
Il tema più frequentemente discusso, nell’etica della salute, è su quali basi stabilire le priorità nell’allocazione delle risorse destinate ai servizi sanitari, che sono divenute scarse (ma sono mai state abbondanti?) per diversi motivi concomitanti. Tra questi ho sempre sentito elencare l’invecchiamento della popolazione, il costo crescente dei nuovi farmaci e delle nuove tecniche, la maggiore richiesta di assistenza, l’aspirazione non solo a prolungare la vita ma a evitare la morte, lo spostamento della domanda da una “medicina dei bisogni” a una “medicina dei desideri”. Su ognuno di questi punti si potrebbe discutere.
Si può dire per esempio che l’onere non sta solo nel numero degli anziani, ma più ancora nel fatto che troppi di loro invecchiano in semi-salute; si può dimostrare che alcuni nuovi farmaci, come quelli antiulcera, fanno risparmiare il costo delle resezioni gastriche; si può sostenere che una popolazione meglio assistita produce maggiore ricchezza, e crea quindi risorse aggiuntive; si può documentare che, tra coloro che si trovano in fin di vita, ci sono più persone terrorizzate per l’accanimento terapeutico che non aspiranti all’immortalità; si può infine concordare che per dare a tutti il necessario bisogna circoscrivere il superfluo destinato ai pochi. Ma a ciò si può anche obiettare che questo in linea di principio limiterebbe la libertà, e in linea di fatto sarebbe poco attuabile, perché chi detiene il potere sono fondamentalmente gli “alcuni”. In conclusione, anche se ciascuna delle tesi pro o contro può avere dalla sua molti argomenti, è preferibile raggiungere prima l’accordo sul fatto che le risorse, non solo quelle del pianeta ma anche quelle delle società umane, sebbene siano moltiplicabili, non sono illimitate; e sull’esigenza che si discutano perciò le priorità, che nel passato sono sempre state decise in modo “spontaneo” e spesso oscuro, e che ora è opportuno definire e giustificare in base a esplicite motivazioni etiche e pratiche.
Decidere a chi destinare le risorse sulla base di criteri discutibili ma oggettivabili oppure delle preferenze di chi ha il potere di compiere le scelte.
In tema di risorse e di priorità sorgono tre domande: a chi destinarle? Chi decide? Quali risorse, e per quali azioni? Un medico filosofo, Raanan Gillon, ha pensato di rispondere alla prima domanda ricorrendo allo strumento dell’innocenza. Ha sottoposto perciò un quesito alla figlia di otto anni: “A chi, fra tre persone, devo attribuire l’unico apparecchio salvavita di cui dispongo? Al più giovane perché potrà vivere più a lungo, al più malato perché ne ha la massima necessità, o al più bravo perché lo merita di più?”. Anche se Gillon aveva la lodevole intenzione di presentare alla figlia tre opzioni bioetiche abbastanza comuni (utilitaristica, clinica e meritocratica), sorge qualche dubbio sull’opportunità pedagogica di imporre a una bambina, sia pure in modo astratto, decisioni di vita e di morte; da questo punto di vista, il fatto che Gillon sia direttore del Journal of medical ethics potrebbe essere considerata una condizione aggravante. Comunque, la figlia ha dato la risposta più sensata, rifiutando l’ipocrisia delle scelte “oggettive” e mostrando di sapere come vanno, molto spesso, le cose di questo mondo: “Certamente non devi darlo a quello di cui sei più amico, perché non sarebbe onesto”. Il criterio dell’amicizia, o meglio delle affinità elettive, fu peraltro adottato ufficialmente a Seattle, trent’anni fa, nel primo esempio di razionamento delle cure, compiuto per la cernita dei pazienti da scegliere per la dialisi renale, che era allora ai suoi primi passi. L’associazione medica e l’ospedale nominarono un comitato nel quale un giurista, un sacerdote, una casalinga, un impiegato, un banchiere e un chirurgo, dopo la prima selezione fatta dai medici in base all’utilità clinica del trattamento, fecero la scelta di vita o di morte per i malati. Essi decisero di privilegiare: chi aveva figli rispetto a chi non ne aveva, gli occupati rispetto ai disoccupati, coloro che svolgevano attività volontarie per la comunità e frequentavano la chiesa rispetto a chi non vi partecipava, ed esclusero chiunque fosse considerato deviante, sia per malattie mentali, sia per imputazioni di reato, includendo in questa categoria anche coloro che erano accusati di aver partecipato al movimento per i diritti civili e alle battaglie della lega anti-vivisezione. Solo dopo molte proteste e sollecitazioni, nel 1973 fu approvato un programma federale che rendeva la dialisi accessibile a tutti, in base soltanto al giudizio clinico.
