È possibile predeterminare il tempo dell’incontro del medico e paziente?
Direi che è difficile se non impossibile fissare il tempo a priori perché durante l’incontro entrano in gioco esigenze diverse. Se da una parte il paziente vuole raccontare il proprio vissuto e le proprie sofferenze, dall’altra il medico deve raccordare le informazioni raccolte durante il colloquio con il paziente per formulare una ipotesi diagnostica. Il tempo necessario varia quindi di volta in volta a seconda di quello che il malato vuole dire e si aspetta dal medico e da quello che il medico deve fare. Tuttavia in una situazione normale un prolungamento della visita per conciliare le esigenze di entrambe le parti diventa critico perché dietro la porta dello studio o dell’ambulatorio ci sono altri pazienti in attesa di essere visitati. E chi ci rimette principalmente è il malato. Come norma la legge 129 in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento “il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce il tempo di cura”. Il tempo di cura è anche il tempo dell’ascolto e il tempo per spiegare al proprio paziente le procedure e le terapie che si devono mettere in atto. Però oggi con una carenza di medici, spesso ai limiti della decenza, il tempo diventa tiranno.
Qualcuno pensa che ottimizzare il tempo con il malato si traduca in una maggiore efficienza. Quali sono i possibili rischi di questa efficienza?
Un possibile rischio è l’errore medico perché l’efficienza non garantisce sempre e comunque l’efficacia. Durante la visita, attraverso l’anamnesi e l’esame obiettivo, il medico deve riuscire a verificare la presenza o assenza di una patologia; va da sé che, comprimendo il tempo, gli sfuggano dei dati in realtà fondamentali e conseguentemente aumenti il rischio di errore. Il cittadino invece si sente frustrato in quanto vorrebbe esprimere le sue ansie che non sono soltanto le sue sofferenze e i suoi problemi e vorrebbe essere compreso dal medico a cui si sta affidando. Il problema per il medico è garantire l’efficacia e per il cittadino è quello di confrontarsi con un medico il più disponibile possibile che si opera per ridurre al minimo l’errore che è comunque inevitabile.
Il tempo di cura è anche il tempo dell’ascolto e il tempo per spiegare al proprio paziente le procedure e le terapie che si devono mettere in atto. Però oggi con una carenza di medici, spesso ai limiti della decenza, il tempo diventa tiranno.
Una recente indagine condotta negli Stati Uniti conclude che il medico che riesce a prolungare il tempo di colloquio e il medico meno esposto a contenziosi legali…
Assolutamente sì. Come da sempre insegnano i nostri maestri, una buona anamnesi – e quindi l’ascolto, il saper ricercare i “segni” anche dal semplice colloquio – consente quasi sempre di arrivare alla diagnosi corretta. Inoltre, l’ascolto del racconto del paziente della sua esperienza di malattia e di quali sono i suoi bisogni rappresenta spesso un momento fondamentale di condivisione che consente al medico di instaurare un rapporto umano con esso e rendere giustificabile un eventuale insuccesso. Far comprendere l’insuccesso con un ragionamento con il malato significa evitare il contenzioso.
Il tempo dell’incontro è condizionato dalla necessita di adempiere ad alcune formalità burocratiche, prima fra tutte la complicazione della cartella elettronica. Qual e il trade-off tra funzionalità di mantenere aggiornati gli archivi e la sottrazione del tempo al paziente?
Dipende molto dall’empatia e dal rapporto che si instaura con il paziente. Per il paziente può essere rassicurante sapere che i propri dati, e con essi la propria storia clinica, siano custoditi dal medico a cui si è affidato e possano costituire nel futuro un punto di riferimento anche per altri professionisti sanitari. Tuttavia, talvolta, le incombenze burocratiche diventano esasperanti e i mezzi per adempierle invece che aiutare il professionista nella relazione di cura lo ostacolano.
È inevitabile che, senza dei giusti accorgimenti, l’inserimento dei dati nella cartella elettronica possa diventare un intralcio nella comunicazione e anche un’odiosa pratica agli occhi del paziente che si vede espropriato di quel tempo di cui avrebbe bisogno e che invece gli viene negato.
Talvolta le incombenze burocratiche diventano esasperanti e i mezzi per adempierle invece che aiutare il professionista nella relazione di cura lo ostacolano.
Che cosa richiede più tempo nella raccolta dell’anamnesi?
