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Paura/Coraggio Interviste

Una vita spaziale oltre i confini

Gli antidoti contro la paura: razionalità, addestramento e concentrazione.

Intervista a Paolo Nespoli

Ex astronauta, ingegnere e militare italiano

By Luglio 2019Ottobre 30th, 2020Nessun commento

Tre missioni spaziali per un totale di 313 giorni, 2 ore e 36 minuti. Cos’è per lei la paura?
La paura è uno stato fisico e mentale, un sentimento invasivo che ti prende totalmente in momenti in cui non sai cosa stia succedendo ma hai il sentore che sia qualcosa di grave, dannoso, irrecuperabile. In queste situazioni vieni investito da una specie di ondata che ti blocca e non ti permette di fare niente. Per me questa è la paura. Se devo essere sincero, poche volte l’ho provata nella mia vita e non perché non mi sia capitato di mettermi in situazioni difficili o pericolose ma perché cerco di affrontare le cose razionalmente: nel momento in cui siamo addestrati e abbiamo una visione di quello che ci sta attorno non dovremmo provare paura. Paradossalmente, infatti, ci si lancia da un aereo con il paracadute o ci si lega a una mini bomba atomica che sta per scoppiare – come nel caso dei razzi controllati – e non si ha paura. Questa non è incoscienza ma piuttosto l’esito di un’analisi logica del rischio. Facciamo cose che sono potenzialmente pericolose, anche banali come farci la doccia, ma le facciamo ugualmente perché conosciamo il rischio. Quando per la prima volta sono salito sullo Shuttle e ho visto questa bestia incredibile, piena di carburante, la sentivo scricchiolare, la sentivo viva, la sentivo anche “pericolosa”, ma non avevo paura; ero molto concentrato su quello che dovevo fare perché la mia vita dipendeva proprio da quello. Scherzosamente, non mi importava che il razzo esplodesse distruggendoci quanto piuttosto che non fossi io la causa. Il bambino che non è mai andato in bicicletta avrà paura di andarci; ma una volta che inizierà a conoscerla e che avrà fatto esperienza, non avrà più paura di salirci: il rischio di farsi male andando in bicicletta varrà il fatto di volerci andare.

Facciamo cose potenzialmente pericolose, anche banali, ma le facciamo ugualmente perché conosciamo il rischio.

La professione dell’astronauta implica una preparazione e un addestramento per prevenire l’errore e saper gestire l’imprevisto. Nella vita di tutti i giorni non sempre si trova questa massima razionalità. Quali sono le sue paure nella quotidianità?
Spesso, quelle che noi definiamo paure sono solo ansie. Con l’esperienza ho capito che se si hanno le condizioni, le conoscenze, le capacità e le attrezzature rimane poco lasciato al caso e questo poco lo classifichi nel rischio, che è ciò che non puoi controllare né prevedere. Quando stavo sulla stazione e dovevo eseguire un’operazione complessa non provavo paura ma casomai ansia: è un momento in cui scatta quell’adrenalina aggiuntiva che ti permette di stare ancora più attento e di essere più reattivo. Adesso che non sono più un astronauta attivo dell’Agenzia spaziale europea, ho cambiato ambiente, mi guardo attorno e cerco di capire le regole per poi utilizzarle: lo considero un nuovo viaggio in cui scopro cose nuove – piacevoli o meno piacevoli – ma che non mi fanno paura, anzi, mi danno uno stimolo in più.

Collegato alla paura c’è il coraggio. Cosa è stato per lei il coraggio nella sua professione?
Il coraggio è una speranza: si decide di fare una cosa anche se è complessa e pericolosa perché, da un lato, pensi di avere le competenze e le capacità per farla; dall’altro, devi affrontare la situazione e questo ti porta un’adrenalina che ti consente di buttarti. L’essere umano sostanzialmente ha speranza nel futuro; se non l’avesse, non avrebbe motivo di fare molte cose che a volte sembrano impossibili. Spesso si fallisce, ma ogni tanto qualcuno ce la fa. E questo ci permette di spostare sempre più in avanti il limite di quello che si può fare. Anche grazie al coraggio andiamo contro le statistiche, senza fermarci davanti a quello che sembra ovvio e così ogni tanto succede di fare cose impossibili.

