Come vengono prese le decisioni che riguardano la salute della popolazione e in quali tempi?
Queste decisioni devono essere basate su prove scientifiche solide e di qualità e non certo su ipotesi, opinioni o pressioni interessate. Tuttavia la razionalità decisionale si scontra spesso con la scarsità di informazioni e prove la cui raccolta (epidemiologia) e costruzione (sperimentazione clinica) richiedono tempi spesso incompatibili con quelli che decisori e istituzioni necessiterebbero. Ne consegue che spesso occorre decidere in un contesto di incertezza.
La razionalità decisionale si scontra spesso con la scarsità di informazioni e prove la cui raccolta e costruzione richiedono tempi spesso incompatibili con quelli che decisori e istituzioni necessiterebbero.
Ci può fare un esempio?
Quello dell’incertezza è un problema che caratterizza tutte le politiche pubbliche, in campo sanitario come in altri. Facciamo l’esempio delle politiche vaccinali, di cui mi sono spesso occupato. Disporre di un vaccino in grado di stimolare le difese immunitarie è solo il primo passaggio; per capire se quel vaccino sarà utile alla prevenzione e poterlo inserire nei calendari vaccinali serve prima metterlo alla prova con la malattia e sperimentarlo su intere popolazioni, e poi proseguire la sorveglianza anche “post marketing” per aumentare la probabilità di catturare eventi avversi, anche rari, che potrebbero modificarne il profilo di rischio. Ci si trova di fronte a un “paradosso della sicurezza” per cui si può affermare qualcosa di ragionevolmente sicuro solo dopo che il vaccino è già in uso e quindi solo dopo che la decisione è stata presa.
Una ragionevole incertezza che però può generare sfiducia nelle prove scientifiche, soprattutto in un ambito così importante e controverso come quello dei vaccini…
Purtroppo sì. Soprattutto in questa epoca storica in cui i cittadini sono più critici nei confronti dei decisori pubblici. Alla tradizionale incertezza oggettiva originata dalla intempestività delle prove scientifiche disponibili si aggiunge, oggi, il problema di dover rispondere a richieste irrazionali dei destinatari delle scelte; richieste che derivano da sfiducia nei confronti dei decisori e che portano a criticare le evidenze anche quando esistono. Questa crisi di autorevolezza delle istituzioni si genera, anche, per responsabilità delle istituzioni stesse: quando adottano politiche sbagliate senza poi riconoscerlo o quando assumono comportamenti contraddittori su decisioni importanti. Ricordiamo, per esempio, che ancora pochi anni fa, nel nostro paese, un tribunale aveva condannato lo stato a risarcire un soggetto affetto da autismo imputandone le responsabilità alla vaccinazione antimorbillosa nonostante le prove scientifiche disponibili escludano, da anni, ogni legame tra vaccino trivalente e autismo. Un altro esempio è lo storico caso Di Bella: qui i tribunali ordinavano alle Asl di fornire gratuitamente la multiterapia per i tumori in assenza di qualsiasi riscontro scientifico. A distanza di poco tempo arrivò la bocciatura da parte del Ministero della salute, prima, e del Consiglio superiore di sanità, poi, alla luce delle evidenze raccolte nelle sperimentazioni: i pazienti non avevano avuto alcun beneficio né terapeutico né in termini di allungamento della sopravvivenza con la multiterapia Di Bella. Questa scarsa linearità del comportamento istituzionale complica il processo decisionale e ostacola la sua comprensione da parte dei cittadini. La recente questione sull’obbligo vaccinale e il dibattito sollevato ne sono una dimostrazione.
QUANTO TEMPO DALL’IPOTESI DI RICERCA ALLE LINEE GUIDA E ALLE POLITICHE SANITARIE

Lo scorso ottobre la Commissione indipendente ad alto livello dell’Oms sulle malattie non trasmissibili ha sollecitato un’azione urgente – “time to deliver” – per affrontare le malattie croniche che richiede un impegno politico di alto livello sulle quali pero registriamo ancora enormi ritardi sia istituzionali che locali.
Contrastare le malattie croniche legate allo stile di vita richiede da un lato la presa in cura globale del malato cronico e dall’altra un atteggiamento anticipatorio. Alcune regioni italiane, quali per esempio la Lombardia, il Veneto, la Toscana, hanno già adottato il chronic care model, un modello di assistenza sviluppato negli Stati Uniti che classifica e stratifica i bisogni dei malati cronici basandosi sui loro consumi sanitari (ricoveri, diagnostica, farmaci, ecc.). Al vertice della piramide del chronic care model si trovano i soggetti più fragili che sono quelli che “consumano” di più, pertanto a maggior carico assistenziale e da trattarsi con maggior impegno. Per affrontare la sfida della cronicità servirebbe, anche, poter intervenire in anticipo, ovvero fare prevenzione per ridurre non solo l’impatto e i costi delle malattie croniche attuali ma per ridurre l’incidenza futura di queste malattie. Per fare prevenzione non basta conoscere i consumi sanitari di un malato, occorrerebbe conoscere i comportamenti a rischio dei sani: se fumano o se fanno vita sedentaria, per esempio. Questa informazione non è però normalmente disponibile nelle banche dati che usiamo per organizzare la cura dei malati cronici. Questo sarà un altro dei disallineamenti temporali con cui, probabilmente, ci troveremo a lottare nel corso dei prossimi mesi.
Una buona comunicazione può salvare il decisore da un’incertezza ineliminabile e preservarne la reputazione.
Come garantire l’affidabilità del processo decisionale?
Non c’è una soluzione tecnica univoca. Sicuramente un approccio strettamente connaturato alle decisioni sulle politiche pubbliche, ancora poco diffuso nel nostro paese, è quello del priority setting. Soprattutto in condizioni di incertezza, o di limitatezza di risorse, le decisioni andrebbero prese assumendosi la responsabilità di aver operato scelte di priorità. Priorità che andrebbero definite tenendo in considerazione anche i valori, i principi e le preferenze che una società esprime. Inoltre è fondamentale la comunicazione del rischio: i decisori dovrebbero esplicitare in modo chiaro e corretto i margini di incertezza entro i quali la decisione viene presa e anche le conseguenze di una scelta presa anticipatamente. Per esempio, si sta dibattendo di accelerare i processi di approvazione di nuovi farmaci o dispositivi diagnostici attraverso una corsia preferenziale più rapida (fast track) al fine di fornirli rapidamente ai pazienti che hanno una malattia grave. La decisione viene condizionata dalle preferenze dei singoli attori coinvolti e dalle pressioni politiche che vanno in questa direzione. Il decisore tecnico dovrebbe quantificare l’incertezza e rendere esplicito il rischio a cui ci si espone anticipando i tempi, per esempio, simulando in uno scenario decisionale le conseguenze che potrebbe avere la presenza di errori. L’unica ricetta che mi sento di sostenere è la costruzione di un rapporto di fiducia tra i decisori e i destinatari della decisione che non si raggiunge travasando le informazioni nella testa degli altri ma solo comunicando correttamente. La comunicazione, cioè la messa in comunione di idee e di valori, impone di capire anche le ragioni degli altri: le associazioni di malati quando premono per anticipare l’immissione in commercio di un farmaco avranno le loro ragioni, le aziende farmaceutiche quando dicono di accelerare il percorso di registrazione avranno le loro ragioni. È dalla comprensione e dalla esplicitazione di queste ragioni che può nascere una buona comunicazione – la sola che può salvare il decisore da un’incertezza ineliminabile e preservarne la reputazione.