Il paradosso è questo: proprio mentre la paura ricopre un ruolo sempre più importante nella cultura delle società occidentali, queste vivono quello che è probabilmente il periodo più sicuro della loro storia. Si pensi ai dati Istat relativi alla criminalità in Italia: se da un lato il numero di omicidi, furti e rapine è da anni in costante calo, dall’altro un italiano su quattro dichiara di non sentirsi sicuro quando cammina da solo per strada. Un dato, questo, che si mantiene relativamente stabile nel tempo.
Perché la percezione della paura non dipende solo dal rischio effettivo ma anche da come questo viene vissuto e dal senso di controllo che sentiamo di avere su di esso. Nel suo ultimo libro The Monarchy of fear (Oxford University Press, 2018), la filosofa Martha Nussbaum – docente di etica ed economia della University of Chicago law school ed esperta di filosofi a delle emozioni – definisce così la paura: “Un dolore esperito all’apparente presenza di un pericolo imminente, combinato con la sensazione di non essere in grado di scongiurarlo”. È così fin dai primissimi giorni di vita, spiega Nussbaum. Rifacendosi al lavoro dello psicanalista e pediatra Donald Woods Winnicot, infatti, la filosofa individua l’origine della paura nell’esperienza della cosiddetta impotenza infantile: la condizione derivante dallo squilibrio tra il rapido sviluppo cognitivo dei neonati e la loro incapacità fisica di agire sull’ambiente circostante.
Combinazione che li rende “completamente e semplicemente indifesi”. Facendo un parallelo politico e storico, Nussbaum spiega come questa posizione sia in qualche modo paragonabile a quella dei monarchi assoluti, i quali “non avendo alcuna possibilità di sopravvivenza, schiavizzavano gli altri”. Secondo la filosofa il senso di impotenza spinge gli uomini al narcisismo e al vittimismo e li trasforma in bambini spaventati che obbligano gli altri a eseguire i loro comandi. Spesso, inoltre, utilizzando proprio la retorica del terrore per suscitare paure irrazionali nei confronti dei propri nemici.
I governanti e i politici, tuttavia, non sono gli unici a trarre dei vantaggi dalla cosiddetta “cultura della paura”. La pensa così Barry Glassner – docente di sociologia della University of Southern California e autore di diversi saggi sul tema: “Attraverso la politica della paura, i politici vendono sé stessi agli elettori, le tv e i giornali vendono i loro contenuti a telespettatori e lettori, le associazioni vendono iscrizioni, i ciarlatani vendono trattamenti, gli avvocati vendono class-actions, le multinazionali vendono prodotti”. Tutte attività che secondo lo studioso americano contribuiscono a loro volta alla costruzione di altre e nuove paure. In un parallelo del principio psicobiologico di James William (“non scappiamo perché abbiamo paura, ma abbiamo paura perché scappiamo”), Glassner sostiene infatti che “la paura si costruisca attraverso gli sforzi attuati per proteggerci da essa”. Come nei soggetti fobici, in cui la reazione paurosa è sproporzionata rispetto ai potenziali pericoli, l’ipervigilanza nei confronti dei rischi è il nucleo centrale del problema: ciò che ostacola la guarigione.
Come interrompere, quindi, questo circolo vizioso? Riscoprendo quei valori, come il coraggio, la propensione al rischio, la speranza, che sono stati progressivamente estromessi dal dibattito socioculturale e politico. Riscoprendoli attraverso azioni concrete, però: insegnandoli ai nostri figli, dice Frank Furedi; investendo nel dialogo, nella cooperazione, nell’arte, sostiene Nussbaum. Per ritornare ad agire sul mondo nell’ottica di una prospettiva positiva e a credere nella nostra capacità di migliorare la nostra condizione. Per riscoprirci, insomma, artefici del nostro destino.