Una missione spaziale implica doversi isolare completamente dal proprio mondo e dalla propria quotidianità. La considera una prova di coraggio?
Quello dell’isolamento è una condizione che devi accettare sia tu che la tua famiglia, altrimenti ti troveresti in una situazione che non potresti assumere. Sei lontano, sei isolato in un posto confinato, e paradossalmente senti la responsabilità di aver lasciato la tua famiglia sulla Terra. Per esempio, durante una missione era arrivato un uragano su Houston che noi vedevamo da sopra dirigersi minaccioso sugli Stati Uniti: in quel momento noi eravamo lontani e al sicuro nello spazio mentre a vedersela peggio erano quelli sulla Terra. Sei cosciente che non puoi fare nulla ma devi relativizzare. Durante la mia seconda missione è morta mia madre; e lì veramente si sconvolge il mondo, in un certo senso. Pensi di aver fatto la scelta sbagliata a partire. Poi, razionalizzando, ti rendi conto che il problema non era che io fossi lì – perché questo cambiava poco – ma che lei stesse morendo. È il senso della vita che ti viene sconvolto, quando ti muore un genitore: non cambia se tu sei nello spazio o se sei lì presente. Tornando alla domanda, quindi, non la vedo come una prova di coraggio quella di partire per una missione spaziale. Ciascuna missione viene progettata e programmata in ogni sua parte considerando anche il fattore confinamento e isolamento che il sistema cerca di abbattere, per esempio inserendo un telefono a bordo per chiamare ogni giorno i propri familiari e per fare una videochiamata una volta alla settimana. E questo ha avuto sempre successo: nessuno di noi a bordo ha avuto la sensazione di sentirsi in prigione, anzi, a volte è successo che ci si sentisse “eccezionali” perché, durante la tua giornata, hai la possibilità di fare delle cose quasi “normali”. E questa eccezionalità tu la devi ripagare con il tuo lavoro, con la concentrazione, con il sacrificio sia mentale sia fisico che ti viene richiesto. Tutto sommato, sono contento di essere stato nello spazio: sono stati quelli i momenti in cui ho vissuto e imparato di più, e dove mi sembra di aver fatto il massimo utilizzando il mio tempo nel modo migliore e di aver fatto qualcosa di importante, per me stesso e anche per l’umanità.

Mi guardo attorno e cerco di capire le regole per poi utilizzarle.

Qual è stata la più grande lezione di vita che ha ricevuto dalle sue missioni spaziali?
Tante lezioni. La prima è che la realizzazione dei sogni non è impossibile, perché anche i sogni impossibili – se ci si dà da fare – possono diventare realtà. Ho imparato l’importanza del team: pochi di noi sono geni a cui tutto viene facilmente, se ognuno di noi capisce quali sono i propri punti di forza e soprattutto le proprie debolezze, con un team alle spalle può andare lontano. Ho imparato inoltre che spesso ci fossilizziamo su piccoli problemi, usiamo tempo e risorse per cercare di risolvere cose che – viste da lontano – sono davvero banali. Dallo spazio, per esempio, non vedi più i confini delle nazioni per i quali abbiamo fatto e continuiamo a fare molte guerre, quando di fatto siamo tutti marinai sulla stessa nave. Questo non significa che i piccoli problemi contino poco o niente, ma spesso questi problemi assorbono tutte le nostre energie, e non diamo invece priorità alle cose più importanti. Dallo spazio, tutto sommato, vediamo che la Terra è piccolissima rispetto all’Universo. Dobbiamo cercare tutti assieme di “mantenere” questo nostro pianeta per preservare le condizioni che ci permettono di vivere. C’è così tanto attorno a noi, di questo Universo conosciamo solo un granello di sabbia e dovremmo focalizzarci sull’esplorazione, ma tutti insieme, come esseri umani e non come singole nazioni.

Addestramento per lo spazio. Nel 2007, durante la seconda passeggiata nello spazio, hanno installato attrezzature utili per gli sbarchi futuri. Come addestramento, nel 2013, Paolo Nespoli ha trascorso con i compagni due settimane in profondità nella grotta di Sa Grutta. L’addestramento degli astronauti prevede anche di vivere e lavorare in una base subacquea e di partecipare al POGO (Partial gravitiy simulator). Nell’ultima foto, Paolo Nespoli pratica una riabilitazione cardiopolmonare a bordo della Stazione spaziale internazionale.