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Distanza Articoli

Covid-19: quanto è lontano uno standard of care

Forward ne ha parlato con quattro professionisti sanitari, che lavorano in ambiti differenti

Marco Vergano

Anestesista e rianimatore, ospedale Torino nord emergenza San Giovanni Bosco

Giuseppe Maria Corbo

Malattie apparato respiratorio, Fondazione Policlinico A. Gemelli Uoc Emergenza Columbus covid 2 hospital, Roma

Simone Lanini

Medico specialista in malattie infettive, Irccs Istituto nazionale malattie infettive L. Spallanzani, Roma

Marina Bianchi

Medico di medicina generale Ats Milano - Città metropolitana

By Giugno 2020Luglio 24th, 2020Nessun commento
Fotografia di Lorenzo De Simone

Nella gestione clinica della pandemia è emerso il problema di una visione condivisa. Quale può essere considerato a suo giudizio, a distanza di novanta giorni dall’inizio dell’emergenza, lo standard of care?

MARCO VERGANO Ad oggi lo standard of care per i pazienti covid-19 che necessitano di terapia intensiva resta incentrato sul supporto delle funzioni vitali, non essendo emerso in questi mesi alcun trattamento in grado di modificare radicalmente il corso della malattia e supportato da solide evidenze. Rispetto alle prime settimane, è stato ridimensionato il ruolo delle varie associazioni di antivirali, mentre solo il remdesivir ha dimostrato efficacia, che deve essere però confermata da ulteriori trial clinici randomizzati. Si sono rivelati promettenti gli immunomodulatori, mentre gli anticoagulanti sono passati da un uso profilattico abituale a una dose piena nella maggior parte dei pazienti critici. Tra gli steroidi, usati con scetticismo durante la pandemia, sembra aver avuto un beneficio significativo il desametasone.

GIUSEPPE MARIA CORBO Ho avuto la possibilità di lavorare in un team multidisciplinare che include infettivologi (aspetto infettivo), geriatri (fragilità del paziente) e pneumologi (gestione dell’insufficienza respiratoria). È apparso subito evidente che lo standard of care non esisteva. Il quadro clinico dei pazienti all’esordio è apparso molto variabile ma è stato subito chiaro che l’attenzione doveva essere posta su alcuni aspetti chiave: la presenza e il grado di insufficienza respiratoria; il quadro infettivo; le comorbidità del paziente. La malattia ha dimostrato un’evolutività variabile nei singoli soggetti e sono stati implementati sistemi di monitoraggio continuo della saturazione di ossigeno e della somministrazione dello stesso, con frequenti controlli mirati emogasanalitici. L’aggravarsi delle condizioni respiratorie dei pazienti poteva essere molto rapido richiedendo continue scelte terapeutiche e diagnostiche.

Il quadro clinico dei pazienti all’esordio è apparso molto variabile ma è stato subito chiaro che l’attenzione doveva essere posta su alcuni aspetti chiave. Giuseppe Maria Corbo

SIMONE LANINI Oggi come oggi non esiste uno standard of care terapeutico antivirale. Esistono alcuni farmaci il cui effetto però non è ancora stato pienamente confermato in trial clinici randomizzati. Abbiamo, invece, uno standard of care per quelle che sono le complicanze gravi di questa malattia, che a livello polmonare assomiglia a una sindrome da distress respiratorio acuto. Quindi, per i pazienti in condizioni critiche è necessario garantire l’accesso alla terapia intensiva sulla base delle linee guida per il trattamento dell’insufficienza respiratoria acuta grave. Inoltre un numero non trascurabile di pazienti ospedalizzati è affetto da comorbidità e necessita pertanto di essere trattato in centri specialistici che possono garantire l’accesso a professionalità e tecnologie differenti. Penso, per esempio, ai pazienti con insufficienza renale cronica, ai pazienti cardiopatici o ai pazienti con obesità grave.

È cambiato l’approccio al malato: in questo caso cosa ha determinato questo cambiamento?

