Skip to main content
(R)evolution Interviste

Quella “distruzione creativa” delle cure primarie

Fare della rivoluzione digitale un’opportunità. Progettazione, collaborazione, formazione.

Intervista a
Giampaolo Collecchia

Medico di medicina generale, Massa, Comitato di etica clinica, Usl Toscana Nord Ovest, Centro studi e ricerche in medicina generale

Salvo Fedele

Pediatra di libera scelta, Palermo

By Dicembre 2019Maggio 11th, 2021Nessun commento

Digitalizzazione, intelligenza artificiale e robotica potrebbero rivoluzionare la pratica medica e l’assistenza sanitaria. Secondo lei siamo di fronte a un cambiamento dirompente o a una progressiva trasformazione?
GC La rivoluzione digitale sta modificando non solo la professione medica, ma anche i paradigmi culturali, epistemologici, etici della società. A tale proposito, Eric Topol citando Joseph Schumpeter, famoso economista austriaco, parla di “distruzione creativa”, in riferimento alla trasformazione che in genere accompagna le grandi innovazioni [1]. L’uso sempre più intensivo dei dispositivi indossabili sta per esempio realizzando una sorta di nuovo apparato sensoriale, in grado di ridefinire lo stesso concetto di identità corporea. Come afferma il filosofo Cosimo Accoto, “non si tratta solo di strumenti per calcolare il numero di passi o la quantità di calorie bruciate ma di strumenti con cui stiamo costruendo la nostra nuova (idea di) soggettività umana” [2].

I robot assistenziali, sempre più sofisticati e sviluppati, ci portano a domande di responsabilità sui principi fondanti delle nostre relazioni. Un robot appare qualcosa di inumano, ingannevole e inappropriato: l’automa non prova nulla di quello che proviamo noi. I robot ci invitano dunque a riflettere su come vogliamo essere, che tipo di persone vogliamo diventare, dal momento che ci stiamo avviando in rapporti sempre più intimi con le macchine e sempre meno nei confronti dei diritti e del rispetto delle persone vere. Secondo alcuni, è sbagliato rimanere fissati a codici etici predefiniti, ancorati al passato, anche se costitutivi dell’identità umana. Dovremmo allora adeguarci alla evoluzione artificiale delle questioni etiche emergenti dalle nascenti ecologie sociali miste uomo-robot? Dovremmo accettare la possibilità di emozioni “altre”, solo simili alle nostre, pur provenienti da oggetti da noi realizzati, e quindi accettare/arrendersi a una inquietante etica “sintetica” [3]?

SF Non credo molto alla contrapposizione uomo/macchina a opera della rivoluzione digitale. Il problema vero è la lenta e quotidiana trasformazione/evoluzione degli uomini che interpretano la medicina – dal momento in cui lasciano l’università fino alla piena “maturazione” professionale. È quello che siamo/saremo come medici che plasmerà le macchine che governeranno la sanità e non viceversa. Una medicina sempre più disumana, frettolosa e poco incline al confronto non verrà sostituita dalla digitalizzazione del mondo, più semplicemente ingloberà la tecnologia nella “interpretazione” vincente del nostro lavoro. La rivoluzione digitale viene vista ormai come “opportunità” di risparmio di tempo e risorse umane e non come un’occasione di cambiamento nella direzione dei principi fondanti del nostro Servizio sanitario nazionale (Ssn).

Le racconto una piccola storia che è anche il mio progetto “digitale” di più grande successo e nello stesso tempo il più significativo fallimento. Penso di poter dire di essere stato tra i primi a organizzare una redazione telematica di una rivista medica in Italia e forse un poco oltre i confini del nostro paese. L’idea di base non era semplicemente quella di realizzare una rivista ma quella di strappare i pediatri, che vivevano la loro professione in solitudine, all’isolamento cui erano confinati. All’alba della rivoluzione digitale mi sembrava impossibile continuare a dover accettare il nostro “destino di solitudine”. La “mancanza di tempo” da dedicare a quel progetto e altre problematiche di natura prettamente “umana” presto presero il sopravvento e ognuno tornò ai propri interessi. Da un punto di vista digitale tutto era andato avanti alla perfezione. Alcune scelte tecnologiche erano state particolarmente lungimiranti. Quelle che non funzionarono per il proseguimento del progetto non erano state le macchine, ma gli uomini, a cominciare dal sottoscritto. Con le stesse macchine e con altri uomini la direzione di quel percorso sarebbe stata molto diversa.

