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Spazi della cura Interviste

Disegnare la rete ospedaliera del futuro

Quelle correzioni necessarie affinché modello e realtà coincidano

Intervista a Francesco Enrichens

Membro dell'advisory board del Sistema nazionale delle linee guida dell'Istituto superiore di sanità, e del Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici del Ministero della salute

By Maggio 2020Luglio 24th, 2020Nessun commento
Fotografia di Lorenzo De Simone

Covid-19 ha messo a dura prova il sistema sanitario e in particolare diverse regioni. Che cosa non ha funzionato?

Ci siamo trovati a dover gestire una situazione che negli anni venti i nostri colleghi avevano saputo gestire sicuramente meglio in quanto più avvezzi di noi a fronteggiare epidemie e pandemie. E quando si è impreparati si cerca una risposta con gli strumenti, anche culturali, a disposizione. In molti hanno colpevolizzato il decreto ministeriale Balduzzi e il Dm 70 del 2015 che orienta l’organizzazione degli ospedali verso una ristrutturazione secondo il concetto di hub e spoke, definendo i posti letto in base al parametro di 3,7 per mille abitanti, di cui lo 0,7 di post-acuzie. Alcuni ritengono che questo parametro abbia determinato un drastico taglio dei posti letto, in realtà così non è stato perché in molte regioni italiane questo parametro era già ben al di sotto, e in particolare per quanto riguarda i posti letto di terapia intensiva questi sono passati da 4679 nel 2010 a 5179 attuali: dunque non è certamente il Dm 70 che ha portato a una riduzione dei posti letto in terapia intensiva, anzi. Vero è che nella prima parte di impatto di Covid-19 la massiva ospedalizzazione nell’unità di tempo di pazienti fragili, anziani con patologie respiratorie acute ha portato alla necessità di un repentino incremento dei posti letto di terapia intensiva fino a giungere a 9000 circa. Sicuramente la rete ospedaliera così come era parcellizzata prima del regolamento sarebbe stata assai più inefficiente e avrebbe retto ancor meno all’impatto, anche perché laddove è stato applicato il Dm 70 ha garantito la presenza di discipline per l’emergenza ordinaria che comunque ha continuato a pesare sul sistema degli ospedali in parallelo alla pandemia. L’unico vero difetto di programmazione è stato la mancanza di una contemporanea riorganizzazione della rete territoriale: qualsiasi cambiamento in una rete si ripercuote sulle altre. Infatti laddove il territorio si è dimostrato più debole è stato più difficile contenere l’assalto agli ospedali con le conseguenze note.

Come è stata rimodulata la rete ospedaliera con il Dm 70?

È stata organizzata in hub e spoke con diversi livelli di complessità definiti sulla base del bacino di utenza e dei volumi di attività. L’hub ha un bacino di utenza da 600 mila a 1,2 milioni di abitanti e rappresenta il nodo in cui si devono declinare tutte le discipline ad alta specialità, necessarie e sufficienti per dare una risposta a tutto campo. Gli spoke hanno invece un bacino d’utenza di 150-300 mila abitanti, e garantiscono le discipline di base. I centri con bacini di utenza da 300 a 600 mila abitanti hanno un livello di complessità intermedia per rispondere a patologie tempo dipendenti, quali l’infarto con sopraslivellamento del tratto ST, lo stroke, il politrauma. La rete di emergenza, sia territoriale (118 e 112) sia ospedaliera, consente la presa in carico del paziente in pericolo di vita nei tempi adeguati e di trasportarlo nel centro più idoneo più vicino. Questa rimodulazione ha introdotto un cambiamento culturale epocale nell’organizzazione della sanità secondo i criteri di appropriatezza, efficienza e sostenibilità economica. Il sistema, ottimale per la gestione ordinaria e preparato per un considerevole afflusso di feriti (ndr: Piano emergenza interno massiccio afflusso di feriti, Peimaf), non era pronto per una emergenza biologica quale Covid-19. Inoltre la nostra rete ospedaliera è vetusta e rappresenta rigidità strutturali che non permettono modificazioni repentine. Per tale motivo le nuove misure di emergenza in materia di ospedali prevedono un incremento strutturale di posti letto di terapia intensiva, che avvicina allo standard europeo di 0,14 letti per mille abitanti, ma anche una ristrutturazione verso la terapia semintensiva di 4225 letti e una implementazione qualitativa di letti di area medica.

In questo modo non ci faremo trovare impreparati al prossimo picco…

L’obiettivo è rimodulare gli spazi, i percorsi assistenziali e la logistica. L’ospedale del futuro dovrebbe essere più flessibile, con camere di degenza progettate per essere trasformate in un unico ambiente per ampliare la capienza del reparto in caso di necessità. Devono essere garantiti impianti di aria compressa, vuoto, ossigeno e quelli di condizionamento, oltre alle necessarie tecnologie. È imperativa la suddivisione dei percorsi all’interno dell’ospedale al fine di evitare contaminazioni. I pronto soccorso devono dotarsi di un pre-triage e di aree di attesa di diagnostica per poter separare i soggetti infetti, o presunti tali, dagli altri pazienti.

Accanto a una rete di ospedali Covid-19 dedicati, dovranno essere individuati gli ospedali che assicurano i servizi assistenziali per le altre patologie. Saranno poi disponibili i centri specialistici in grado di permettere la consulenza di colleghi infettivologi, pneumologi e di altre discipline alla rete Covid-19 e per le attività territoriali e domiciliari. Infatti ancor più la rete ospedaliera e quella dell’emergenza devono lavorare in sinergia con quella territoriale, perché è sul territorio che si può vincere la battaglia attraverso il tracciamento precoce degli infetti, l’isolamento domiciliare e anche l’assistenza domiciliare fin quando è possibile al fine di prevenire una concentrazione di malati negli ospedali, che a sua volta si traduce in una più alta facilità di contagio e anche di mortalità.

L’ospedale del futuro dovrebbe essere più flessibile. È imperativa la suddivisione dei percorsi all’interno dell’ospedale.

Quali i prossimi passi?

La riconversione dei letti già esistenti secondo standard qualitativi e tecnologici più elevati in aree isolabili permetterà di migliorare il livello assistenziale anche in tempi normali. Gli specialisti dovranno uscire da logiche corporative e puntare a una formazione multidisciplinare, condividendo tecnologie e strumenti di comunicazione e organizzazione, quali le centrali operative del territorio (116117) e la telemedicina. Quindi un’edilizia più elastica da una parte e dall’altra una cultura più moderna e collaborativa. L’occasione può venire dalla straordinaria iniezione di personale anche infermieristico che ci permetterà, qualora venisse in gran parte stabilizzato, di ricostruire rapporti tra le diverse reti (emergenza, ospedale, territorio) con uno sforzo formativo che conduca alla multiprofessionalità e multidisciplinarietà secondo un approccio per intensità di cure. Altri requisiti indispensabili per un miglior livello qualitativo di programmazione e gestione sono la trasparenza del dato e l’individuazione di standard di personale, anche per il territorio, basati su volumi di attività e fabbisogni di assistenza. Questo ci permetterà di definire puntualmente la percentuale di popolazione anziana e fragile con più patologie e prenderla in carico in maniera proattiva.

Un’edilizia più elastica da una parte e dall’altra una cultura più moderna e collaborativa.

L’intervista è stata rilasciata l’11 aprile 2020