Un altro esempio molto discusso in campo bioetico è il caso dell’Oregon. Nel 1989 la riduzione dei finanziamenti federali e la crescita dei costi assistenziali indusse questo stato a costituire una commissione con lo scopo di “sviluppare una lista di priorità di servizi sanitari, dal più importante al meno importante, per l’intera popolazione da servire”; più precisamente, per la popolazione povera non pagante assistita dal Medicaid. Fu posto a base il criterio utilitaristico del maggior beneficio per il maggior numero di persone; e si cercò di stabilire, promuovendo anche dibattiti pubblici, una lista prioritaria di cure basata sull’impatto sociale delle varie malattie. Al primo posto fu collocata (credo giustamente) l’assistenza materno-infantile, ma nella graduatoria successiva furono anche qui introdotti criteri soggettivi, alcuni dei quali ispirati al victim blaming: per esempio, il trapianto di fegato in soggetti alcolisti fu posto ben più in basso, nell’elenco delle priorità, rispetto allo stesso trapianto reso necessario da altre cause “meno colpevoli”, come l’epatite. Questa esperienza potrebbe indurre a ritenere, fra l’altro, che la democrazia è uno strumento imperfetto, e comunque insufficiente, quando si devono assumere decisioni di natura morale. Possono esistere anche altri criteri di priorità. Un filosofo del seminario teologico Asbury, del Kentucky, ha suggerito che per i trapianti si desse la precedenza a coloro che hanno “responsabilità speciali” verso la società, come i medici, gli scienziati, i politici, gli uomini d’affari, i genitori con figli. Molti hanno posto invece come discriminante l’età dei pazienti, altri la “qualità di vita” che è possibile salvare o recuperare. La valutazione dei QALY (quality adjusted life years = anni di vita ponderati in base alla qualità) comincia a essere abbastanza diffusa nell’economia sanitaria, nell’epidemiologia e nella bioetica. La valutazione è basata sulla critica della life expectancy (speranza di vita) come unica misura dello stato di salute di una popolazione e sulla considerazione che oggi la medicina permette di sopravvivere a lungo in condizioni minorate, come nel caso delle malattie croniche. In una tabella di sopravvivenza ponderata per età, il calcolo dei QALY ci direbbe per esempio che un anno di vita vissuta in piena salute equivale a due o tre anni guadagnati con qualità dimezzata o ridotta a un terzo. Ma anche a questa valutazione, che può essere utile sul piano descrittivo per integrare la life expectancy con altri indicatori collettivi di salute e di malattia, sono state mosse obiezioni. Alcune sono basate sull’inesistenza di valori universalmente accettati per misurare la qualità di vita; altre sul fatto che la disabilità, che è una delle caratteristiche valutate per i QALY, è un concetto variabile in rapporto ai compiti che vengono attribuiti, e non può inoltre prescindere dalle scelte soggettive. Sul piano etico, le riserve più consistenti riguardano il rischio che le scelte di priorità assistenziali si orientino verso i soggetti riconducibili con bassi costi alla “normalità”, interpretando questa parola in modo arbitrario e discriminatorio.
Chi decide? La domanda comprende problemi microetici e problemi macroetici.
Penso che sia risultato chiaro da questa parziale casistica che la domanda “a chi?”, la quale non è certo ingiustificata, e neppure nuova, sta ricevendo molte risposte: alcune basate su criteri discutibili ma almeno oggettivabili, come potrebbe essere l’età o la gravità di una malattia; altre soltanto sulle preferenze di coloro che hanno il potere di compiere le scelte. Si giunge così alla seconda domanda “chi decide?”. Questa viene posta solitamente come una domanda unica, ma contiene in realtà due quesiti distinti: chi decide quale malato curare con un determinato supporto terapeutico, che sia unico o scarso in un dato momento? Chi decide le ricerche, le tecniche, le risorse umane, i modelli organizzativi, gli investimenti monetari più appropriati per affrontare un determinato problema di salute? La domanda comprende quindi problemi microetici e problemi macroetici (uso le parole micro e macro in rapporto alle dimensioni, non alla rilevanza dei valori che vi sono connessi).
