Caratteristiche ambientali e spaziali possono contribuire a migliorare la qualità di vita delle persone con demenza?
È dimostrato da numerose evidenze scientifiche che alcune caratteristiche dello spazio possono assumere una valenza “terapeutica” e supportare le difficoltà connesse con i deficit cognitivi. Al contrario, può avvenire che spazi non adeguatamente progettati possano contribuire ad accentuare le disabilità della persona e ostacolare il lavoro degli operatori. In questo senso l’architettura, oltre a rappresentare uno stimolo per gli ospiti, può configurarsi come un supporto o un impedimento per il corretto svolgimento di terapie riabilitative e bio-psico-sociali. Lo spazio, per essere considerato “terapeutico”, deve essere concepito per offrire alla persona la possibilità di ristabilire un’interazione con l’ambiente tramite canali di comunicazione adatti alle capacità residue. Con i suoi connotati, lo spazio può riattivare la memoria, facilitare l’orientamento, ridurre il senso di frustrazione, contenere la paura, attraverso le sensazioni di sicurezza e benessere che la persona percepisce. Tutto ciò può avvenire anche in uno stato di ridotta consapevolezza ed è per questo che, nei criteri di progettazione, la componente percettivo-sensoriale diventa prevalente rispetto a quella funzionale.
Iniziative come quella del villaggio di Hogewey in Olanda, il primo villaggio per malati di Alzheimer, possono fare la differenza?
Nel panorama internazionale l’esperienza olandese del “dementia village” di Hogewey resta, a distanza di dieci anni, l’intervento maggiormente innovativo nell’ambito delle architetture e dei servizi per la demenza, costruito come un vero e proprio quartiere urbano, ma protetto e controllato. Tuttavia, l’elemento che contrasta maggiormente con il principio della continuità di presa in carico e con l’esigenza (economica e sociale) di riduzione dell’istituzionalizzazione è la natura del villaggio, concepito per poche persone e per le fasi iniziali della patologia. Se da una parte questo può rappresentare una risposta per una fase definita e talvolta ridotta della malattia, di fatto non modifica in modo rilevante la presa in carico delle fasi più critiche, rischiando invece di spingere verso l’istituzionalizzazione persone che, se adeguatamente assistite, potrebbero permanere a domicilio proseguendo la propria normal life (invece di una normal life artificiale). A questo proposito è significativa la domanda che pone il professor Marco Trabucchi nel libro I volti dell’invecchiare a proposito dei villaggi Alzheimer: “Una vita più facile o un villaggio dei folli dove, sotto l’apparente rispetto, si cela di fatto una condizione di segregazione tra sfortunati?”. Di ispirazione completamente diversa sono invece i progetti che discendono dall’idea delle dementia friendly communities, che puntano all’inclusione delle persone con demenza nelle attività comunitarie e nel contesto cittadino, senza la creazione di strutture protette ed esclusive, che rischiano di diventare luoghi di solitudine.