Non credo molto alla contrapposizione uomo/macchina a opera della rivoluzione digitale. Il problema vero è la lenta e quotidiana trasformazione/evoluzione degli uomini che interpretano la medicina. – Salvo Fedele

Mark Zuckerberg, fondatore, presidente e amministratore delegato di Facebook, ha affermato: “Ormai gli utenti condividono senza problemi le informazioni personali online. Le norme sociali cambiano nel tempo. E così anche per la privacy”. La digitalizzazione ha reso la riservatezza un concetto superato?
GC I dati personali, la condizione di salute/malattia, proiezione digitale delle nostre persone, sono prede allettanti per la creazione di valore nel mercato digitale, una risorsa da sfruttare, una merce che noi stessi produciamo, in una sorta di schiavitù volontaria. Il concetto di dato assolutamente anonimo è ormai sparito, in una sorta di far web di schedature e profilazioni ossessive, fuori controllo, nel quale la violazione della privacy sembra sistematica. Recentemente, un’inchiesta del Washington Post ha messo sotto accusa una app in grado di monitorare la salute intima delle donne, dal ciclo mestruale all’ovulazione fino alla gravidanza, e di fornire tali dati ai datori di lavoro come strumento per scoprire, per esempio, il desiderio delle lavoratrici di rimanere incinta (e quindi di allontanarsi per mesi dal posto di lavoro) [4]. La protezione della riservatezza, anche in ambito sanitario, richiede la concezione di nuovi costrutti, maggiormente allineati agli attuali contesti ontologici prodotti dalle sempre più affascinanti/inquietanti intelligenze computazionali, peraltro indispensabili, per fornire risposte in ambiti a elevata complessità e incertezza, come quelli della salute/malattia [5].

La risposta deve essere culturale, mediante il recupero e la promozione dei diritti delle persone, compreso quello di rinunciare, consapevolmente, alla fruizione del diritto alla privacy, per chi voglia partecipare al flusso dell’attualità tecnologica ed essere costantemente “on line” anziché “on life”. La soluzione peraltro non sta nella applicazione di norme rigide, di documenti di garanzia che, applicabili con difficoltà nella pratica quotidiana, rischiano peraltro di non raggiungere l’obiettivo di salvaguardia della riservatezza ma di subire prevalentemente una deriva in senso normativo e burocratico. Secondo molti esperti, i rischi di violazione della privacy non si combattono infatti impedendo o limitando la raccolta di informazioni ma piuttosto, in maniera controintuitiva, aumentando i dati. Le stesse tecnologie digitali possono infatti essere utilizzate per proteggere la riservatezza [6].

I rischi di violazione della privacy non si combattono limitando la raccolta di dati ma piuttosto, in maniera controintuitiva, aumentandola. – Giampaolo Collecchia

Molta della digital health è proposta ai servizi territoriali che secondo alcuni rappresentano l’ambito più vulnerabile del Ssn perché meno “attrezzato” per valutare e implementare efficacemente l’innovazione. Per lei sono dubbi fondati?

SF Non è una domanda semplice. Contiene molte domande e forse sono necessari alcuni chiarimenti preliminari: cosa intendiamo con digital health? App per gli smartphone e per i tablet? Piuttosto farei un esempio di digital health cui nessuno è interessato, neppure i produttori, e che meriterebbe almeno qualche considerazione e interesse. Oggi quanti potrebbero fare davvero da gold standard di una auscultazione cardiaca? La digital health ha riscoperto pezzi di ricerca dimenticati sulla interpretazione spettrografica della auscultazione del cuore. Il pioniere di questa ricerca è stato Victor McKusick [7]. La startup che aveva riscoperto il suo lavoro e la trasferibilità pratica nell’attività clinica quotidiana è stata acquisita da un gigante dei fonendoscopi. Da allora il software è stato completamente dimenticato. Si vende insieme al fonendoscopio, ma è fermo e rischia di finire inutilizzabile, a ogni aggiornamento dei principali sistemi operativi. Coloro che lo sanno davvero utilizzare sono pochissimi. Il manuale che accompagna il fonendoscopio è privo di qualsiasi riferimento alle caratteristiche della spettrografia. Studi di validazione pochissimi. La domanda interessante potrebbe essere: perché succedono cose come queste su scala globale e non nella nostra povera provincia arretrata? Inoltre, la sua domanda fa riferimento a una scarsa attitudine del personale che lavora nei servizi territoriali alla validazione della digital health. Se questo fosse il presupposto, sarebbe consigliabile lasciare uso e valutazione solo a riconosciuti esperti di e-health? Per esempio gli stessi che hanno portato avanti la validazione del fascicolo sanitario elettronico in Italia? Come è possibile che in un paese così arretrato sul fronte della comunicazione (di ogni tipo) tra servizi, si individui come priorità proprio il fascicolo sanitario elettronico? Molti paesi che da decenni investono con ricerca e sperimentazione su questo aspetto non si ritengono ancora pronti a questo passaggio e invece noi, in nome dell’innovazione, disegniamo una architettura rigida, una diga chiusa a qualsiasi sperimentazione. Il problema non è la scarsa attitudine dei medici dei servizi territoriali a valutare/implementare ma voler trasformare gli operatori in esecutori acritici dell’innovazione che si vuole imporre. Così non si farà molta strada. Pensi al dibattito di questi giorni sulla introduzione dei point of care technology in medicina di base: è un dibattito che ignora completamente le possibilità offerte dalla rivoluzione digitale per la formazione sul campo. Ancora una volta si vuole imporre “innovazione” senza sforzo reale di progettazione/validazione delle proposte, ignorando del tutto le vere possibilità innovative offerte dalla rivoluzione digitale.

