Una rete fatta di persone è una specie di superuomo perché i network sociali permettono di fare cose che una persona da sola neanche si sognerebbe di riuscire a realizzare. Fai conto che la tua casa vada a fuoco e vicino ci sia un fiume: hai voglia a provare a spegnere l’incendio da solo a forza di secchiate tirate sulle fiamme. Pensa alla differenza di poterlo fate in gruppo, soprattutto se composto da gente che sa il fatto proprio. D’accordo, nessuno di noi ha una casetta di legno in campagna e tantomeno vicino ad un ruscello ma l’esempio vale lo stesso.
Salvo casi molto particolari, ciascuno di noi è inserito in una rete di familiari, amici e conoscenti, strutturata secondo dei modelli che sono stati ampiamente studiati negli ultimi decenni. Se alcune reti sono organizzate in forme predefinite – pensiamo a quelle familiari o a quelle professionali, nelle quali la componente gerarchica ha un’influenza molto forte nel determinare il tipo di relazione tra le persone – gran parte dei network sociali assume forme non del tutto prevedibili, dettate dalla propensione naturale delle persone a stringere rapporti, a cercare nuove amicizie, a coltivare queste relazioni una volta avviate e così via. Tra le tante situazioni del mondo reale ad essere state studiate, quella degli studenti è per certi aspetti esemplare: in media, ogni studente ha rapporti di amicizia stretta con sei altri compagni di studio ma questo numero rappresenta una media e non la regola. A determinare la variabilità sono elementi diversi: dall’indole personale alla posizione che ciascun individuo finisce con l’assumere in una rete, così che la persona che ha un ruolo di snodo centrale nel gruppo – hai presente chi garantisce di essere tutti al calcetto del martedì o chi alla fine organizza le vacanze ad agosto per venti persone? – è esposto a un maggior numero di contatti e alla possibilità di ampliare ulteriormente la propria rete, al contrario di chi resta in una posizione periferica.

Nel 2003 fu pubblicato su Science il risultato di uno studio sulle relazioni sociali: a 60mila persone partecipanti alla ricerca fu chiesto di far recapitare un’email a 18 persone, in 13 nazioni diverse, inoltrando il messaggio solo a persone conosciute personalmente: tra i “bersagli”, un docente di una prestigiosa università americana, un informatico nicaraguense, un veterinario dell’esercito norvegese, un tecnico indiano e un poliziotto australiano. Ebbene, in media servivano cinque o sei passaggi per raggiungere il target.
Fonte: Dodds PS, Muhamad R, Watts DJ. An experimental study of search in global social networks. Science 2003;301:827-9.
Una struttura sociale basata sulle reti è molto dinamica, è un sistema aperto, suscettibile all’innovazione senza temere di perdere di equilibrio – Manuel Castells [1]
Perché si formi un network sociale sono necessarie delle connessioni e il contagio. Sì, proprio come una malattia infettiva. Forse non diversamente da una patologia trasmissibile, la relazione si instaura più probabilmente tra persone simili: i ricercatori parlano di omofilia, termine che in sociologia sta a indicare la tendenza consapevole o inconscia ad associarsi con persone che ci somigliano. Dopotutto è naturale: stiamo meglio con chi condivide i nostri interessi, con chi è curioso di ascoltare i nostri racconti, con chi sogna le stesse cose che noi sogniamo, si tratti di ricordi o di speranze per il futuro. Solitamente, però, le reti amicali non sono molto ampie. Se uno studente riesce ad avere in media sei amici cari, una persona adulta si ferma solitamente a quattro, con un range che va dai due ai sei. Solo cinque persone su cento hanno otto o più amici fidati [2]. Qualcuno potrebbe sorprendersi nel sapere che tra questi quattro affetti particolari sono compresi anche i familiari: dai partner ai genitori, dai figli ai fratelli, oltre che naturalmente le persone con cui lavoriamo. Ad incidere sull’ampiezza della rete non è solo l’età: conta anche l’istruzione perché chi è laureato ha più amici di chi si è fermato al liceo, per esempio. E gli effetti sono esponenziali perché più amici abbiamo, più alta è la probabilità di migliorare la propria “intelligenza” nel senso della capacità di trovare soluzioni e di reagire positivamente alle sfide della vita quotidiana.
