L’epidemiologia ambientale studia nelle popolazioni gli effetti sulla salute di esposizioni ad agenti fisici, chimici e biologici esterni al corpo umano, e di fattori collegati di tipo sociale, economico e culturale, recenti e remoti, come ad esempio urbanizzazione, sviluppo agricolo, produzioni industriali. Quando ci sono segnalazioni di criticità ambientali in territori specifici, da parte dei cittadini e delle loro associazioni, si chiede l’esecuzione di uno studio epidemiologico che richiede tempi lunghi. Come migliorare questa situazione?
Per rispondere alle legittime preoccupazioni, della popolazione e degli amministratori, circa la responsabilità di impianti industriali, siti per il trattamento dei rifiuti, inquinamento atmosferico e delle acque, o di altri fattori di impatto ambientale nel determinare un effetto sullo stato di salute dei residenti, l’epidemiologo ambientale è spesso chiamato a fornire “la prova” della relazione causale tra lo specifico fattore di rischio e lo stato di salute dei residenti esposti. Gli stakeholder interessati vorrebbero queste risposte “rapidamente” affinché esse supportino tempestive azioni di sanità pubblica da parte delle autorità competenti. Alle segnalazioni di supposti incrementi di malattia o di cluster in aree con (talora anche senza) fonti di esposizione ambientale accertata si vorrebbe dunque una risposta immediata e, possibilmente, una interpretazione dei dati nella direzione voluta. I tempi dello studio epidemiologico sono invece necessariamente più lunghi. L’approccio di coorte è quello ritenuto in grado di valutare in maniera più valida il nesso eziologico tra una esposizione e lo stato di salute di una popolazione esposta. Diversi studi epidemiologici nei pressi di aree industrialmente contaminate in Italia sono stati condotti con il metodo della coorte residenziale, basato sulla ricostruzione della storia anagrafica di tutti gli individui residenti, il loro successivo follow-up e la stima dei rischi di malattia e di mortalità [1-4]. Questo disegno minimizza le possibilità di distorsione tipiche dell’approccio non sperimentale dell’epidemiologia ambientale ma richiede disponibilità di risorse e tempi spesso non compatibili con la “rapidità”. In alcune situazioni potrebbero essere dunque più efficacemente utilizzate le revisioni della letteratura o gli approcci di valutazione dell’impatto che, usando funzioni di rischio derivate dalla epidemiologia, permettono di stimare il numero di decessi o malattie attese legate all’esposizione a livelli di inquinamento osservati (o presunti) in tempi rapidi.
Dover raccogliere rapidamente le prove compromette l’accuratezza della ricerca epidemiologica?
Non necessariamente. Quando in un territorio sono disponibili registri e strumenti di sorveglianza della popolazione e dello stato di salute nonché dello stato dell’ambiente, risposte accurate sul tema ambiente e salute sono possibili anche in tempi brevi. Condizione necessaria è però l’esistenza di una rete costituita dagli operatori del sistema agenziale e dei dipartimenti di sanità pubblica in grado di attivarsi tempestivamente e di lavorare in maniera sinergica.
L’epidemiologia ambientale e messa davanti a situazioni di rischio che per il ricercatore sono evidenti ma che per i politici possono essere difficili da affrontare. Come vive il ricercatore l’eccessiva lunghezza dei tempi necessari per passare dalla raccolta delle prove alle decisioni di politica sanitaria?
La questione chiave è quali e quante prove fornite dal ricercatore siano sufficienti per decidere le necessarie azioni di sanità pubblica. L’epidemiologo ambientale è consapevole del fatto che, nei contesti critici dal punto di vista dell’ambiente e della salute, ai processi decisionali concorrono molte valutazioni, scientifiche e non, compresa la percezione del rischio delle popolazioni interessate e la pressione esercitata dai media e dai gruppi di opinione. Per questo ci vuole tempo. Diverso è il caso, non così infrequente, in cui il momento della decisione viene deliberatamente posticipato, preferendo commissionare un nuovo studio epidemiologico e rimandando dunque il tempo delle decisioni alle conclusioni del nuovo studio, oppure il caso in cui ad evidenze di relazione causale tra esposizioni ed esito non consegue nessun tipo di azione.
La questione chiave è quali e quante prove fornite dal ricercatore siano sufficienti per decidere le necessarie azioni di sanità pubblica.
Come decidere quando l’incertezza dei rischi e ampia?
Bradford Hill, ragionando su “associazione osservata” e “verdetto di causalità”, considerava naturale agire, rimuovendo preventivamente i fattori di rischio, anche in assenza della prova definitiva del nesso di causalità. Le conoscenze scientifiche sono sempre incomplete e indubbiamente modificabili da ricerche successive [5]. Considerando anche che una moltitudine di differenti meccanismi può condurre alla stessa malattia, bisogna inoltre tenere conto di tutti gli aspetti della multicausalità iniziando a studiare le esposizioni complesse. In quest’ottica il principio di precauzione va rimesso al centro delle decisioni per evitare la “paralisi da analisi” nell’attesa del risultato perfetto. Tutta la produzione scientifica, sia osservazionale sia sperimentale, è incompleta e suscettibile di essere sconvolta o modificata dagli avanzamenti della conoscenza; pertanto, agire anche in caso di evidenze incerte vuol dire agire tempestivamente per prevenire danni, vuol dire non rinviare l’azione trovandosi nella condizione di chi impara lezioni tardive da allarmi precoci, vuol dire essere in grado di considerare non solo i costi dell’agire ma anche quelli del non farlo. Non vi è test di significatività che possa rispondere alla domanda se esista o meno una relazione di causalità. Non bisogna concludere che “non c’è differenza” quando invece “non c’è evidenza significativa di differenza”.
Agire dunque ma guardando avanti?
Il recente avvento della citizen science (scienza partecipata) e gli strumenti di comunicazione più moderni, quali l’utilizzo dei social network, stanno indubbiamente modificando i meccanismi della ricerca scientifica introducendo il fattore di inclusione e di partecipazione. È in corso un processo di “democratizzazione” delle conoscenze a vantaggio della popolazione. Il coinvolgimento dei cittadini in attività di ricerca è importante per realizzare un clima di fiducia della popolazione verso le istituzioni e proporre decisioni basate sulla condivisione partecipata. La sfida per i ricercatori è dunque quella di definire un percorso partecipato, caratterizzato da rigore metodologico e attenzione alle esigenze e aspettative di tutti gli stakeholder. E per questo serve il tempo necessario.
La sfida è definire un percorso partecipato, caratterizzato da rigore metodologico e attenzione alle aspettative di tutti gli stakeholder. E per questo serve il tempo necessario.
Bibliografia
[1] Mataloni F, Stafoggia M, Alessandrini E, et al. A cohort study on mortality and morbidity in the area of Taranto, Southern Italy. Epidemiol Prev 2012;36:237-52.[2] Minichilli F, Bianchi F, Ancona C, et al. Studio di coorte residenziale su mortalità e ricoveri nei comuni di Viggiano e Grumento Nova nell’ambito della VIS in Val d’Agri, Basilicata. Epidemiol Prev 2018;42:20-33.
[3] Mataloni F, Badaloni C, Golini M, et al. Morbidity and mortality of people who live close to municipal waste landfills: a multisite cohort study. Int J Epidemiol 2016;45:806-15.
[4] Ancona C, Badaloni C, Mataloni F, et al. Mortality and morbidity in a population exposed to multiple sources of air pollution: a retrospective cohort study using air dispersion models. Environ Res 2015;137C:467-74.
[5] Bradford Hill A. The environment and disease: association or causation? Proc R Soc Med 1965;58:295-300.