Si vuole imporre “innovazione” senza sforzo reale di progettazione/validazione delle proposte, ignorando del tutto le vere possibilità innovative offerte dalla rivoluzione digitale. – Salvo Fedele

Un servizio come Babylon è destinato ad avere successo? Quali sono i suoi punti di forza?
GC L’ambiziosa mission di Babylon Health, società di servizi sanitari, sarebbe quella di ridurre il carico lavorativo dei medici e dei servizi ospedalieri, in particolare dei pronto soccorso, e di fornire un migliore servizio ai cittadini, in modo da rendere il servizio sanitario accessibile, economico e “a portata di mano”, idealmente per tutti gli abitanti della terra. Babylon fornisce un servizio rapido, on demand, per pazienti senza importanti problemi di salute, tecnologicamente competenti (digitally confident), che possono rivolgersi ad un medico in momenti per loro convenienti, per necessità episodiche e ben definite, evitando le problematiche logistiche. A questi, che possiamo considerare punti di forza, si contrappongono numerosi punti di debolezza: la maggioranza degli assistiti delle cure primarie, gli anziani, i malati complessi, gli analfabeti digitali, quelli che necessitano di assistenza domiciliare, che considerano punto di riferimento della loro vita il contatto con altri pazienti nella sala di attesa, che hanno bisogno di continuità di cura, tendono a essere esclusi.

I sistemi di intelligenza artificiale rivolti al pubblico rafforzano inoltre il concetto che la risposta ai problemi di salute possa essere affidata alla tecnologia. Il paziente acquisisce eccessiva sicurezza nei confronti delle risposte delle macchine e si rafforza l’idea di un cittadino informato, empowered, in grado di trattare con il medico senza posizioni gerarchiche predefinite. L’intelligenza artificiale può invece consentire risposte solo a domande precise, a sintomi specifici, mentre proprio nella fase iniziale, quella gestita dal symptom checker di Baylon, sono spesso presentati sintomi indifferenziati (sfumati, atipici, sovrapposti), da interpretare e strutturare in storie cliniche univoche e coerenti per trovare risposte che abbiano un senso. La relazione medico-paziente, attualmente ostacolata dalla sempre maggiore invadenza della componente burocratica e amministrativa dell’assistenza e sempre più sottovalutata, può essere appaltabile alla tecnologia, come nel caso di Babylon e di altre iniziative simili. È lecito/doveroso trovare soluzioni alternative rispetto a sistemi sanitari che stanno collassando, ma la tecnologia non può sostituire la relazione medico-paziente [8].

Sono le buone idee ad attirare investimenti, ma non tutto ciò che fa profitto è destinato ad innovare realmente secondo le aspettative. – Salvo Fedele

SF Il punto di forza di Babylon è la facilità con cui ha fatto breccia nel National health service. Nel Regno Unito il sistema di scelta del general practitioner ha permesso attraverso pochissime GP clinics la “sperimentazione non sperimentale” su una enorme massa di “clienti”. È un esempio classico delle modalità con cui l’innovazione viene assunta anche dai sistemi sanitari pubblici: solo chi ha buoni investitori alle spalle che individuano facili possibilità di guadagno ha idee vincenti. Uno dei dogmi della modernità è che sono le buone idee ad attirare investimenti, ma non tutto ciò che fa profitto è destinato ad innovare realmente secondo le aspettative cui un sistema sanitario pubblico dovrebbe tendere.