MARCO VERGANO Sicuramente, quando siamo stati investiti dalla pandemia, abbiamo iniziato a trattare i nostri primi pazienti “navigando su una barca che ancora stavamo costruendo”. Durante la pandemia sono state scambiate una quantità impressionante di informazioni medico-scientifiche, con modalità nuove e a velocità mai sperimentata prima. I contenuti accessibili su tutte le maggiori riviste, i processi di pubblicazione semplificati, le soglie più basse sia in fatto di acceptance rate sia nel rigore delle peer review hanno contribuito, nel bene e nel male, alla infodemia. I webinar, i gruppi sui social media, le reti tra colleghi hanno quasi annullato il confine tra formale e informale. Fino a generare interpretazioni scorrette, entusiasmi e ostilità non supportati da evidenze, richiami alla ragione. L’approccio è sicuramente cambiato, tanto che lo standard già appariva “vecchio” poche settimane dopo. Noi rianimatori siamo diventati meno dogmatici nelle strategie ventilatorie, più attenti a un approccio individualizzato, più consapevoli della complessità della covid-19, che nei primissimi giorni era considerata una “semplice” polmonite interstiziale. Siamo diventati purtroppo anche più consapevoli del nostro ruolo. Fummo accusati di discriminazione quando nei primi giorni avevamo provato a delineare criteri clinici ed etici di triage per le situazioni di sproporzione di risorse, come se le cure intensive fossero sicuramente salvavita e come se fosse destinato a morte certa chi ne restava fuori. Dopo alcune settimane, di fronte a una mortalità decisamente più alta di quella a cui eravamo abituati, e di fronte a ricoveri lunghissimi e reliquati anche pesanti nei sopravvissuti, abbiamo preso atto che “la terapia intensiva non è la panacea”.

Abbiamo preso atto che “la terapia intensiva non è la panacea”. Marco Vergano

GIUSEPPE MARIA CORBO La terapia antivirale è stata modificata nel corso del tempo grazie a evidenze di studi controllati ed è stata recentemente definita nel documento della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit) del Lazio. È stato subito chiaro che tale terapia poteva avere efficacia solo nelle fasi precoci della malattia durante il periodo di replicazione del virus. Da considerare che tali terapie non sono esenti da effetti collaterali (per esempio allungamento del qt) e pertanto hanno richiesto uno stretto monitoraggio dell’ecg. La modifica principale nella terapia è stata l’implementazione di una profilassi eparinica a dosi più elevate rispetto a quelle consigliate in linee guida per altre patologie sia sulla base di quadri clinici di embolia polmonare sia sulla valutazione di parametri della coagulazione. È stato pertanto elaborato un percorso terapeutico che, rifacendosi a dati della letteratura e all’esperienza di altri centri italiani, permetteva di adattare le dosi nel singolo paziente.

Quali problematiche può aver comportato secondo lei, in termini sia di assistenza sia di ricerca della cura, avere uno standard of care non definito in modo più preciso?

SIMONE LANINI È la sfida con cui la comunità medica si misura ogni qual volta si presenta la necessità di fronteggiare un nuovo patogeno emergente a potenziale pandemico. Il problema è come la comunità scientifica si dispone per dare una risposta ai cittadini. Questa volta, ma come anche con ebola, abbiamo iniziato a dare i farmaci troppo spesso e al di fuori di studi clinici controllati perché si sentiva l’urgenza di fare qualcosa per persone particolarmente gravi. Tutto ciò da un certo punto di vista può avere un suo razionale, ma toglie la possibilità di definire, in modo scientificamente solido, il profilo di efficacia e di sicurezza delle nuove terapie. Ovvero rischiamo di non capire quali farmaci sono veramente efficaci e quali invece potrebbero essere addirittura dannosi. Anche il farmaco di punta per questa patologia, il remdesivir, una volta che è stato provato all’interno di un trial clinico randomizzato non ha avuto un’efficacia eccezionale come ci si aspettava. Il Lancet, che ha pubblicato il primo studio randomizzato condotto su 237 pazienti, ci dice testualmente che “il remdesivir non è stato associato a benefici clinici statisticamente significativi. Tuttavia, vista la riduzione del tempo necessario al miglioramento clinico osservato nei soggetti trattati rispetto ai non trattati è necessario confermare dell’efficacia del farmaco in studi più ampi” [1] . Le analisi preliminari di un secondo studio di dimensioni maggiori (1063 pazienti) sono state pubblicate recentemente sul New England Journal of Medicine [2] . Tuttavia, questo secondo studio ha essenzialmente confermato che remdesivir riduce la durata della malattia ma non riduce significativamente la mortalità. In sostanza, al momento nessuno studio di qualità accettabile ha dimostrato l’efficacia di un farmaco nel ridurre la mortalità dei pazienti con covid-19.