Attualmente la discussione bioetica si concentra soltanto sulla prima sub-domanda; e la pratica vi risponde, oltre che affidandosi al giudizio dei singoli medici, con molta fantasia. Quando è stato messo a punto negli Stati Uniti il costosissimo interferone B come possibile terapia della sclerosi multipla, per esempio, la scelta fra i moltissimi candidati a usarlo è stata compiuta con l’estrazione a sorte. In altri casi è stato impiegato un computer, programmato con i dati di tutti i pazienti; oppure è stato adottato il criterio del first-come, first-served (chi primo arriva è servito per primo); oppure il giudizio è stato affidato al “bioeticista”, una nuova professione che, come il commercialista fa quadrare i bilanci monetari, dovrebbe far quadrare i bilanci morali di un’istituzione sanitaria; oppure, in antitesi a questo metodo monocratico, è stata utilizzata la televisione per proporre il quesito “chi salvare” ai telespettatori, informandoli previamente delle caratteristiche (non dei nomi, fortunatamente) degli aspiranti alla cura. Comprendo che questa elencazione può apparire irriverente. Non intendo però sottovalutare né le difficoltà, né la volontà di ricercare metodi appropriati, né l’esigenza, che a volte sussiste davvero, di definire criteri etici atti a guidare scelte che riguardano la cura o la sopravvivenza di una persona invece di un’altra.
Confesso però che su tali problemi non ho finora maturato orientamenti precisi. Mi soffermerò invece sulla seconda sub-domanda, che ci collega al quesito “quali risorse, e per quali azioni?”. La tradizione e i rapporti di potere attribuiscono in questo campo una funzione speciale ai medici, come professione organizzata e influente. Ma potrebbe nascere qualche rischio se la società affidasse soltanto a loro la definizione delle priorità nella medicina. Su questo ci aveva già ammonito, con uno dei suoi paradossi, George Bernard Shaw, nella prefazione a The doctor’s dilemma: “Non è colpa dei nostri dottori se i servizi medici della comunità, come sono prestati attualmente, costituiscono un’assurdità omicida. Che qualsiasi nazione sana ed equilibrata, avendo osservato che si può assicurare il pane creando nei panettieri un interesse pecuniario a servirvelo, possa proseguire offrendo ai chirurghi un interesse pecuniario nel tagliarvi una gamba, è abbastanza per rendere disperati sull’umanità politica. Ma ciò è esattamente quel che abbiamo fatto. E più spaventosa è la mutilazione, più il mutilatore è pagato. Chi corregge un’unghia del piede incarnita riceve pochi scellini: chi taglia il vostro stomaco riceve centinaia di ghinee, tranne che quando operi un povero per fare pratica. Voci scandalizzate mormorano che le operazioni sono necessarie. Può essere. Può anche essere necessario impiccare un uomo o demolire una casa. Ma noi badiamo molto a non fare il boia e il demolitore giudici di questo. Se lo facessimo, nessun collo sarebbe più sicuro, e nessuna casa sarebbe più stabile”.
Interiorizzare il concetto di priorità, piuttosto che accettare supinamente e diffondere quello di scarsità.
La diffidenza di G.B. Shaw era rivolta a un eccessivo potere attribuito ai medici; ma altrettanta perplessità può sorgere oggi per una tendenza opposta. La deontologia tradizionale chiede infatti ai medici sia di limitare le loro prescrizioni e i loro atti “a quelli che sono rigorosamente necessari”, sia di “usare i mezzi più idonei alla cura di ogni paziente”. Sebbene sia giusto evitare gli sprechi e difendersi dalle sollecitazioni al sovraconsumo di analisi, di apparecchiature, di operazioni e di farmaci, mi pare eccessivo chiedere ai medici di “interiorizzare il concetto di scarsità”. Questa infatti può essere assoluta, ma anche relativa, secondo l’importanza che assume la salute nel quadro di tutte le priorità pubbliche e personali: se essa non sta ai primi posti è infatti dovere dei medici agire, insieme ai cittadini, perché tutti interiorizzino il concetto di priorità, piuttosto che accettare supinamente e diffondere quello di scarsità. Ho parlato in un precedente capitolo dell’erosione dell’etica medica, sostenendo che in questo campo non si può rifiutare un confronto aperto e rifugiarsi nel culto di una tradizione, che tra l’altro è sempre più contraddetta dalla pratica quotidiana; ma penso che sarebbe sbagliato, anziché tentare di uscire “in avanti” da questa crisi, accettare che essa sia sostituita da un’etica monetarista. Coloro che per professione vedono le malattie hanno, in primo luogo, il dovere di fare quanto è di loro competenza verso i singoli malati; ma anche, se è necessario, di sollecitare misure di più ampia portata, atte a combattere le malattie.