L’influenza degli amici, però, non è sempre positiva: se il gruppo nel quale siamo inseriti ha una prevalenza di individui golosi, è assai probabile che ne risenta la forma fisica dei singoli componenti della rete di conoscenze. Se ci leghiamo a un gruppo di ricercatori poco produttivo, anche la nostra capacità di costruire e condurre progetti ne risentirà. Appetito, esercizio fisico, interesse per l’arte, capacità di ricerca, abilità relazionali col malato, competenze cliniche: tutto è contagioso.
Le persone che hanno un legame debole col resto del gruppo fanno da ponte per trasferire le innovazioni oltre i confini del gruppo di cui fanno parte – Mark Granovetter [3]
L’influenza che esercitiamo nei confronti di altri o che subiamo ha una capacità di estensione di tre livelli. È più comprensibile se lo spieghiamo in un altro modo: riusciamo a influenzare i nostri amici (primo livello), i loro amici (secondo livello) e gli amici degli amici (eccoci arrivati al terzo). Ovviamente, man mano che ci allontaniamo l’intensità della nostra influenza si attenua, fino ad annullarsi. La regola dei tre gradi di influenza si applica a una infinità di abitudini, di sentimenti e di comportamenti, ed è una delle chiavi per comprendere i meccanismi attraverso cui si diffondono le convinzioni politiche o le false informazioni, ma anche – lo abbiamo accennato in precedenza – condizioni come il sovrappeso o la felicità. Abbiamo le idee più chiare sulle dinamiche che permettono alle bufale scientifiche di diffondersi – al punto di sembrare una sorta di sentiment condiviso dalla popolazione – se mettiamo in relazione queste regole alla tendenza a legarsi a persone che la pensano come noi. Nel libro Connected, sempre Nicholas A. Christakis e James Fowler, gli studiosi delle reti amicali, prendono come esempio la fissazione degli statunitensi per l’allergia da arachidi [4]. Si tratta di una cosa che dovrebbe riguardare una minoranza della popolazione, considerato che in un anno sono solo 150 i decessi per allergie alimentari (e parliamo di tutte le possibili allergie) negli Stati Uniti. Niente al confronto dei diecimila bambini ospedalizzati per traumi cerebrali da sport o dei duemila che muoiono annegati: ma di questi non parla nessuno mentre la narrativa sull’intolleranza alle arachidi riempie i giornali oltre che le conversazioni della gente. Le convinzioni errate sulla salute – come su tante altre importanti questioni – sono alimentate dalla tendenza a farsi influenzare da chi sta vicino e da chi sta vicino a chi ci è vicino. Per fortuna, siamo contagiati non soltanto dalle bufale ma anche dalle informazioni corrette e non solo: anche dalla felicità [5]. Per ogni persona allegra che possiamo contare tra i nostri amici più stretti (che, conviene ricordarlo, sono solitamente quattro) la nostra personale probabilità di essere felici aumenta del 9 per cento. Però per ogni amico scontento o infelice, la probabilità della nostra felicità diminuisce del 7 per cento.
Costruire la propria rete è dunque una questione delicata: anche perché – spiega Albert-László Barabási nel suo libro più recente, La formula [6] – la responsabilità del nostro successo è da ricondurre alla comunità sulla quale possiamo contare e che risponde collettivamente alle nostre attività. “Il successo è un fenomeno collettivo, imperniato su come gli altri percepiscono le nostre prestazioni”. Ma come possiamo creare un network funzionale? La rete che ci sta intorno – che abbiamo visto sarà composta da persone capaci di svolgere il ruolo di collaboratori e di giudici – dovrebbe essere assortita in modo equilibrato da persone affiatate che si conoscono tra loro e da estranei, che provengano da ambiti più periferici ma che possano apportare la fondamentale diversità di vedute e una creatività che il gruppo più stabile potrebbe non garantire. Se pensiamo all’attività di ricerca, il coinvolgimento di alcune persone provenienti da altri contesti (enti, istituti, regioni, ecc.) mitiga quella che è conosciuta come la regola dei trenta passi, per la quale la tendenza è in genere quella di accontentarsi di collaborare con chi lavora ad un tiro di schioppo dalla propria scrivania. Questo è il campo di studio di Brian Uzzi, ricercatore e docente della Kellogg school of management della Northwestern university, appassionato di giubbotti di pelle e di Harley-Davidson. Sia nei gruppi di ricerca sia nel cast di un musical di Broadway, il successo richiede equilibrio tra convenzione e innovazione [7]. Degli studi simili ma condotti su gruppi di musicisti jazz sono quelli di Balázs Vedres che lavora tra le università di Budapest e Oxford. La presenza di ricercatori esperti e di nuovi arrivati, di amici di vecchia data e di lontani conoscenti che si erano persi di vista è una condizione essenziale per il successo di una squadra. In un gruppo che lavora insieme da tempo, l’inserimento di un elemento relativamente meno legato agli altri è essenziale per garantire l’apertura verso l’esterno [8]: il legame debole – se così possiamo chiamarlo – è il ponte verso altre realtà produttive o di ricerca [9].

