Perché non solo reti? Perché è una parola bella e intrigante. Reti come griglie per meglio comprendere la realtà, per sostenere la riflessione e il progetto. Reti come partecipazione e coinvolgimento di persone, competenze, esperienze. Reti però anche come ostacoli, barriere, separazioni. Reti dunque da attraversare, scavalcare, aggirare, sabotare. Reti da superare con un passante lungolinea o contro le quali veder spegnere la speranza di una vittoria.
Gettavano reti molti dei discepoli di Cristo per smettere, poi, una volta diventati pescatori di uomini. Una rete a raggiera di strade consolari consentì all’impero romano di espandersi fin dove le mappe disegnavano leoni e colonne sulle rive di mari sconosciuti. Una rete ben congegnata di nobili amici e mercanti era quella che permise a Lorenzo de’ Medici di costruire la propria, di Storia, e del rinascimento fiorentino. Una rete di comunicazioni garantì di avviare lo sviluppo dell’Europa nell’ottocento: fatta di strade e ferrovie ma soprattutto di tecnologia e di entusiasmo.
Reti, dunque, come strumento essenziale di progresso. Ma anche come fine, obiettivo, ambizione. Si costruisce una rete ma si segna, anche, una rete. Vinti dalla tentazione di risolvere questa ambiguità abbiano titolato questo approfondimento “Network/Reti”, scegliendo di raccontare anche la nuova frontiera delle network medicine che vede nel nostro organismo un teatro di relazioni ancora tutto da esplorare.
Il lavoro di questi mesi ci porta però ad amare non l’ambiguità quanto piuttosto l’ambivalente seduzione dei significati: rete è sì un risultato ma è soprattutto un metodo, la scelta di uno sguardo sulle cose condiviso e plurale. Al punto che, se dovessimo scegliere una frase chiave in cui asciugare il nostro lavoro, sarebbe quella di Eric Cantona, il grande calciatore francese del Manchester united: “La migliore rete è un passaggio”.