e la lettura congiunta tra i dati sull’uso dei diversi servizi – linee di assistenza, denunce, centri antiviolenza ecc. – pre, durante e post covid-19 che potrà rappresentare un valido strumento per informare le politiche sulle adeguate e possibili risposte.
Enrica Lapucci e Fulvia Pasqualini
Dipartimento di epidemiologia, Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1
Bibliografia
[1] Roesch E, Amin A, Gupta J, et al. Violence against women during covid-19 pandemic restrictions. BMJ 2020;369:m1712.
[2] Mazza M, Marano G, Lai C, et al. Danger in danger: interpersonal violence during covid-19 quarantine. Psychiatry Res 2020;289:113046.
[3] Ahmad I, Ali PA, Rehman S, et al. Intimate partner violence screening in emergency department: a rapid review of the literature. J Clin Nurs 2017;26:3271‐3285.
[4] Leone M, Lapucci E, De Sario M, et al. Social network analysis to characterize women victims of violence. BMC Public Health. 2019;19:494.