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Sostenibilità Articoli

Storie di sostenibilità italiane

Cinque storie di startup italiane commentate da quattro direttori generali della sanità.

Rebecca De Fiore
By Maggio 2019Gennaio 20th, 2022Nessun commento

Cinque storie italiane che mostrano come la sostenibilità non sia una rinuncia o un dovere, ma un’occasione di sviluppo e di vantaggio per chi la pratica e per l’intero pianeta. Storie diverse, anche piccole, di start-up cresciute in poco tempo, ma quasi sempre di giovani. Storie che sono state arricchite con il punto di vista di alcuni osservatori d’eccezione, tramite i commenti e le sensazioni che gli hanno suscitato leggendole. Da Tiziana Frittelli, direttore generale del Policlinico di Tor Vergata, che le ha usate come spunto per ribadire le responsabilità del Servizio sanitario nazionale in termini di sostenibilità, ad Angelo Tanese, direttore generale dell’Asl Roma 1, che vi ha trovato uno spunto per aprirsi a nuove visioni. Ancora, Flori Degrassi, direttore generale dell’Asl Roma 2, a cui hanno dato speranza per il futuro, e Monica Calamai, ex direttore generale della Sanità toscana, che si è ritrovata in queste storie per profonda sintonia.


Catalyst | Massa-Carrara, Toscana


Quello delle Alpi Apuane non è solamente un territorio ricco dal punto di vista paesaggistico e ambientale. Qui, infatti, è presente la più grande riserva idrica della Toscana e il più grande e importante sito estrattivo di marmo al mondo. Ma questa ricchezza, se gestita male, può diventare una condanna. Perché in questo territorio, nei mesi più piovosi, si assiste a un fenomeno impressionante: le acque dei fiumi che scendono dalle Apuane cambiano colore, non più trasparenti, ma bianche. Bianche come il marmo. E proprio vedendo la quantità di carbonato di calcio nel terreno, Franco, capostazione in pensione e appassionato ideatore di soluzioni, ha avuto un’illuminazione: se bisognava trovare un modo per riciclare tutta quella polvere di marmo, perché non farne mattoni? È così che, insieme alla collaborazione di Mauro Carpinella, che ha deciso di investire in quest’idea, oggi è nato il Carrara-Block, un mattone sostenibile brevettato da Catalyst, una start-up che intende innovare il mondo dell’edilizia. Analizzando le caratteristiche dei prodotti di punta di Catalyst, infatti, è evidente come sia il principio di sostenibilità a originare le idee innovative della start-up. Il Carrara-Block, utilizzando la polvere di marmo, riesce a recuperare gli scarti del distretto lapideo di Carrara, che da anni inquinano gravemente il territorio, trasformandoli da materiale di risulta a mattoni di pregio. Il problema principale è lo smaltimento dei rifiuti, in particolar modo della marmettola, la polvere bianca. Per capire veramente quanto sia il materiale di scarto della lavorazione del marmo, aiuta visitare il centro di riutilizzo materiali di Carrara, dove vengono portati gli scarti delle cave e dei laboratori di lavorazione. Vi sono ammassati migliaia di blocchi bianchi irregolari, grossi pezzi di pietra che una volta scartati trovano un nuovo utilizzo nell’edilizia, più avanti cumuli di brecciolino utilizzati nei parchi. In fondo ci sono mucchi di polvere bianca. “È senza dubbio il materiale di risulta più inquinante perché non trova nuovi impieghi nell’edilizia e finisce in discarica. Per questo trovo davvero rivoluzionaria l’idea di Catalyst: consente di riutilizzare l’unico scarto del marmo che non si riesce a riciclare. Con il loro mattone di marmo e dopo duemila anni di storia di questo materiale, si può chiudere l’ultima parte del cerchio”, commenta il titolare del centro. In fin dei conti raggiungere questo obiettivo era un sogno già dagli inizi: Gaio Svetonio, storico e biografo dell’età imperiale, ne Le vite dei Cesari, ricorda una frase che amava ripetere Augusto: “Ho trovato una città di mattoni, ve la restituisco di marmo”.


Tiziana Frittelli

Direttore generale del Policlinico di Tor Vergata

Un tempo valori come quelli della sostenibilità erano valori consolidati. Oggi, invece, dando un’occhiata al pubblico, non solo in ambito sanitario, mi fido molto poco della tenuta generale del sistema. Il Servizio sanitario nazionale però ha avuto un’ottima tenuta, anche perché c’è una forte pressione sociale su tutti gli operatori che vi lavorano. A noi, infatti, si rivolge una collettività fragile di cui bisogna stare attenti a farne gli interessi. Tutto si gioca sulla sostenibilità di questo sistema, perché se si dovesse sfaldare perderemmo non solo un grande patrimonio di questo Paese che ormai molti ci invidiano, ma anche un senso etico della dedizione e del pubblico. Il meccanismo di sostenibilità, attraverso uno sforzo continuo che deve tendere a piegare l’organizzazione alle esigenze dei pazienti e degli operatori per trarre il meglio ed eliminare gli sprechi, è un leitmotiv che ognuno di noi deve avere. Tutti, anche il più piccolo operatore, perché è dal basso e dai giovani, come ci insegnano queste storie, che può rinascere il rispetto.