Rischiamo di non capire quali farmaci sono veramente efficaci e quali invece potrebbero essere addirittura dannosi.

Simone Lanini

MARINA BIANCHI Il problema di non avere uno standard of care per la pandemia covid-19, condiviso a livello nazionale, mi fa pensare alle parole di Giovanni Falcone: “Si muore generalmente perché si è soli, perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno”. Si muore perché siamo distanti, quindi. Se è normale non avere uno standard of care per un patogeno nuovo, è impensabile non avere un piano di gestione nazionale per le cure a domicilio, all’esordio della malattia, prescritte dal medico di famiglia, in tanti casi le più importanti per evitare il ricovero. A questo proposito il 18 aprile è stata inviata una lettera al ministro Speranza da 100.000 medici italiani. Le terapie proposte come standard of care hanno potenziali effetti collaterali, e si dovrebbe sceglierne l’utilizzo solo di fronte a una diagnosi fatta con l’esecuzione di un tampone, non solo sindromica. In Lombardia c’è stata difficoltà a eseguire tamponi, sia quelli diagnostici sia, fino al 16 aprile, quelli ai lavoratori essenziali (addetti nei supermercati, badanti, autogrill) che rientravano al lavoro dopo malattia (scrissi una lettera il 13 aprile per richiedere l’obbligo di tampone almeno per certe categorie di lavoratori). Per noi medici di medicina generale spesso è difficile interpretare correttamente le numerose indicazioni che ci pervengono, stratificandosi nel tempo, dal Dipartimento di cure primarie: per esempio, inizialmente l’uso di idrossiclorochina non era consentito perché off label, ma poi, in una successiva comunicazione, l’impiego di idrossiclorochina, lopinavir/ritonavir e darunavir/cobicistat veniva consentito solo in questo periodo di emergenza, previo consenso informato del paziente. Informazioni confuse, quindi, in ritardo rispetto ai bisogni e discordanti a livello nazionale. Il non avere uno standard of care autorizzato dalle istituzioni ha portato alla paura di prescrivere le terapie consigliate dalla Simit, che comunque prevede l’esecuzione del tampone prima dell’utilizzo di farmaci, controindicati però da Agenzia italiana del farmaco al di fuori di studi clinici. Per esempio, l’azitromicina: “Gli usi non previsti dalle indicazioni autorizzate e non raccomandati restano una responsabilità del prescrittore e non sono a carico del Servizio sanitario nazionale”. Ora, nei giorni scorsi sono apparsi studi sull’inefficacia dei due farmaci più usati, l’idrossiclorochina e l’azitromicina nei pazienti ricoverati [3,4] . Uno studio è in corso [5] , per verificare l’efficacia quando questi farmaci sono utilizzati all’esordio.

Se è normale non avere uno standard of care per un patogeno nuovo, è impensabile non avere un piano di gestione nazionale per le cure a domicilio. Marina Bianchi


Bibliografia

[1] Wang Y, Zhang D, Du G, et al. Remdesivir in adults with severe covid-19: a randomised, doubleblind, placebo-controlled, multicentre trial. Lancet 2020;
395:1569-78.
[2] Beigel JH, Tomashek KM, Dodd LE, et al. Remdesivir for the treatment of covid-19 – Preliminary report. N Engl J of Med, 22 maggio 2020.
[3] Rosenberg ES, Dufort EM, Udo T, et al. Association of treatment with hydroxychloroquine or azithromycin with in-hospital mortality in patients with covid-19 in New York State. JAMA. Published online May 11, 2020. doi:10.1001/jama.2020.8630
[4] Geleris J, Sun Y, Platt J, et al. Observational study of hydroxychloroquine in hospitalized patients with covid-19. N Engl J of Med, 7 maggio 2020.
[5] PRINCIPLE: A trial evaluating treatments for suspected covid-19 in people aged 50 years and above with pre-existing conditions and those aged 65 years and above. May 21, 2020. ISRCTN86534580 https://doi.org/10.1186/ISRCTN86534580