Molto dipende dalla facilità o meno con cui il paziente si apre e racconta ciò che può essere utile al medico. Tuttavia anche la conoscenza del paziente incide sul tempo necessario alla visita. I medici di famiglia sono facilitati perché conoscono meglio di chiunque altro i propri assistiti, sono al corrente della loro storia clinica, della vita che conducono e delle loro dinamiche sia familiari che sociali; e quindi per loro è più semplice riuscire a far parlare il paziente e a tirar fuori argomenti talvolta strettamente personali ma utili ai fini dell’anamnesi. Al contrario, in un rapporto occasionale, qual è l’incontro con lo specialista all’interno dell’ospedale, le condizioni non sono altrettanto vantaggiose e necessariamente serve più tempo. Ci sono degli aspetti basilari nella comunicazione che ogni professionista sanitario dovrebbe imparare per aiutare il cittadino a raccontare la sua storia in modo completo al fine di mettere il medico nella condizione di fare la diagnosi e non da ultimo per ottimizzare il tempo a disposizione.
Un medico sotto pressione e più a rischio di burnout?
Lo è sicuramente. Oggi il disagio del medico sta toccando livelli incredibilmente alti, negli ospedali come sul territorio, soprattutto in alcuni settori quali la psichiatria e la medicina d’emergenza-urgenza. Carenza di personale, turni pressanti, carichi di lavoro sempre più gravosi ed episodi di violenza aumentano le condizioni di disagio sino ad arrivare al burnout. Ad aggravare ulteriormente la situazione sono i problemi economici che l’azienda riversa sui medici. Per esempio, per un oncologo è già fonte di disagio e stress dover scegliere se proporre al proprio paziente un farmaco innovativo molto costoso ma che può allungargli la vita di alcuni mesi e lo diventa ancor di più se ha il vincolo di non superare il budget disponibile. Come è altrettanto stressante avviare una discussione con il cittadino che gli chiede di conoscere le proprie condizioni, di sapere se la terapia funzionerà o meno, che tipo di effetti collaterali potrà avere, per poi affermare di non essere d’accordo su quanto proposto. È una discussione che richiede tempo, e da parte del medico una profonda pazienza e il rispetto del diritto della libertà di autodeterminazione. In queste condizioni il medico si sente schiacciato e defraudato del proprio ruolo. Sarebbe opportuno riflettere in quale misura il sistema costringa il professionista a stare in una gabbia, quando invece vorrebbe maggiore autonomia nei processi di cura per essere considerato il medico del cittadino e non più il medico dello stato.
Il medico vorrebbe maggiore autonomia nei processi di cura per essere considerato il medico del cittadino e non più il medico dello stato.
L’avvio della sua presidenza si è caratterizzato per diverse iniziative volte alla tutela della fi gura del medico e del suo ruolo…
Citerei due campagne che hanno creato più interesse. La prima è una campagna contro le fake news che circolano in rete finalizzata a restituire al medico il suo ruolo centrale nel rapporto con il paziente rispetto al tema salute. Per veicolare questo messaggio abbiamo scelto una campagna shock con l’immagine molto cruda della lapide: un’immagine che crea imbarazzo e repulsione ma al tempo stesso stimola un ragionamento sui pericoli spesso sottovalutati ai quali il cittadino va incontro nel momento in cui si affida a fonti non autorevoli per decidere della propria salute. Combattere le fake news significa riconoscere che una corretta interpretazione dei dati richiede una formazione di base e una competenza proprie del professionista della salute. La seconda campagna è quella sulla violenza, una iniziativa che vuole riabilitare la fi gura del medico, frequentemente messo in condizioni tali da non poter più essere considerato un vero e proprio professionista, lo squallore di alcuni sedi e di alcuni ambulatori di guardia medica gridano veramente vendetta perché non consentono quel decoro che la professione del medico come qualsiasi professione meriterebbe.
I prossimi passi?
La prossima iniziativa sarà invece sugli Stati generali della professione medica aprendo alla società la riflessione sul disagio nella pratica medica: chi è il medico di oggi e quale medico vorremmo, quali sono i condizionamenti imposti alla professione che in molti casi non garantiscono la correttezza e adeguatezza delle cure, e cosa preclude oggi un’alleanza terapeutica tra medici e cittadini fondata su un rapporto di fiducia reciproca, quali i conflitti con le altre professioni sanitarie. L’obiettivo è di fare degli Stati generali un nuovo patto di cura tra la società e i medici che definisca da una parte i diritti dei cittadini e dall’altra i diritti e i doveri del medico.