Il criterio del profitto e quello della salute sono due esigenze che possono convergere ma anche confliggere.
Quali misure? Esse sono spesso selezionate da poteri forti, nel proprio interesse. Esse rispondono spesso al criterio del profitto più che a quello della salute, due esigenze che possono convergere ma anche confliggere; e spesso le priorità che vengono così selezionate non rispondono alle esigenze di risparmio e di efficacia. Facendo un tentativo di valutare comparativamente, in rapporto ai mezzi impiegati e alle risorse allocate, quali siano stati i maggiori progressi compiuti nella lotta contro le malattie e nella promozione della salute, mi ha colpito una novità sorprendente degli ultimi decenni. Ancora negli anni cinquanta, i successi maggiori avevano questa duplice matrice: erano il risultato di laboriose sperimentazioni scientifiche ed erano stati diffusi attraverso prodotti industriali. Questo è stato il caso, certamente, delle due scoperte che in quel periodo hanno probabilmente salvato più vite ed evitato maggiori invalidità: gli antibiotici e il vaccino antipolio. Dagli anni sessanta in poi, potremmo certamente elencare altre importanti scoperte; ma non è stato introdotto, mi pare, alcun prodotto che abbia avuto un impatto positivo di analoga portata. Quali sono state, successivamente, le innovazioni che hanno evitato più malattie e salvato più vite umane? Ognuno potrebbe suggerire un proprio elenco. Anch’io voglio farlo, in modo forse arbitrario, includendovi: 1) la terapia delle gastroenteriti infantili mediante reidratazione orale con acqua, sale e zucchero, attuata nei paesi poveri; 2) la prevenzione dell’infarto miocardico e di altre malattie cardiocircolatorie con il mutamento degli stili di vita (nutrizione, attività fisico-sportiva, abolizione del fumo e controllo dell’ipertensione), attuata negli Stati Uniti e poi in altri paesi sviluppati; 3) la prevenzione delle malattie gastroenteriche mediante l’uso quotidiano dell’acqua bollita in tutte le case, attuata soprattutto in Cina.
I maggiori progressi compiuti nella lotta contro le malattie contribuiscono a delineare alcuni punti fondamentali di un’etica che ci guidi a stabilire priorità nella medicina.
Nessuno degli “scopritori” di questi metodi ha avuto il premio Nobel, anche se l’avrebbero meritato almeno quanto altri scienziati. Nessuno di questi metodi richiede tecnologie avanzate, farmaci e merci costose; anzi, essi hanno contribuito a ridurre il loro uso e quindi a comprimere i costi dell’assistenza. Le loro caratteristiche comuni stanno nell’ottenere il massimo risultato con il minimo dei mezzi; nel non avere controindicazioni di natura etica, per il fatto che non creano conflitti con altri valori e interessi legittimi, né tra la vita di uno e la vita di un altro; nel richiedere, anziché una delega della propria salute a professioni e a istituzioni specializzate, una propria partecipazione responsabile e nello stimolare quindi un intreccio fecondo fra il diritto alla salute e il dovere di contribuire personalmente a mantenerla e a promuoverla; nel rispondere alla domanda “chi decide?” con l’attribuire questo compito a ogni soggetto, informato sulle sue possibilità e consenziente con l’uso dei mezzi a sua diretta disposizione. Non voglio sovraccaricare di significati morali queste esperienze, né sostenere che questi orientamenti siano da considerare esclusivi, o siano ovunque generalizzabili, per tutti i luoghi e per tutte le malattie. Si potrebbero elencare cento altri progressi nella salute ottenuti per altre vie, con metodi diversi e anche opposti a quelli che ho segnalato. Mi pare indubbio però che gli esempi citati contribuiscano, con la forza dei risultati, a delineare alcuni punti fondamentali di un’etica che ci guidi a stabilire priorità nella medicina.
