I tempi di attesa per le prestazioni offerte dai servizi sanitari regionali vengono spesso presentati come un problema che riguarda esclusivamente il versante dell’offerta. Vengono interpretati, insomma, secondo una logica di mercato all’interno della quale una domanda – forte e in espansione – non trova tempestiva soddisfazione nelle strutture del sistema pubblico, accreditate o direttamente gestite dalle aziende sanitarie, e tende a rivolgersi alle strutture private.
Questo approccio considera implicitamente la domanda come una variabile indipendente sulla quale non vale molto la pena di interrogarsi. Che la domanda debba corrispondere a una patologia o a un rischio di malattia e che la sua soddisfazione debba produrre una riduzione di quel rischio, una cura di quella malattia o una modifica nel suo trattamento, che cioè in sanità la domanda di prestazioni debba corrispondere a una effettiva domanda di salute non viene generalmente compreso nell’equazione. Per rimanere nella stessa logica di mercato sarebbe come se un’azienda automobilistica chiedesse a un fornitore mille motori per una produzione di duecento vetture e si lamentasse se il fornitore ritardasse la consegna per l’eccesso di ordini ricevuti.
Ridurre i tempi di attesa acquisisce la valenza di un imperativo etico.
Non facciamo però paragoni impropri, stiamo parlando della salute delle persone, diradiamo la nebbia del mercato: ridurre i tempi di attesa acquisisce la valenza di un imperativo etico. La domanda infatti, quando ha la possibilità di esprimersi, ma questa è un’altra questione, diviene tutta pienamente giustificata e l’unico strumento per governarla è stabilito dalla “priorità” delle prescrizioni. Secondo questa logica di priorità arriviamo così a sostenere che una prestazione dichiaratamente poco efficace deve aspettare se l’offerta è insufficiente, ma può essere fatta anche immediatamente se l’offerta è adeguata. In altri termini se le risorse del sistema sanitario sono in grado di produrre in tempi rapidi una prestazione già abbondante e magari poco efficace, per principio consideriamo tali risorse bene utilizzate anche quando potrebbero essere più utilmente destinate alle prestazioni efficaci che scarseggiano.
Si arriva in questo modo a risultati paradossali sia sul lato dell’eccesso che su quello della scarsità.
Nella regione Lazio si effettuano infatti senza attese milioni di esami delle urine ogni anno ma meno del 50 per cento dei circa 400 mila pazienti diabetici effettuano quell’esame delle urine espressamente previsto dai protocolli di trattamento della malattia dalla quale sono affetti. E ancora, per esempio, il servizio sanitario del Lazio non riesce ad assicurare almeno un’ecografia ostetrica a due terzi delle gravidanze che arrivano al termine e che sono ogni anno meno di 50 mila, ma nello stesso tempo si effettuano oltre 800 mila ecografie per indicazioni diverse, escluse quelle cardiache. I tempi di attesa per un’ecografia ostetrica, e cioè per una prestazione ricompresa nei livelli essenziali di assistenza, sono talmente lunghi da non essere compatibili con le fasi naturali della gravidanza, alimentando una straordinaria domanda verso le strutture private, ma sembra impossibile chiedere conto di come le risorse disponibili siano effettivamente utilizzate e con quale livello di indicazioni cliniche.
Se si arriva a questi paradossi l’errore è forse nella definizione del tema e sarebbe probabilmente più corretto non considerare come problema i tempi di erogazione delle prestazioni, quanto piuttosto la capacità del servizio sanitario regionale di soddisfare, in tempi congrui con le opportunità di cura, le esigenze di salute dei cittadini. Sarebbe necessario insomma transitare da un sistema, ormai rivelatosi fallimentare, di governo dell’offerta a un sistema di analisi dei problemi, di segnalazione attiva dei rischi e di risposte mirate a una domanda che si è collaborato a formare.
Sarebbe più corretto considerare come problema la capacità del servizio sanitario regionale di soddisfare le esigenze di salute dei cittadini.
La situazione attuale dei servizi sanitari regionali sembra simile a quella di una cittadella assediata che aspetta l’assalto dei cittadini e conta le sue perdite e i suoi ritardi. I cittadini non sono però degli oggetti sconosciuti dei quali temere le richieste, ma sono le persone che noi conosciamo, uno per uno con le loro caratteristiche individuali e collettive, con le loro storie, sono persone dei cui bisogni il sistema sanitario è consapevole, né è sempre stato consapevole, in modo molecolare attraverso i medici e i pediatri di famiglia, e adesso ne è consapevole in modo forse più grossolano ma più diffuso, omogeneo e sistematico, attraverso gli archivi, o i data base se si preferisce il termine inglese, che sono stati costruiti negli ultimi vent’anni, dai ricoveri alla farmaceutica, dal pronto soccorso all’assistenza specialistica ambulatoriale, dall’assistenza domiciliare ai trattamenti dialitici.
Pensare di soddisfare i bisogni delle persone di cui abbiamo la responsabilità e la tutela regolando il rubinetto dell’offerta sarebbe come se Google invece di fare i profiling dei suoi utenti mettesse gli annunci sulla decima pagina del Messaggero, con tutto il rispetto per il Messaggero e per la sua gloriosa tradizione.
Nella logica dei tempi di attesa non c’è solo la rassegnazione alla sconfitta, c’è anche una straordinaria arretratezza culturale, perché si rinuncia a un approccio di sanità pubblica che è possibile ora con le tecnologie già a nostra disposizione. Si può essere certi che un simile cambiamento di prospettiva sia effettivamente praticabile ed efficace? Certamente no, e dovremo essere pronti a riconoscerlo come forse bisognerebbe ora riconoscere che le strade già percorse si sono rilevate molto deludenti.
Nella logica dei tempi di attesa non c’è solo la rassegnazione alla sconfitta, c’è anche una straordinaria arretratezza culturale.