È auspicabile (indispensabile) una collaborazione tra clinici e sviluppatori per integrare le possibilità della tecnologia con l’esperienza della pratica, per rispondere ai veri bisogni delle persone e alle loro reali necessità di cura. – Giampaolo Collecchia

Mentre alcuni considerano che la trasformazione digitale della medicina porterà a una maggiore disumanizzazione del processo di cura, altri ritengono che proprio grazie ai sistemi di intelligenza artificiale, alle terapie digitali e alla robotica i medici avranno più tempo da dedicare ai pazienti. Mentre ci domandiamo se la digitalizzazione sia una minaccia o una risorsa, la trasformazione della medicina va per a sua strada. Quali i passi da fare per non perdere la partita?
GC La tecnologia sarà utile in quanto complementare per il medico, che potrà delegare alle macchine le operazioni sui dati e avere più tempo per prendere in carico i bisogni assistenziali del proprio paziente. I risultati migliori sono infatti attesi quando l’IA lavora di supporto al personale sanitario, svolge un ruolo di “secondo set di occhi”, di integrazione culturale tra umani e macchine smart [9]. Come affermato da Abraham Verghese, “i clinici dovrebbero ricercare un’alleanza in cui le macchine predicono (con una accuratezza significativamente maggiore) e gli esseri umani spiegano, decidono e agiscono” [10]. Per questo, i medici devono svolgere un ruolo di guida, supervisione e monitoraggio, utilizzando la propria intelligenza e le capacità che li rendono superiori alle macchine, in particolare l’astrazione, l’intuizione, la flessibilità e l’empatia, le cosiddette soft skills. È indispensabile esercitare un approccio conservativo e costruttivamente critico, per evidenziare e utilizzare le enormi potenzialità delle tecnologie, ma anche i limiti (e le possibili minacce, come la distopia fantascientifica delle macchine al potere!). È pertanto auspicabile (indispensabile) una collaborazione tra i clinici e gli sviluppatori per integrare le possibilità della tecnologia con l’esperienza della pratica, per rispondere ai veri bisogni delle persone e alle loro reali necessità di cura. 

È necessaria una formazione/sensibilizzazione del personale sanitario per iniziare un percorso in grado di stabilire le strategie e le politiche nei confronti di una tecnologia. – Giampaolo Collecchia

Come lei si augura che la e-health possa cambiare le cure primarie?
GC In realtà il mio auspicio è che possano essere le cure primarie a cambiare la e-health. In tale ambito, caratterizzato da un approccio fiduciario, demedicalizzante e orientato alle persone, è possibile modulare un cambiamento delle tecnologie che si potrebbe definire “vettoriale”, anziché puntuale come spesso accade: un cambiamento di direzione, di prospettive, di obiettivi di salute e delle conseguenti variabili di riferimento: uguaglianza, bisogni di presa in carico, accessibilità a informazione e cure/servizi, progettualità di salute, continuità di cura. Questa dovrebbe essere la vera innovazione “tecnologica”, ad alto valore aggiunto, flessibile, potente ed economica, orientata ai bisogni veri dei cittadini. Tale trasformazione dovrà essere progressiva, per comporre gradualmente il rapporto tra le tecnologie e le esigenze di cura. È necessaria una formazione/sensibilizzazione del personale sanitario per iniziare un percorso in grado di stabilire le strategie e le politiche nei confronti di una tecnologia che, anche se attualmente scarsamente impiegata rispetto alle sue potenzialità, in un futuro non lontano è destinata a cambiare l’essenza delle cure primarie. È ironico che, proprio quando il tempo nella pratica clinica è sempre più limitato, sarebbe invece indispensabile una profonda riflessione sui possibili effetti della trasformazione in atto, in termini di accettazione, da parte dei curanti, degli operatori e dei cittadini, degli inevitabili e profondi cambiamenti, in termini applicativi ma soprattutto di ruolo e di relazione.

Sarebbe indispensabile una profonda riflessione sui possibili effetti della trasformazione in atto, in termini applicativi ma soprattutto di ruolo e di relazione. – Giampaolo Collecchia

SF Alcuni degli strumenti dell’e-health hanno già cambiato le cure primarie. La rapida condivisione di un problema in tutte le sue sfaccettature è già una realtà da molti anni. Per condividere un problema serve mettersi in gioco e imparare a discutere davvero. Serve dedicarvi tempo. Ma questo tempo non è attualmente contemplato. Anzi direi che gli attuali processi relegano la discussione/riflessione a un optional assolutamente irrilevante. La condivisione mediata dagli strumenti digitali permette studio e riflessione individuale. Riflettere non è più considerato un tempo “riconosciuto” del nostro lavoro. Condividere un problema corrisponde a dire quel che ti salta in mente e fare “bella figura” più velocemente degli altri? L’obiettivo di molti processi di innovazione digitale è solo “perdere meno tempo” ignorando proprio l’importanza di quel tempo “in più” che dovrebbe essere previsto e accettato. Ancora una volta la colpa non è certo dello strumento ma della modalità con cui ci siamo formati prima e allenati poi. E dalla modalità con cui l’attuale organizzazione del lavoro impone tempi ed efficienza. Non a caso la scrittura è sempre più separata dalla riflessione; i medici la considerano quasi esclusivamente un tempo burocratico, quando non semplicemente un tempo inutile.

