Nella versione del mito di Edipo narrata da Friedrich Dürrenmatt in La morte della Pizia, racconto del 1976, lo scrittore tedesco immagina che l’oracolo di Delfi si inventi la sua infausta profezia – secondo cui il giovane principe avrebbe ucciso il padre e posseduto la madre – solo per vendicarsi della credulità dei suoi contemporanei e divertirsi alle loro spalle. Di questi tempi, caratterizzati dal diffondersi di fake news e informazioni volutamente manipolate, capita spesso di sentirsi come Edipo di fronte alla Pizia di Dürrenmatt. Lo sostiene anche Jean-Luc Nancy, uno dei più grandi intellettuali viventi: “Una notizia corre per il mondo (…): la verità è collassata, passata, sorpassata. Viviamo in un’era di postverità. L’unica verità è che la postverità ci domina”. Ma se invece non fosse così? Se fosse, anche questa, semplicemente una menzogna? Quella di Nancy è infatti una provocazione, utilizzata dal filosofo per descrivere la sensazione che la verità ci venga costantemente e sistematicamente rubata. In particolare, da chi si occupa di politica, di informazione, di comunicazione. Una convinzione che parte da un assunto ben preciso, che la verità sia effettivamente conoscibile.
La verità è collassata, passata, sorpassata.
Si è portati a pensare, per esempio, che la scienza descriva fatti accertati, considerati tali in quanto verificati tramite procedure il cui funzionamento è sottoposto a un controllo totale. Si pensi alla legge della caduta dei corpi: “Essa implica un fatto”, spiega Nancy. “Enuncia un fatto”. Tuttavia, basta spostarsi su entità più indeterminate per rendersi conto immediatamente dell’illusorietà di questa certezza. La scelta dei dati utilizzati per calcolare il pil di una nazione, per esempio, è fonte di discussioni e controversie. Quella di credere nell’esistenza di una verità fattuale, d’altronde, è un’abitudine moderna. Lo spostamento del potere politico dalle potenze sovrane alle imprese di produzione transnazionali, ai complessi tecnico-economici, ai sistemi informativi e ai flussi di comunicazione, ha prodotto la percezione di un proliferare di deformazioni di ciò che si tende a definire verità. La sensazione che qualcuno, nelle lontanissime stanze del potere, elabori una fattualità del vero, ci ha portati a credere che esista una verità del fatto.
L’uso della menzogna e della strategia politica, tuttavia, è antico quanto qualsiasi forma di relazione umana, dalla rivalità alla concorrenza, dalla competizione al potere. Da sempre l’essere umano è portato a credere a qualsiasi affermazione che confermi un’aspettativa preesistente o lusinghi la propria opinione di sé. Non mentivano forse i congiurati quando, nascondendo il pugnale sotto la toga, si avvicinavano a Cesare col pretesto di rendergli onore? “Mentite, mentite – scriveva Voltaire –, qualcosa resterà sempre”. Finché i poteri hanno goduto di una certa reverenza, tuttavia, l’esistenza di inganni e segreti di stato è stata vissuta, secondo Nancy, come un elemento della tradizione. “La menzogna strategica era considerata naturale”, sostiene il filosofo francese. Si pensi al personaggio di Ulisse, indiscusso campione di astuzia ed eroe della cultura occidentale.
Lungi dal trovarci in un’era di postverità, siamo in un’era che precede la verità, che va verso di essa. E forse questo appartiene a tutti i tempi.
Non è la verità a essere cambiata, quindi, ma il nostro modo di relazionarci con la menzogna. A un certo punto nel nostro recente passato, infatti, ciò che prima veniva considerato un elemento naturale della strategia politica è stato sostituito da un generale e diffuso sospetto. Nancy associa la nascita di questa tendenza a un preciso momento storico: il disastro nucleare di Chernobyl. In seguito all’incidente del 1986, infatti, tenuto nascosto per giorni all’opinione pubblica e alla stampa, Michail Gorbačëv cominciò a parlare di glasnost’, termine russo utilizzato per indicare l’attitudine a discutere in modo libero e trasparente della gestione di uno stato. Dopo i campi di sterminio, la bomba atomica e la sorveglianza di Cina e Urss, la pratica della trasparenza diventava così “un’esigenza generale dello spirito democratico”. Da questo momento in poi, tuttavia, la storia ha seguito un doppio movimento: “Tutto appare sempre più esposto alla luce del sole – spiega il filosofo francese – ma, allo stesso tempo, sembra sempre di più provenire da processi o macchinazioni nascoste”. Da una parte WikiLeaks, dall’altra le teorie del complotto. L’oscurità, fattasi translucida, ha svelato un’oscurità ancora più profonda. Un fenomeno che si manifesta anche in ambito scientifico: il nostro cervello, per esempio, sembra sempre più trasparente e opaco allo stesso tempo. “Riusciamo a vedere le emozioni – dice Nancy –, ma cosa vediamo in realtà? Nulla, solo uno spessore”.
La verità non si può produrre, così come non si può dominare.
La verità non si può produrre, così come non si può dominare.
Paradossalmente, ogni verità porta con sé una falsità intrinseca. In termini filosofi ci, si parla di aporia dell’autoreferenza: un’affermazione non può parlare di sé stessa. Non si può dire, cioè, che una verità è vera. Bisogna quindi spostarsi dai concetti di verità e di menzogna tipici dell’approccio scientifico, dove si dà per scontato che i fatti esistano di per sé, indipendentemente da noi. I fatti scientifici sono il risultato di specifici criteri di produzione, sono riproducibili sotto determinate condizioni, ma non sono la verità. “La verità si trova in una sorta di flusso infinito che sfugge a qualsiasi verifica. Essa non si può produrre, così come non si può dominare”, conclude Nancy. Si può (e si deve), invece, cercare continuamente di raggiungerla, di avvicinarla. “Lungi dal trovarci in un’era di postverità, siamo in un’era che precede la verità, che va verso di essa. E forse questo appartiene a tutti i tempi, da quando esiste il tempo”.
Le parole di Jean-Luc Nancy sono tratte dalla lectio magistralis “La verità della menzogna”, tenutasi il 14 settembre 2018, a Sassuolo, in occasione del FestivalFilosofi 2018.