Riserva naturale di Torre Guaceto | Brindisi e Carovigno, Puglia


Quando si pensa a una riserva naturale si immagina un luogo bellissimo e incontaminato, che per restare tale impone delle rigide restrizioni all’attività umana. Poi si arriva nella Riserva naturale di Torre Guaceto e si capisce che non è così. In questo angolo di paradiso, 1100 ettari di riserva terrestre e 2200 di riserva marina tra i comuni di Brindisi e Carovigno, il rispetto per la natura e le attività umane hanno trovato un perfetto punto di equilibrio. Ovviamente all’inizio ci sono stati dei problemi: quando venne istituita la Riserva, pescatori e agricoltori si opposero a provvedimenti che in un primo momento reputarono restrittivi e dannosi economicamente. C’è voluto poco perché cambiassero idea, rendendosi conto di quanto la sostenibilità convenga a tutti. Tra tutte le storie che la Riserva racconta, quella di dei pescatori è forse la più affascinante. Nel 2002, infatti, il consorzio di gestione di Torre Guaceto impose lo stop alla pesca nel tratto di mare di sua competenza, con l’obiettivo di riaprire alle attività dei pescatori dopo cinque anni, per ripopolare la fauna marina. All’inizio i pescatori di Carovigno non hanno preso bene la notizia: “Il progetto ci venne spiegato bene, ma noi vivevamo della pesca in quelle acque. Iniziarono subito i conflitti: pesca di frodo, denunce, controdenunce”, raccontano. Quattro anni dopo, quando la Riserva riaprì il suo tratto di mare, la grande sorpresa: “La prima uscita in mare ci stupì con una pescata mostruosa. Ricordo che uno di noi si mise a piangere: era da quando era bambino che non vedeva tutto quel ben di Dio”. Insieme alla prima battuta di pesca partì il progetto di monitoraggio: ogni mattina i pescatori tornano a terra e, con l’assistenza dei biologi del Wwf e dell’università di Lecce, catalogano e misurano uno a uno i pesci intrappolati nelle reti. Il risultato degli studi scientifici è stupefacente: in pochi anni la fauna ittica è aumentata del 400 per cento. “Nelle acque della riserva peschiamo solo una volta a settimana, il resto del tempo usciamo in altre zone. La differenza è enorme. Non bisogna guardare solo alla quantità del pesce, che è aumentata tantissimo, ma anche, e forse di più, alle dimensioni. Utilizziamo esclusivamente le reti a maglie larghe, che consentono ai pesci più piccoli di passare e intrappolano solo gli esemplari più grandi”, spiegano i pescatori. Catturare un pesce di piccola taglia, che non ha ancora raggiunto la maturità sessuale e deposto le uova, significa infatti arrecare un danno enorme all’intero ecosistema. I pescatori lo hanno capito, tanto che usano le reti a maglia larga anche nelle acque al di fuori dell’area protetta. Insieme alla popolazione ittica, ovviamente, sono aumentati anche i guadagni della comunità dei pescatori di Carovigno. “Se vendi un chilogrammo di triglie di grossa taglia puoi chiedere anche 25 euro, mentre lo stesso chilogrammo con triglie di piccola taglia te lo pagano 10 euro”.


Monica Calamai

Ex direttore generale della Sanità toscana

Ho apprezzato le cinque storie, diverse ma con la base comune di una grande creatività e innovazione. Alcune, come quella del riutilizzo degli scarti di marmo o della riserva naturale che ha ripopolato il tratto di costa marino, oltre che genialità hanno un evidente e profondo rispetto per l’ambiente. Altre, invece, come quelle del riciclo delle arance e delle alghe, sono più tese all’uso dei prodotti del proprio contesto. Sono storie che dimostrano come sia importante mettersi e mettere in discussione luoghi comuni e ordinari per poter rilanciare l’economia e sconfiggere la crisi oltre a rispettare il contesto in cui si vive. Storie di persone con una grande visione e con capacita di lettura del presente. Mi sono ritrovata in queste storie per profonda sintonia. Sono davvero tutte, nessuna esclusa, in un certo modo commoventi. E bellissime. Se ne devo scegliere una, per sentimento, amando il mare e tutto quello che popola il mare, quella sulla riserva naturale di Torre Guaceto è al primo posto.