Le reti regolano il mondo, oltre a determinare il nostro successo, la soddisfazione personale, privata e lavorativa. Vale per un gruppo di studenti, di amici, di colleghi. A determinare la riuscita di un insieme di relazioni sono le caratteristiche dei collegamenti che le tengono insieme, più o meno forti, stabili o collaudate. Contano i legami sia forti sia deboli perché sono quelli che consentono a una rete – quindi a qualsiasi gruppo coeso di persone – di gettare ponti verso altre realtà. Lo studio delle reti ha fatto passi da gigante negli ultimi anni grazie all’apporto di studiosi provenienti da ambiti molti diversi tra loro: la forza è nella multidisciplinarità. È un campo di ricerca molto interessante ed è pure divertente, anche perché ha bisogno di Miles Davis e di Pep Guardiola: “Il successo si scrive con la esse di squadra” [10].
Miles Davis e la tentazione della dissonanza
Le sessioni di jazz hanno più successo se i musicisti hanno il coraggio di accogliere nel gruppo un artista non omogeneo per tendenza e stile: la varietà promette familiarità e freschezza. Uno studio di Balázs Vedres [1], ampiamente ripreso da Albert-László Barabási nel libro La formula [2], spiega come sia importante conciliare i “legami forti” tra artisti e l’innesto di elementi capaci di guidare verso quella che viene chiamata la triade proibita, vale a dire una combinazione di intervalli armonici che non segua binari già noti. Passando da un quintetto a un sestetto, Miles Davis assoldò al piano Bill Evans che diede un apporto insostituibile a Davis nel rivoluzionare la musica jazz a partire da uno degli album più venduti di sempre. “Kind of Blue ebbe da subito un enorme successo, sia di pubblico che di critica. Oggi si ritiene sia il disco jazz più venduto di sempre, con oltre quattro milioni di copie, ed è in cima alla stragrande maggioranza delle classifiche dei migliori dischi jazz di sempre. Fu un disco che aprì un’epoca nuova nel genere, insieme all’altra grande innovazione di quegli anni, il free jazz. A differenza del jazz modale, il free jazz risolse i vincoli delle progressioni armoniche del bebop rifiutando (quasi) tutte le regole, invece che adottandone di nuove” [3]. L’imprevedibilità delle dissonanze era dovuta all’innesto di un elemento nuovo in un piccolo gruppo già perfettamente funzionante di artisti: ma solo una novità impetuosa avrebbe potuto portare a un risultato così straordinario. Una novità talmente travolgente da richiamare quelle dissonanze che nel Medioevo erano definite diabolus in musica. “Kind of blues è un esperimento affascinante di team building” [2], “l’interazione tra legami fidati e un volto sconosciuto” [1], ed è dovuto al coinvolgimento di un elemento eccentrico in un gruppo: un “legame debole” capace però di aprire un percorso mai prima di allora immaginato.
[2] Barabási A-L. La formula. Torino: Einaudi, 2019.
[3] Vizio S. Perché “Kind of Blue” è così importante. Il Post, 17 agosto 2019.
