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Paura/Coraggio Articoli

Il coraggio di affrontare le difficoltà

L’esperienza di Medici senza frontiere in Congo tra ebola, violenza e sfiducia.

By Luglio 2019Ottobre 30th, 2020Nessun commento

In sette mesi dallo scoppio dell’epidemia di ebola nelle province del Nord Kivu e dell’Ituri, in Repubblica Democratica del Congo, sono stati registrati 879 casi confermati e 553 persone sono morte. Medici senza frontiere (Msf), che era presente sul campo, ha dovuto interrompere le attività mediche in seguito a due attacchi ai centri nella città di Butembo e nel distretto di Katwa per la sicurezza del suo staff. Msf continuerà però a gestire le attività legate all’epidemia di ebola a Kayna e Lubéru, due città del Nord Kivu e i due centri di isolamento per l’ebola nelle città di Bwanasura e Bunia, nella provincia di Ituri.

Chiara Montaldo, medico

Sono stata la coordinatrice medica di Msf per la risposta a ebola in Nord Kivu e Beni, dove ci sono state le prime due ondate di epidemia. Non sono posti facili, si vive continuamente una situazione di tensione per attacchi armati e azioni di guerriglia, che rendono anche complicata la risposta a ebola, ponendo limitazioni al nostro intervento. Con l’evolvere dell’epidemia alcune tensioni sono sfociate in attacchi alla cura e quando ci siamo resi conto che l’aggressività e la sfiducia erano dirette proprio verso di noi, è subentrato un sentimento di paura, unito a una profonda amarezza per non essere riusciti a coinvolgere sufficientemente la popolazione. È stato molto difficile da accettare perché per noi è fondamentale, nella cura, riuscire a convincere le persone e non imporre un intervento sanitario che non viene capito. La decisione di sospendere l’attività è stata sofferta, c’è voluto coraggio, e non è stata dettata dalla paura, ma dal fatto che avrebbero voluto darci una protezione armata. E noi siamo sempre stati contrari a questo, da un punto di vista etico e di efficacia, perché avere dei team o dei centri sanitari protetti da gruppi armati è controproducente: allontana le persone dai centri, crea una scarsa comprensione della malattia. Le persone ci chiedono di che malattia si tratta dal momento che necessita di forze armate per essere gestita.

La decisione di sospendere l’attività è stata sofferta, ma non dettata dalla paura. — Chiara

Dall’altro lato, questa situazione ha tirato fuori anche molto coraggio. Per primi mi vengono in mente i pazienti guariti, ai quali poi abbiamo proposto di lavorare con noi nel dare supporto materiale e psicologico ai pazienti anche perché sono immuni nell’ambito della stessa epidemia. Sono persone appena uscite da una malattia per cui si muore e che hanno subito tanto da un punto di vista fisico e psicologico. È il più grande esempio di coraggio che ho avuto in questi mesi. Molto coraggioso è anche lo staff nazionale, in questo caso composto da congolesi. Molti di loro, infatti, proprio a causa del loro lavoro all’interno della risposta a ebola, sono stati preda di ostilità e aggressioni. Durante il secondo attacco al nostro centro di Butembo, a un certo punto sono entrate alcune persone armate. Tutti avevamo paura, ma soprattutto noi bianchi perché giravano voci che la violenza fosse diretta a noi. Allora lo staff congolese ha circondato tutto il personale bianco, come a proteggerlo. La prima volta che sono partita per andare in una zona colpita da ebola è stato nel 2014, in Guinea. Come per tutte le prima esperienze, questa volta ho avuto un po’ di paura in più. Ho preso parte a quattro missioni per una febbre emorragica e la mia paura è stata ogni volta minore perché imparavo a conoscere la malattia, come proteggermi, quali erano gli effettivi rischi. Poi ogni volta la situazione è diversa: in Nord Kivu, oltre a ebola, c’era il fattore della violenza che aggiungeva un elemento di tensione in più. Un po’ di paura è giusto che ci sia sempre, l’importante è tirarsi indietro quando la situazione diventa intollerabile perché in una condizione di paura non razionalizzata si diventa davvero un pericolo per sé stessi e per gli altri. Ci deve essere un giusto livello di paura che non deve essere eccessivo ma tale da tenere sempre le antenne alzate ed essere in grado di rispondere ai pericoli in modo efficace.