Esperienze di questo tipo potrebbero anche aiutare a circoscrivere, ma solo numericamente, i dilemmi morali che nascono nei casi in cui si devono prendere decisioni di vita e di morte che contrastino con principi fondamentali: mi riferisco soprattutto al valore intrinseco di ogni esistenza umana, che non può essere stimato in base alla “qualità di vita”, e che non è compreso nel criterio utilitaristico del “procurare il maggior beneficio al maggior numero di persone possibile”. Non voglio però escludere questo criterio, né rimuovere l’esigenza di allocare le risorse in base a scelte etiche sostenute da valutazioni possibilmente oggettive. Non c’è dubbio, comunque, che ha una base reale l’osservazione di Enghelhardt jr., secondo il quale è difficile conciliare le varie esigenze assistenziali: contenimento dei costi, qualità e uguaglianza di accesso ai servizi, libertà di scelta. Si potrebbe anche dire che è quasi impossibile. Ma diverrebbe certamente meno difficile se: a) i mezzi tecnici fossero più appropriati, e fossero usati in modo più appropriato; b) oltre che alle risorse monetarie si pensasse maggiormente a quelle scientifiche e umane, che comprendono le funzioni professionali ma anche quelle che può mettere in campo ogni gruppo e ogni organizzazione sociale, ogni movimento collettivo e anche, personalmente, ogni cittadino; c) oltre che puntare sui servizi sanitari per le loro prestazioni dirette, si pensasse anche alla loro funzione come veicoli di una “cultura della salute” e di una autopoiesi del benessere; d) fossero utilizzate più ampiamente le risorse della solidarietà spontanea e organizzata; e) oltre che riparare i danni, si lavorasse per massimizzare l’impatto positivo che ogni attività umana, a partire dal lavoro e dalla produzione, può avere in favore della salute.
Dare alla salute la stessa priorità che le attribuiscono le singole persone.
La stessa questione è stata formulata da Lorenzo Tomatis in questi termini: “Uno si può chiedere se le risorse per la salute sono inevitabilmente e irrimediabilmente scarse, oppure se tale scarsità è una scelta politica. Nella nostra società l’imperativo del tornaconto condiziona e perfino domina le priorità della ricerca e di conseguenza il sistema di assistenza medica, del quale la prevenzione rappresenta oggi una parte minima” [1]. Troppo spesso, effettivamente, il discorso si limita alla ripartizione delle spese per le cure mediche, cioè a un’etica distributiva concepita in un modo molto ristretto; si limita all’esame delle priorità nella medicina, anziché sottolineare l’impulso che è necessario per ottenere che, in una gerarchia dei bisogni umani, chiunque ha il potere di farlo dia alla salute la stessa priorità che le attribuiscono, mediamente, le singole persone.
Sarebbe interessante analizzare quando ciò sia mai accaduto. Forse nelle scelte di alcuni sovrani illuminati del settecento; certamente nelle politiche di molti governi europei fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quando si ebbe la possibilità di ridurre l’impatto delle malattie infettive; e nell’ultimo mezzo secolo è accaduto in alcuni paesi, attraverso il welfare state, quando esso non fu concepito soltanto in modo assistenziale. Ma nel complesso, la priorità della salute non si è ancora affermata nelle scelte dell’economia, negli atti dei governi, negli orientamenti della società. Il confronto può apparire schematico, ma è noto che in gran parte delle nazioni le spese prioritarie sono quelle militari. Esse ammontano nel mondo a 1,7 miliardi di dollari al minuto; e sono, in proporzione al reddito, tre volte più alte nei paesi sottosviluppati (a loro volta riforniti di armi dai paesi più ricchi), cioè in quei paesi che avrebbero maggior necessità di dedicare le loro risorse alla salute. È stato valutato da Christie W. Kiefer che, con l’attuale spesa annua per fini militari, 35 secondi permetterebbero di costruire scuole per 30.000 bambini o per nutrire 22.000 persone per un anno intero; 12 minuti basterebbero per costruire 40.000 centri medici attrezzati; 150 minuti (due ore e mezza) corrispondono all’intero bilancio annuale dell’Organizzazione mondiale della sanità, e 12 giorni potrebbero essere sufficienti a rifornire di acqua sicura tutti i paesi poveri.
I pericoli reali e immediati devono essere affrontati prima di quelli teorici.
Ma in questa sede, più che le cifre, interessa il problema morale. Esso è stato posto da J. Harris in questi termini [2]: la minaccia alla vita dei cittadini che può sorgere dai nemici stranieri, e che può giustificare le spese militari, è futura e teorica, mentre le stesse vite si trovano spesso a rischio immediato per mancanza di cure. Perciò dobbiamo “adottare il sano principio che i pericoli reali e immediati siano affrontati prima di quelli teorici”; questo principio dovrebbe indurre a “dare quasi sempre al bilancio sanitario la precedenza rispetto al bilancio destinato alla difesa della nazione”.
[Testo estratto dal libro
Giovanni Berlinguer. Etica della salute.]
Bibliografia
[1] Tomatis L. Poverty and cancer. Cancer Epidemiol Biomarkers Prev 1992;1:167-75.
[2] Harris J, Holm S. If only aids were different! Hastings Cent Rep 1993;23:6-12.