Cartiere Favini | Rossano Veneto, Veneto

Nel 1989 Venezia è assediata dalle alghe. A causa degli scarichi industriali e degli inverni miti, la vegetazione marina è cresciuta in maniera esponenziale. Se ne calcolano tra i 15 e i 25 chilogrammi per metro quadro. I pesci muoiono, in alcuni anfratti della città l’acqua ha assunto un allarmante colore biancastro e sopra la superficie dell’acqua svolazzano ormai solo gli insetti. Il gas emanato dalle alghe in putrefazione annerisce gli argenti delle case e scolorisce le cupole delle chiese. I gestori degli hotel registrano un calo delle prenotazioni del 30 per cento. La giunta comunale è ormai in preda al panico, lancia l’sos al governo, chiede la convocazione urgente del comitato interministeriale. Il consorzio di Venezia Nuova e il magistrato alle acque indicono un bando per esaminare nuove soluzioni per il riutilizzo delle alghe. La risposta è inaspettata, sembra quasi una trovata pubblicitaria: la cartiera veneta Favini, di Rossano Veneto, annuncia: “Datele a noi! Le trasformeremo in carta”. È il 1992.

Oggi Favini ha più di duecento anni di storia alle spalle e una parola d’ordine: innovazione. Quell’operazione segnò un punto di svolta nella cartiera veneta. Tra le prime, in Italia, a presentare un bilancio ambientale e a capire l’importanza di un approccio ecologico, sostenibile e rispettoso della natura. “Il riuso creativo e il riciclo sono da sempre nelle corde di chi produce carta”, spiegano. In questa direzione la carta Crush è stato il vero successo degli ultimi anni. È un tipo di carta ecologica lanciata nel 2012, caratterizzata dal fatto che si basa sul riciclo degli scarti agroindustriali destinati alla discarica. Sulla scia delle alghe veneziane, in Favini anche il nocciolo dell’oliva, la buccia d’arancia e il guscio della mandorla vengono convertiti in una sostanza farinosa da unire alla cellulosa. Sostituiscono così circa il 15 per cento di materia prima e conferiscono alla carta colori naturali, terrosi e una consistenza che al tatto si rivela diversa dai fogli e i cartoncini a cui siamo abituati: spessa, decisa e leggermente ruvida. Si va dal cartoncino nero caffè all’avorio mais, l’oliva verde bottiglia, il rosso della ciliegia, e la lavanda che è diventata blu. A questo proposito Favini ha stipulato un accordo volontario con il Ministero dell’ambiente impegnandosi a monitorare e ridurre la propria impronta di carbonio. Grazie all’utilizzo degli scarti vegetali e dell’energia verde, la CO2 emessa per la realizzazione di Crush è stata ridotta del 20 per cento rispetto a linee di prodotto equivalenti non ecologiche. Ma Eugenio Eger, amministratore delegato della cartiera, ha ribadito: “Noi non abbiamo l’ambizione di salvare il mondo, cerchiamo solo di fare bene il nostro lavoro”.


Orange Fiber | Catania, Sicilia

“Pronto?”. “Pronto, signora. Buongiorno. Siamo di Ferragamo, la chiamo perché vorremmo…”. “Un momento, mi scusi, non ho capito: chi parla?”. “La Salvatore Ferragamo Esse Pi A, signora… Ferragamo, l’azienda di moda. Sono la responsabile ricerca materiale di Ferragamo. La chiamiamo perché crediamo di avere bisogno di lei…”. È iniziata così, nel giugno del 2014, una delle avventure imprenditoriali più innovative e virtuose degli ultimi anni, quella di Orange Fiber, una start-up che ha brevettato un processo per dare vita ai sottoprodotti dell’industria di trasformazione degli agrumi – la cui gestione comporta ingenti costi economici per le industrie di trasformazione e impatta l’ambiente –, trasformandoli in tessuti di alta qualità che oggi sono usati per grandi firme della moda. Con un doppio vantaggio: eliminare i costi di smaltimento dei sottoprodotti agrumicoli e usare materiali di scarto, quindi estremamente economici, per creare prodotti di grande valore. Ad avere l’idea sono state Adriana Santanocito ed Enrica Arena, due giovani ragazze siciliane. Adriana, andata a Milano per studiare moda sostenibile, racconta che l’idea è nata quasi per caso: “Avevo la Sicilia sempre in testa, volevo lavorare nel mondo della moda, ma anche portare valore nella mia terra. Dopo aver mangiato un’arancia conservavo quello che ne rimaneva e lo mettevo a essiccare sul termosifone, pensando che mi avrebbe dato l’ispirazione”. Grazie ai suoi studi, Adriana sapeva che alla base dei tessuti artificiali c’è la cellulosa, una sostanza contenuta in quasi tutti i vegetali e quindi anche nelle arance. E proprio dalle bucce delle arance lasciate essiccare sul termosifone sono nati dei tessuti particolari, al tatto simili alla seta, che hanno permesso ad Adriana di coronare il suo sogno. Nella Ferragamo – Orange Fiber collection, infatti, sostenibilità, moda e design si coniugano per dare vita a un nuovo concetto di lusso 3.0, il nuovo modo di vivere uno stile di vita etico e sostenibile, che guarda oltre lo status sociale e considera il futuro il futuro del nostro pianeta.


