Come è cambiato il significato di “sviluppo sostenibile” dal rapporto Brundtland del 1987 e dal summit di Rio del 1992 ad oggi?
Per sostenibilità intendiamo quello sviluppo che permette alla generazione attuale di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di fare altrettanto. Con l’approvazione nel settembre 2015 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, frutto di una negoziazione lunga oltre due anni, la sostenibilità non viene più intesa come un problema solo ambientale ma anche economico, sociale e istituzionale, ossia i quattro pilastri dello sviluppo sostenibile. Basta infatti che venga meno uno di essi per compromettere la sostenibilità dello sviluppo, come abbiamo già sperimentato nella storia, anche recente, del nostro pianeta Terra. Pensiamo alle Primavere arabe in cui una crisi ambientale si trasformò in una crisi economica, poi sociale e infine istituzionale con tutti i problemi che conseguirono. Quindi la sostenibilità oggi è un concetto complesso che integra economia, società, ambiente e qualità delle istituzioni. Che è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno.
A che punto è l’Europa rispetto agli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030?
Secondo il Rapporto dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (Asvis), l’Europa è il luogo più sostenibile del mondo rispetto ai 17 obiettivi e ai 169 target fissati dall’Agenda 2030. Ma ciò non significa che sia su un sentiero di sviluppo sostenibile perché gli obiettivi prefissati sono ambiziosi, come per esempio l’impegno di ridurre del 35 per cento le emissioni di gas serra, la scelta di decarbonizzazione dei sistemi produttivi e, non da ultimo, il superamento delle disuguaglianze e della povertà quando sono 113 milioni gli europei a rischio di povertà ed esclusione sociale. Quello di cui abbiamo più bisogno in Europa e nei singoli paesi è un nuovo modello di sviluppo in grado di assicurare quei servizi fondamentali per soddisfare – all’interno dei limiti fisici planetari – i bisogni delle persone, creando posti di lavoro, eliminando la povertà e la disoccupazione. È una sfida difficile perché non disponiamo di tutte le tecnologie necessarie. Ma noi proponiamo un cambiamento profondo nella governance affinché tutte le politiche vengano disegnate per avanzare in questa direzione, al fine di prevenire errori e, con essi, i costi futuri per correggerli.
Serve un nuovo modello di sviluppo in grado di assicurare quei servizi fondamentali per soddisfare – all’interno dei limiti fisici planetari – i bisogni delle persone.
E l’Italia a che punto è? Dove andiamo bene e dove c’è ancora tanto da lavorare? Quali sono le priorità per guadagnare più terreno possibile?
I dati dell’Asvis, elaborati a partire da oltre 160 indicatori prodotti dall’Istat, indicano che abbiamo fatto alcuni passi avanti ma siamo ancora lontani dal raggiungere diversi obiettivi. Per esempio, abbiamo certamente fatto progressi sull’educazione, sulla salute, sulla alimentazione così come nella lotta delle disuguaglianze di genere. Invece, a causa della grave crisi economica, siamo indietro in ambito economico e sociale: aumento della povertà e delle disuguaglianze, a cui si aggiunge il problema dell’occupazione che, pur essendo tornata ai livelli anticrisi, è ancora molto frammentata rispetto a dieci anni fa. Anche sui temi ambientali dobbiamo lavorare ancora molto: a fronte di un aumento dell’efficienza energetica – l’Italia è tra i primi paesi europei ad aver già raggiunto l’obiettivo della strategia europea 2020 –, abbiamo un peggioramento della qualità delle acque, soprattutto degli ecosistemi terrestri, a causa del consumo eccessivo del suolo e della perdita della biodiversità. Dunque, quello italiano è un quadro molto eterogeneo che richiederebbe politiche molto più decise su alcuni fronti e, soprattutto, politiche che creino delle sinergie economiche, sociali, ambientali, tutte orientate verso lo sviluppo sostenibile.
Quello italiano è un quadro molto eterogeneo che richiederebbe politiche molto più decise su alcuni fronti.
Quali sono a suo avviso, se ci sono, gli ostacoli che rallentano il lavoro verso lo sviluppo sostenibile in Italia?