L’epidemiologia e lo studio delle reti
Gli studi e gli interventi epidemiologici si stanno interessando sempre di più ai social network a partire da due elementi fondamentali: la struttura delle reti e la loro funzione. Una migliore comprensione dei processi che determinano come si formano le reti e come funzionano riguardo la diffusione dei comportamenti e degli stili di vita può essere una chiave per disegnare e mettere in atto programmi che possano migliorare la sanità pubblica. La visualizzazione dei social network offre delle chiavi di lettura sia per la ricerca sia per gli interventi. Le immagini di una rete integrano le analisi statistiche e consentono l’identificazione di gruppi di persone per il targeting, l’identificazione degli individui che svolgono un ruolo centrale o periferico: tutto ciò, ovviamente, a partire dalla convinzione che le persone sono interconnesse e quindi lo è anche la loro salute. Riconoscere che le persone sono integrate in una rete sociale significa che la salute delle une influisce su quella delle altre: a partire dai dati di famosissimi studi di popolazione – basti pensare al Framingham heart study – sta rapidamente prendendo forma un nuovo modo di comprendere i determinanti epidemiologici della malattia e del benessere [1].

Lo storico Framingham heart study avviato nel 1948 viene disegnato sul modello Framingham’s TB study, il primo studio di coorte al mondo, condotto dal 1916 al 1923 per prevenire casi di tubercolosi e i decessi.
[1] Fowler JH, Christakis NA. Dynamic spread of happiness in a large social network: longitudinal analysis over 20 years in the Framingham heart study. BMJ 2008;337:a2338.
Le reti dei medici prescrittori
Decisori sanitari, clinici coinvolti nella preparazione di linee guida e funzionari del marketing farmaceutico sanno come sia importante conoscere le dinamiche che informano la prescrizione dei medicinali, come di qualsiasi altro intervento diagnostico o terapeutico. Dinamiche notoriamente influenzate anche dalle convinzioni e dai comportamenti di alcune persone che sono capaci di influenzare le decisioni di un numero maggiore o minore di propri colleghi. Intervenire per monitorare ed eventualmente mitigare il ruolo degli opinion leader all’interno di un network può essere un desiderio di un amministratore pubblico. Al contrario, favorire e successivamente aumentare il seguito di un clinico particolarmente influente può rappresentare l’obiettivo di un’industria. In entrambi i casi, spiegano Christakis e Fowler, un problema da non trascurare è quello di identificare non solo chi è influente, ma anche chi non lo è: talvolta, infatti, ad essere al centro della rete non è il più noto opinion leader ma un clinico che merita il rispetto da parte dei colleghi a prescindere dal riconoscimento accademico [1]. La tendenza ad adottare precocemente un nuovo intervento sanitario è più pronunciata tra coloro che sono noti per essere centrali nella rete rispetto a quanto lo sia tra i medici che si percepiscono influenti. “L’implicazione più immediata – scrivono i due autori – è che per conoscere le posizioni strutturali dei medici in una rete dobbiamo, ancora una volta, mappare l’intera rete e non basarci solo sui rapporti che intrattengono e su quanti contatti hanno”.
[1] Christakis NA, Fowler JH. Commentary — Contagion in prescribing behavior among networks of doctors. Marketing Science 2011;30:213-6.
Bibliografia
[1] Castells M. The rise of the network society. Oxford: Blackwell, 1996.
[2] Cacioppo JT, Fowler JH, Christakis NA. Alone in the crowd: the structure and spread of loneliness in a large social network. J Pers Soc Psychol 2009;97:977.
[3] Christakis NA, Fowler JH. Connected: the surprising power of our social networks and how they shape our lives. Boston: Little, Brown Spark, 2009.
[4] Fowler JH, Christakis NA. Dynamic spread of happiness in a large social network: longitudinal analysis over 20 years in the Framingham heart study. BMJ 2008;337:a2338.
[5] Granovetter MS. The strength of weak ties. Am J Sociology 1973;78:1360-80.
[6] Barabási A-L. La formula. Torino: Einaudi, 2019.
[7] Uzzi B, Dunlap S. How to build your network. Harvard Business Rev 2005;83:53.
[8] Koch R, Lockwood G. Superconnected: harnessing the power of networks and the strength of weak links. Boston: W. W. Norton Company, 2010.
[9] Vedres B. Forbidden triads and creative success in jazz: the Miles Davis factor. Appl Netw Sci 2017;2:31.
[10] Violan MA. Coaching Guardiola. Milano: Vallardi, 2014.