L’e-health è stato un grande processo di democratizzazione della medicina, una straordinaria opportunità per la qualità dell’assistenza e la condivisione/soluzione dei problemi. – Salvo Fedele

Ancora qualche esempio? Banche dati e condivisione della letteratura rappresentano una realtà per numerosi Sistemi sanitari pubblici con un modello realizzato avanti a tutti: penso alla Norvegia. Al confronto il nostro sistema di condivisione di banche dati è semplicemente primitivo. Per tornare però alla qualità con cui un problema viene affrontato e condiviso: oggi non solo un medico, ma persino un comune cittadino norvegese ha la possibilità di accedere a banche dati di straordinaria qualità per scegliere o valutare il percorso di cure che sta facendo o si sta proponendo. La battaglia contro dottor Google è stata vinta in Norvegia da molti anni e con una modalità molto semplice: l’accesso alla informazione di qualità garantita a tutti. La priorità di questa scelta è assolutamente ignorata dagli innovatori digitali del nostro paese. E il dibattito sulla qualità delle banche dati? Frettolosamente omologato dalle nostre parti alla produzione di linee guida di società scientifiche auto-proclamatesi al di sopra di ogni sospetto. Siamo ancora alla difesa esasperata del ruolo dell’esperto a tutti i livelli. I media e la politica rincorrono esperti dappertutto e per tutte le possibili finalità. Anche per questo il dibattito pubblico sui conflitti di interesse suscita fastidio e irritazione. L’e-health è stato tra l’altro un grande processo di democratizzazione della medicina, una straordinaria opportunità per la qualità dell’assistenza e la condivisione/soluzione dei problemi.
L’arretratezza digitale dei medici (che comprende la qualità delle interazioni di cui sono capaci e non solo la capacità di districarsi tra le app) coinvolge persino le nuove generazioni. C’è poca curiosità, poca voglia di mettersi in gioco, paura dell’innovazione per quello che può rappresentare in termini di “criticità” del nostro ruolo e delle nostre aspettative di carriera. L’e-health è anche una grande opportunità per la formazione permanente. Lo è dappertutto nel mondo. A volte una maniera infantile e gioiosa di apprendere e di mettersi in gioco. E in Italia? Le migliori Fad disponibili? Sono di una noia mortale, un avvilimento.
Da diversi anni l’e-health arricchisce le competenze professionali degli operatori sanitari; personalmente mi ha trasformato, messo in gioco, e mi ha offerto opportunità quotidiane di cambiamento e forse alcune sono anche riuscito a introiettarle. In un contesto diverso forse avrebbe fatto di me un professionista migliore. Forse faccio molta fatica a vedere i progressi realizzati perché abbagliato da quello che avremmo potuto/dovuto essere già oggi e non domani.

Bibliografia

[1] Topol E. The creative destruction of medicine. How the digital revolution will create better health care. New York: Basic Book, 2011.
[2] Accoto C. Il mondo dato. Cinque brevi lezioni di filosofia digitale. Milano: Egea, 2017.
[3] Brooks R, citato in: MIT: creating a robot so alive you feel bad about switching it off – a Galaxy Classic. The Daily Galaxy, 24 dicembre 2009.
[4] Harwell D. Is your pregnancy app sharing your intimate data with your boss? Washington Post, 10 aprile 2019.
[5] Collecchia G. Intelligenza umana e artificiale: culture a confronto/scontro. Assist Inferm Ric 2018; 4: 28-31
[6] Collecchia G. Dall’habeas corpus all’habeas data. Recenti Prog Med (in press).
[7] McKusick VA. Cardiovascular sound in health and disease. Baltimore: William & Wilkins, 1958.
[8] Collecchia G. La relazione medico-paziente nel mondo digitale: una Babilonia? Recenti Prog Med 2019;110:397-400.
[9] Davenport TH. Artificial intelligence and the augmentation of health care decision-making. N Engl J Med Catalyst, 19 giugno 2018.
[10] Verghese A, et al. What this computer needs is a physician. Humanism and artificial intelligence. JAMA 2017;319:19-20.

gennaio 2020