Quando l’Italia presentò la sua strategia nazionale di sviluppo sostenibile al High-level political forum 2017, un rappresentante della Thailandia si rivolse al ministro dell’ambiente dell’epoca, Gian Luca Galletti, dicendo: “Ma voi non siete proprio noti per la vostra capacità di fare piani a lungo termine e poi di mantenerli. Come possiamo credere al fatto che il governo possa fare dei piani al 2030?”. Il ministro Galletti si rivolse a me ed io risposi che “La politica passa, i partiti passano, i governi passano, la società civile resta”. Questo rispecchia l’esperienza dell’ Asvis che oggi riunisce più di 220 soggetti della società civile italiana. Sia in campo economico che sociale avvengono processi di profondo cambiamento che possono diventare una grande opportunità per una transizione ecologica verso lo sviluppo sostenibile, ma ci sono anche molti ostacoli di natura non solo economica. Il compito della politica è di dare una direzione definendo un piano di interventi che incoraggino le imprese e i cittadini al cambiamento verso la sostenibilità. Si cita sempre l’opposizione alla carbon tax dei gilet gialli in Francia. Ricordiamoci però che il governo francese come prima cosa aveva attuato delle politiche per la liberalizzazione del mercato del lavoro, poi ha imposto la carbon tax e solo dopo ha annunciato provvedimenti per le persone più povere: con questa sequenza è difficile per i cittadini farsi un’idea di quali siano gli obiettivi. Servono misure volte sì a trasformare ma anche a prevenire, preparare, proteggere e promuovere: 4 P + T sono le cinque parole della politica per lo sviluppo sostenibile. Per esempio, in Italia molte imprese si stanno muovendo verso l’economia circolare, scoprendo che è possibile tagliare i costi e guadagnare competitività, riducendo l’impatto sull’ambiente; altre invece, restie al cambiamento, sono convinte che il vecchio modello possa ancora funzionare. A queste si aggiungono diverse aziende che riescono a sbarcare il lunario semplicemente evadendo le tasse in un paese dove – non scordiamoci – la differenza tra imposte e contributi teorici e quelli effettivamente versati ammonta a 110 miliardi di euro. Ragione per cui l’innovazione, in particolare la transizione all’economia circolare, dovrebbe essere una priorità. Quindi a ostacolare il cambiamento intervengono delle resistenze culturali, economiche e anche politiche. È da tre anni che chiediamo alla presidenza del Consiglio dei ministri di assumere una posizione forte di coordinamento delle politiche per l’Agenda 2030 che ancora oggi manca. Il concetto di transizione ecologica è un concetto difficile: ci saranno dei vincitori e dei vinti, serve quindi capire come sostenere chi perde per evitare il rigetto al cambiamento.
Serve un cambiamento profondo nella governance affinché tutte le politiche vengano disegnate per avanzare verso lo sviluppo sostenibile.
Dovendo fare quadrare i conti possiamo dire di avere sufficienti risorse per investire nel futuro?
La transizione ecologica verso lo sviluppo sostenibile richiede un grosso investimento, non solo di fondi pubblici ma anche di fondi privati. Per questo è importante che la politica dia il senso di dove vogliamo arrivare nel 2030, in modo tale che anche gli investimenti vadano nella medesima direzione. Se non riusciamo, per esempio, a sciogliere la riserva circa la mobilità futura, se cioè sarà elettrica o a gas, è implicito che i privati non metteranno né le centraline di ricarica nelle città né incrementeranno il numero di distributori di cassa. Quindi la politica deve dare un quadro di transizione chiaro. Naturalmente deve anche usare i propri fondi in modo corretto. Con l’ultimo rapporto dell’Asvis abbiamo esaminato gli oltre mille commi della legge di bilancio per il 2019 alla luce dell’Agenda 2030 e dei suoi 169 target, dimostrando due cose: primo che l’Agenda è estremamente concreta, cioè può essere veramente un modo per guardare ai tanti provvedimenti in un modo integrato; secondo che sarebbe importante fare questo esercizio prima di approvare la legge e non dopo la sua approvazione. Questa idea sistemica che tutti i pezzi delle politiche debbano necessariamente integrarsi tra di loro in un puzzle complesso non fa ancora parte della cultura dell’Italia a differenza di altri paesi. Quindi serve accelerare questa impostazione per evitare di sprecare risorse in investimenti che tra qualche anno dovranno essere necessariamente smantellati.

Quanto è importante educare i cittadini alla sostenibilità? E come è possibile farlo?
Sono tre gli ingredienti per un nuovo modello di sviluppo: tecnologia, governance, cambiamento di mentalità. La parte più difficile è proprio quest’ultima perché si scontra con la cultura di ciascuna persona e anche con i propri interessi personali. Quello che manca ancora, benché tanto sia stato fatto in ambito di educazione soprattutto delle nuove generazioni, è l’attenzione da parte degli adulti e degli anziani. Tutte le indagini demoscopiche ci mostrano, non solo in Italia, una società spaccata in due, in cui le persone più adulte, magari formate con un vecchio modello di sviluppo, hanno maggiore resistenza a cambiare mentalità rispetto ai giovani. E questo ci aiuta a capire quanto dobbiamo accelerare su questo fronte per promuovere un cambiamento culturale dei comportamenti individuali e collettivi. Proprio in quest’ottica è nato tre anni fa il Festival dello sviluppo sostenibile che si tiene in tutta Italia dal 21 maggio al 6 giugno, per sensibilizzare fasce sempre più ampie della popolazione sui temi della sostenibilità economica, sociale e ambientale e per richiamare l’attenzione sui diversi aspetti dello sviluppo sostenibile. Le scelte da fare per un mondo sostenibile non sono soltanto quella di chiudere l’acqua mentre ci si lava i denti (cosa che ormai credo facciamo tutti), ma anche votare per quelle scelte e per quelle forze politiche che più ci convincono in termini di risposta verso lo sviluppo sostenibile. Le ricette sono diverse e i cittadini spesso non essendo consapevoli dell’importanza di tutto questo non attribuiscono neanche alla propria partecipazione democratica il ruolo che invece potrebbe avere.