Benedetta Capelli, ostetrica

La paura è uno dei sentimenti che più mi ha accompagnata prima di partire. Si arriva nel campo con il timore non soltanto di toccare, ma anche di respirare. La cosa che mi ha stupito, però, è che una volta arrivati la paura la razionalizzi perché ti rendi conto che con delle procedure mediche possiamo cercare di fare il nostro lavoro e provare a combattere l’epidemia. Ovviamente non passa del tutto perché, quando entri nella zona ad alto rischio dei centri di trattamento ebola, ti chiedi sempre se c’è un piccolo buco nella protezione che ha fatto sì che qualcosa entrasse in contatto con te. Io sono ostetrica e nei centri di ebola purtroppo si può fare pochissimo per le donne incinte, sia per i casi sospetti sia per quelli confermati. La maggior parte delle donne infette da ebola abortisce e anche il contatto è molto limitato. Mi è capitato di seguire una donna con sintomi sospetti e gravidanza in corso. Quando è arrivata da noi aveva già avuto due parti cesarei, aveva contrazioni e sanguinamento. Dopo poco questa donna ha partorito naturalmente un feto già morto, ma ci è servito per chiederci cosa potremmo fare in questi casi. Ci sono tante sfide, tanti punti di domanda a cui purtroppo in tutti i campi non si trova risposta. Per giorni ho avuto veramente un sentimento di rabbia e di impotenza, ma poi mi sono risposta che bisogna pensare alla sicurezza degli operatori sanitari, che è il punto cardine della logica di intervento in ambito umanitario. Tutte le manovre e procedure eseguite per ebola sono pensate non per ridurre le cure ma per minimizzare al massimo il rischio di contaminazione. Mi sono ricordata di altre missioni, in mezzo a conflitti con gruppi armati, e a un certo punto, volente o nolente, sei obbligato a lasciare. Questo è il prezzo che paghiamo, purtroppo. Allora cerco sempre di dirmi: “Benedetta, ricordati che non puoi lavorare se non sei in sicurezza”.

La paura è uno dei sentimenti che più mi ha accompagnata prima di partire. — Benedetta

Mariana Cortesi, infermiera

Prima di partire per il Congo avevo già fatto altre missioni, ma ebola l’avevo solo studiata nel mio corso di perfezionamento di medicina tropicale. Ero terrorizzata. Poi ho fatto una settimana di preparazione a Ginevra e le ansie sono iniziate a diminuire, ma il primo giorno, quando sono entrata e ho messo la tuta, la paura la sentivo perché basta un movimento sbagliato, o che il guanto si sposti durante la svestizione, e rischi la contaminazione. Il centro di trattamento ebola aveva 96 posti letto. I ritmi erano molto intensi, il tasso di mortalità elevato, a volte del 68 per cento a settimana. Mi ricordo un bambino arrivato nel nostro centro in condizioni molto critiche. La prima cosa che ho visto è stata la sua paura di morire e in quel caso mi sono sentita veramente impotente. Vedi questi occhi che ti guardano, che sanno che è una malattia terribile. Lasciano i familiari al di fuori del centro e si affidano completamente a delle persone con delle tutone gialle di protezione, con cui il contatto non è un contatto normale. Provano paura, isolamento, senso di vuoto e di impotenza. Alcuni di loro vedono morire prima il padre o la madre e arrivano nel centro pensando di fare la stessa fi ne. E questa paura, io sì, l’ho vista nei loro occhi, e allo stesso tempo ho provato la stessa paura loro ma per loro, perché fai di tutto ma a volte perdi sei pazienti in un giorno.

È stata molto coraggiosa perché ha visto morire metà dei pazienti che erano lì nel centro, ma faceva un sorriso e cercava di rimanere forte. — Mariana

Ma ricordo anche storie di coraggio. Ricordo Augustine, una bimba di quattro anni sopravvissuta a ebola. Ha visto suo papà e suo fratello morire, nel centro dov’era lei, ed è rimasta con noi qualche settimana. Mi ha stupito il suo sguardo incuriosito, perché ci guardava con indosso le tute di protezione e cercava di analizzare i nostri movimenti. È stata molto coraggiosa perché durante le settimane di degenza ha visto morire metà dei pazienti che erano lì nel centro, ma faceva un sorriso e cercava di rimanere forte. E quando è uscita dal centro, i suoi occhi sono stati la nostra forza perché ci ha sorriso e ci ha ringraziato. Abbiamo fatto una danza, la sua uscita era un inno alla vita. Poi c’è stato il papà di tre persone che lavoravano nel nostro centro: un igienista, un promotore della salute e uno psicologo. Ed è stato coraggioso perché si è mantenuto forte durante tutta la degenza nonostante avesse paura, oltre che della malattia, che i figli potessero avere ripercussioni lavorative. Con lui abbiamo mantenuto il rapporto umano, l’igienista ha potuto vedere il padre e aggiornare i figli all’esterno. Quando è guarito è venuta una parte della famiglia ad aspettarlo fuori dal centro e a fargli una festa. Adesso che hanno attaccato i centri e abbiamo dovuto interrompere le attività, nonostante non fossi lì, è stato difficile accettarlo pensando di lasciare persone come loro. Quindi tra due settimane torno in Repubblica Democratica del Congo, per l’ebola, perché non posso accettare di stare con le mani in mano.