Flori Degrassi

Direttore generale Asl Roma 2

Ho cominciato a leggere queste storie come se stessi lavorando. Il lavoro per me è concentrazione e tanta lettura. La lettura lavorativa consiste nello scegliere tra le migliaia di parole quelle chiave che mi consentano di capire velocemente il problema per trovare una soluzione. Quando ho finito di leggere ho capito quanto questo lavoro mi avesse condizionato la vita coprendo quella parte di me che adorava le fiabe e che voleva sempre vedere il bello delle cose. Queste cinque testimonianze, in questo particolare momento storico in cui siamo tutti preoccupati per il nostro immediato futuro economico e per il disastro ambientale che abbiamo tutti contribuito a generare, danno speranza per il futuro. Fanno vedere come l’essere umano, usando la stessa intelligenza che ha contribuito a danneggiare il pianeta, può traghettarci verso un domani migliore. Sono storie di riscatto economico e di imprenditoria individuale basati su un altro modo di approcciarsi ai problemi. La storia che mi ha colpito di più è “Orange Fiber”: mentre la leggevo, sentivo il profumo delle bucce di arancia essiccate sui termosifoni e ho ammirato questa donna che ama la sua terra tanto da ridar vita agli scarti di agrume facendone peraltro una cosa altrettanto bella quanto quella realizzata dalla natura.


Saxa Gres | Anagni, Lazio


Ha unito la sostenibilità all’innovazione, la Saxa Gres di Anagni, riaprendo una fabbrica in un’area industriale in crisi, con l’obiettivo dell’economia circolare. Circolare è il percorso che ha portato alla riassunzione di circa 500 persone e circolari sono le modalità di produzione dei materiali, realizzati con un mix di ceneri e argille provenienti da cave e inceneritori locali, che garantiscono la certificazione Ecolabel ai loro prodotti con il massimo della componente Green. La Saxa Gres ha scelto di produrre piastrelle e sampietrini per la pavimentazione delle aree pubbliche ridando nuova vita e dignità a materiali di scarto, con effetti molto positivi in termini di sostenibilità economica e ambientale. L’esito è quindi un prodotto costituito per il 30 per cento da rifiuti urbani. La tutela del capitale naturale, la riqualificazione del patrimonio esistente, la progettazione di un futuro desiderabile per le città sono solo alcuni dei principi che muovono il loro lavoro. Tutto inizia il primo marzo 2018, quando l’imprenditore laziale Francesco Borgomeo ha deciso di rilevare l’ex stabilimento Ideal Standard di Roccasecca, in provincia di Frosinone, e tutti i 280 dipendenti, salvando un complesso industriale abbandonato da un giorno all’altro da una multinazionale americana. “Saxa Gres – ha affermato il presidente Francesco Borgomeo – è l’esempio che si può uscire dalla crisi, soprattutto quella del manifatturiero italiano, con un’innovazione a 360 gradi: ambientale, economica, produttiva”. Tanto che la produzione 2019 è già tutta prenotata e stanno pensando di comprare un secondo forno per riuscire a raddoppiare la produzione.


Angelo Tanese

Direttore generale, Asl Roma 1
Saxa Gres | Anagni, Lazio

Queste storie hanno in comune la capacità di trasformare in opportunità situazioni apparentemente critiche o di generare valore da materiali che saremmo portati a scartare. Sono emblematiche, a mio avviso, di come un approccio positivo e creativo, che guarda la realtà non per trovare sempre conferma di ciò che si conosce ma per scoprire nuove prospettive, sia il modo migliore per affrontare le sfide di un mondo che cambia sempre più velocemente. Ambiente, salute, relazioni sociali, sono temi associati spesso più a una paura o a una minaccia per le generazioni future che non al potenziale di innovazione e sviluppo che racchiudono. Il racconto di questi progetti imprenditoriali può dunque aprire a nuove visioni ed essere di stimolo anche per chi lavora nelle istituzioni. A fronte di risorse limitate dobbiamo infatti ripensare le politiche pubbliche e i modelli di offerta di servizi ai cittadini con formule e soluzioni diverse dal passato, che attivano la partecipazione della comunità. La sostenibilità dei nostri modelli di welfare dipende principalmente dalla responsabilità con cui ciascuno interpreta il proprio ruolo civico e dalla fiducia con cui costruiamo relazioni di reciprocità e di collaborazione con gli altri.