Il sociologo ungherese Frank Furedi è autore di diversi saggi sul tema della paura, tra cui Culture of fear: risk-taking and the morality of low expectation e How fear works: culture of fear in the 21st century, dove spiega come la società sia “diventata innocentemente estranea ai valori – come coraggio, giudizio, ragionamento, responsabilità – che sono necessari per la gestione della paura”.
Cosa si intende con il concetto di cultura della paura?
In molti pensano che significhi che oggi le persone sono più spaventate che in passato, ma non è così. Anche perché non esiste un modo per misurare se il livello di paura di una società sia aumentato o diminuito rispetto a un dato periodo di tempo. Quello che intendo, invece, è che rispetto a qualche anno fa parliamo molto di più della paura. Sembra che tutto nella vita si associ a una preoccupazione, che qualsiasi cosa rappresenti una minaccia. L’esperienza umana in sé è ormai vista come una fonte di minaccia, anche in aree che in passato venivano viste come normali. Nel mio ultimo libro (ndr, How fear works: culture of fear in the twentyfirst century) emergono due aspetti fondamentali: il primo è che la sicurezza è diventata il valore più importante della nostra società, il secondo è che c’è una tendenza a medicalizzare tutti i problemi dell’esistenza umana. Quelli che una volta sarebbero stati visti come problemi morali o esistenziali, oggi vengono riformulati in termini medici.
Quando ha pubblicato il suo libro Culture of fear, nel 1997, questo concetto era relativamente nuovo. Oggi, invece, la paura è al centro del dibattito politico e sociologico. Cos’è cambiato in questi vent’anni?
Penso che tutto abbia avuto inizio verso la fine degli anni novanta, da quando l’utilizzo della parola paura è stato profondamente politicizzato e la gente ha cominciato a pensare al futuro in modo sempre più distopico e negativo. Siamo diventati una società presentista: distaccata dal passato e spaventata dal futuro. Il risultato è quello che vediamo oggi, con la paura che è diventata, per la quasi totalità delle persone, la prospettiva culturale dominante. Si pensi alla politica: è interessante vedere come l’unica cosa che lega destra e sinistra sia il fatto che entrambe le parti utilizzano la carta della paura. Possono indirizzare l’attenzione verso minacce diverse ma entrambe sfruttano la paura per ottenere consensi. Quindi non c’è una reale differenza tra i due approcci, solo che la destra parla della paura dell’immigrazione e la sinistra della paura dell’estinzione umana. Quello che è cambiato, in generale, è il modo di relazionarsi con il futuro: si è passati dal promuovere un messaggio di speranza, di trasformazione, di riforma, a un approccio conservativo fondato sul “non farlo, non rischiare”.
Sembra che tutto nella vita si associ a una preoccupazione, che qualsiasi cosa rappresenti una minaccia.
Quali sono le conseguenze di questo approccio per quanto riguarda la scienza e l’innovazione?
Di fatto ha portato allo svuotamento della cultura sperimentale. In inglese, la parola “experiment” ha ormai assunto un’accezione più negativa che positiva. Se guardiamo ai film usciti negli ultimi anni, nella maggior parte dei casi gli scienziati non sono gli eroi, sono i cattivi. L’idea è che non ci si può fidare della scienza, che l’innovazione è sbilanciata verso il lato dei problemi. Tutte le volte che mi ritrovo a parlare di intelligenza artificiale, di terapie genetiche, di biotecnologie, la reazione di chi mi ascolta è sempre quella di mettere in evidenza i possibili effetti collaterali e i potenziali sviluppi negativi. Dicono che “non si deve giocare a fare Dio”. C’è un forte sospetto nei confronti della scienza. Questo si vede anche in ambito medico: anche l’isterismo antivaccinista, ad esempio, è parte di questo sospetto.
Su altri temi, invece, sembriamo fin troppo poco preoccupati. Ad esempio, per quanto riguarda i cambiamenti climatici…
Questo è molto interessante. Qualche anno fa ho condotto un progetto di ricerca che indagava le principali paure dei cittadini europei: quello che è emerso è che non erano spaventati dalle grandi questioni di cui si parlava sui giornali – come il terrorismo o il riscaldamento globale – ma da cose come l’insicurezza economica, la disoccupazione, le pensioni, i figli. L’unica cosa rilevante da un punto di vista mediatico era la paura della criminalità, per il resto si trattava di cose relativamente banali. Penso che, per quanto riguarda i cambiamenti climatici, il tema sia stato politicizzato a tal punto da far sviluppare nei suoi confronti un’attitudine ritualistica, per cui la gente non lo prende seriamente.
Pensa che l’efficacia della politica della paura possa giungere a un punto di saturazione?
Si dice spesso che i dittatori utilizzano la paura per tenere uniti i cittadini. Quello che abbiamo capito, invece, è che la paura non unisce i popoli ma, al contrario, li frammenta, li segmenta. Ad esempio, dopo l’11 settembre George W. Bush parlò molto di quanto i terroristi rappresentassero una minaccia per il popolo americano e per qualche settimana questo servì a mantenere uniti gli americani. Tuttavia, dopo solo un anno una minoranza significativa di persone metteva addirittura in discussione la versione dei fatti fornita dal governo. Questo è l’effetto a lungo termine. In fin dei conti se tutto quello che hai da offrire è una sorta di performance della paura, senza alcuna visione politica, ideologica o intellettuale, dopo un po’ questa si trasforma in routine. Al momento, tuttavia, la “cultura della paura” sta diventando sempre più forte e non credo che le cose cambieranno da qui a dieci anni. Stiamo arretrando sull’idea di essere umano come artefice del proprio destino, da un punto di vista sia politico che culturale. Questo è un grosso problema.
Dobbiamo riscoprire alcuni valori che sono stati messi ai margini, come il coraggio e la propensione al rischio.
Cosa si può fare per invertire questa tendenza?
Dal mio punto di vista è prima di tutto necessario cambiare il modo in cui educhiamo i nostri figli. Perché è lì che nasce il problema: insegniamo loro a restare infantili piuttosto che a diventare delle persone indipendenti. Di fatto, quello che facciamo è impedirgli di esplorare la loro libertà, di fallire. Invece dobbiamo riscoprire alcuni valori che sono stati messi ai margini, come il coraggio e la propensione al rischio. Sono elementi che dobbiamo tornare a prendere sul serio, per ritornare a un’idea di essere umano in grado di agire e di controllare il proprio destino. Chi controlla il futuro: noi o la sorte? Nel Rinascimento c’è stato un grande dibattito su questi temi. Dobbiamo trovare un modo per mettere in evidenza come, in fin dei conti, l’umanità ha sempre avuto un grande controllo sul proprio futuro. Piuttosto che affrontare passivamente quello che ci succede, dovremmo costruirci la nostra storia.
Non evitare i rischi, quindi, ma imparare ad affrontarli…
Esatto. Perché il rischio fa paura ma può essere molto utile. Ti rende consapevole dei tuoi punti di forza e di debolezza. Se non corri mai nessun rischio non puoi scoprire che persona sei. Diventi un individuo passivo, a cui le cose semplicemente accadono.