Si enfatizza la dimensione ambientale dello sviluppo sostenibile ma quelle economica, sociale e istituzionale sono altrettanto importanti.
Il Global Climate Strike For Future ha messo in evidenza la dimensione di futuro insita nel concetto di sostenibilità, cioè il fatto che una generazione vive e prospera sul pianeta in maniera tale da garantire alle generazioni successive delle medesime risorse naturali. Paradossalmente sono le nuove generazioni che ci rinfacciano ciò che non abbiamo fatto con azioni concrete. Cosa si può e si deve rispondere loro?
Obiettivamente la manifestazione degli studenti è stata emozionante. Il fatto che in Italia ci sia stata una fortissima partecipazione, anche maggiore di quella di altri paesi, può essere letto in due diversi modi, come emerso nei numerosi commenti alla grande mobilitazione del Fridays For Future: abbiamo degli studenti lazzaroni che pur di saltare un giorno di scuola sono pronti a far di tutto, oppure abbiamo dei giovani con una grande sensibilità ai cambiamenti climatici perché l’Italia è uno dei paesi europei più esposti. In Europa mezzo milione di persone muoiono ogni anno per malattie legate all’inquinamento, sessantamila solo in Italia. In Europa il cambiamento climatico sta già producendo i suoi effetti e ancora di più colpirà il nostro paese rispetto ad altri e con rischi enormi. Che cosa ci dicono quindi gli studenti scesi in piazza? Ci dicono che la posta in gioco non riguarda solo le generazioni future ma ancora di più quelle attuali: è questa la reale urgenza dopo tanti anni in cui si è affermato che lo sviluppo sostenibile altro non era che un modo per anteporre gli interessi delle future generazioni a quelle attuali. È l’ultima generazione a rischiare lo schianto ambientale, ma anche politico e sociale, come del resto già stiamo osservando. Per esempio la stima di 250 milioni di migranti per cause ambientali nei futuri 10-15 anni fa capire che il problema non è soltanto quello di salvare l’ambiente e quindi il pianeta. Il pianeta sopravviverà, magari un po’ ammaccato, al comportamento dell’uomo. Il rischio è che le nostre società non siano in grado di gestire questo tipo di tensioni. Si enfatizza molto la dimensione ambientale dello sviluppo sostenibile (senza la quale non avremmo una discussione sulla sostenibilità), ma le dimensioni economica, sociale e istituzionale sono altrettanto importanti: quattro dimensioni legate le une alle altre. Ai giovani del Global Climate Strike For Future è stato chiesto: “Ma voi che cosa proponete?”. Chiedere ai giovani di trovare soluzioni che gli adulti conoscono e che non hanno coraggio di mettere in pratica mi sembra davvero troppo.
Chiedere ai giovani di trovare soluzioni che gli adulti conoscono e che non hanno coraggio di mettere in pratica è davvero troppo.
Cosa vuol dire, come scrive nel suo libro Utopia sostenibile, che per costruire un futuro migliore ci serve un’utopia?
L’utopia non è semplicemente un sogno. Come scrive Wikipedia è uno strumento per disegnare il futuro che vogliamo raggiungere, per cambiare l’attuale situazione. Qui ci sono tre possibili approcci. Il primo è quello di pensare che il modello attuale possa risolvere i nostri problemi, ma come qualcuno ha affermato commentando il mio libro, questa è vera utopia ed è anche stupida. Il secondo approccio possibile è avere una visione distopica, preoccupata del futuro, che ci spinge a rifugiarsi nel passato che già si conosce, quello che Zygmunt Bauman ha chiamato la “retrotopia”: davanti all’incertezza e in mancanza di lungimiranza si crede che la soluzione migliore sia quella di tirare su muri e di lasciare la gente in mare, oppure che qualche mese in più di funzionamento delle miniere di carbone possano risolvere i problemi politici, sociali ed economici di un paese. Anche questa è una scelta sciocca. La terza e ultima possibilità è, come scrivo nel libro, decidere di impegnarsi ancora di più per disegnare e realizzare una nuova utopia, in cui equità e sostenibilità sociale, economica, ambientale e istituzionale diventino gli assi portanti per costruire un nuovo paradigma dello sviluppo umano, pienamente degno di questo nome e rispettoso dei limiti planetari. Un’utopia sostenibile, giustappunto. Credo che l’Agenda 2030 sia il punto più alto nella storia dell’umanità sul disegno del mondo che vogliamo realizzare. Non è facile e non è detto che ci arriveremo. Tutte le analisi indicano che su alcuni fronti siamo ormai troppo in ritardo: pagheremo questi ritardi accumulati negli ultimi 20-30 anni e ogni giorno di rinvio sarà un costo aggiuntivo. Oltre ai giovani, diversi capitani d’impresa e politici credono che l’utopia sostenibile non sia impossibile ma l’unica idea grazie alla quale assicurare non solo il futuro delle prossime generazioni ma anche quello di quella attuale. E io sono tra queste persone.