Per migliorare l’efficacia dei loro gesti, per eliminare quello che era superfluo e ridondante, ci sono voluti anni di allenamento quotidiano. Sono diventati nuotatori eleganti.
Ho trascorso tanti sabati e domeniche colmi di orgoglio in un luogo caldo e umido. Circondato da genitori e fratelli di nuotatori appassionati, incitavo i miei figli, urlando a gran voce in spagnolo. Le mie grida spiccavano a tal punto che mi chiedevano di incitare anche altri bambini, e io accettavo. Nel corso degli anni, i miei “¡Vamos, vamos!” sono stati premiati dai risultati. I miei ragazzi acquisivano velocità in vasca facendo meno movimenti ma più armoniosi.
Mentre sfrecciano in piscina, i miei ragazzi provocano la giusta dose di turbolenza sulla superficie dell’acqua. Per migliorare l’efficacia dei loro gesti, per eliminare quello che era superfluo e ridondante, ci sono voluti anni di allenamento quotidiano. Sono diventati nuotatori eleganti. L’energia spesa per combattere la gravità, la resistenza, la fatica, la sofferenza (un po’ provocata anche dall’acqua gelida) e altri ostacoli fisici e psicologici è adesso incanalata nel toccare il muro per primi. La loro attenzione, non più concentrata sul lavoro di coordinazione, è rivolta verso la strategia per vincere la gara. Le cuffie calate sulle orecchie impediscono loro di sentire i suoni esterni, ma io continuo a gridare: “¡Vamos, vamos!”. E poi ecco il muro toccato, le braccia alzate, il pugno chiuso in segno di trionfo e i sorrisi sulle loro facce rivolte verso il cielo. Stringono la mano ai vicini di corsia e poi lanciano uno sguardo furtivo verso le gradinate. Lo colgo e me lo godo tutto, orgoglioso di questi nuotatori elegantissimi.
Una volta che la vedi in un luogo, la vedi ovunque. L’eleganza dell’essenziale. Sfoggiare una padronanza naturale della propria abilità, delegare con efficacia i compiti dalla coscienza alla memoria muscolare, concentrare l’energia e l’attenzione sulla sfida successiva. Un’azione accurata resa ormai possibile da efficaci automatismi eseguiti senza sprechi. L’eleganza di una pratica attenta. Prendersi il proprio tempo, più uno sforzo deliberato che un impeto forsennato, per migliorare la propria abilità.
Permettersi di rallentare per prendersi cura delle persone.
Per prendersi cura delle persone, a mio parere, i clinici devono permettersi di rallentare. Come paziente, devo sentire che quello che interessa al mio clinico sta accadendo proprio adesso, non domani, non con il prossimo paziente né con quello che se ne è appena andato. Il tempo trascorso insieme a me deve essere rallentato, soppesato attentamente, compreso. Nel cuore del nostro incontro, dobbiamo riflettere sui miei problemi di paziente, dobbiamo elaborarli, sentirli e parlarne a fondo. Sono questi i momenti che generano tutto quello che accadrà dopo: altre analisi, la richiesta di altri pareri, l’idea di prendere in considerazione altre forme di cura, una paziente attesa, la terapia. Faremo rallentare il tempo, non semplicemente per allungarlo ma per osservare a fondo la situazione. E osservarla ancora. Per indagarla e rispettarla. Senza investire in questo tempo passato insieme, ci saranno senz’altro incomprensioni e passi falsi. Guarda dove metti i piedi per non inciampare. Per fare la differenza, la cura dei pazienti deve rallentare e andare più in profondità.
L’efficienza rende l’assistenza sanitaria veloce ma non migliore.
L’assistenza sanitaria però si focalizza sul migliorare la sua efficienza, non sul rendere la cura della persona più elegante, ma solo sul fare meglio con meno. Una forte enfasi sull’efficienza ha convinto molti dei miei colleghi che un consulto senza fretta è un cimelio, non è più un ingrediente del disegno intelligente della modalità con cui le organizzazioni sanitarie erogano assistenza. Anzi, un consulto senza fretta fra i pazienti, i loro familiari e un clinico competente, attento e gentile sembra una cosa estremamente inefficiente. È vero che la medicina ha accumulato molti rituali inutili che perdurano malgrado il loro scarso valore. Mettere uno stetoscopio sul collo e sopra la carotide per sentire la presenza di rumori anomali, per esempio. Non è un procedimento abbastanza accurato per individuare o escludere ostruzioni che possano provocare ictus. D’altro canto, certi rituali – le parole, i gesti, il contatto fisico – possono dimostrare attenzione e alimentare la fiducia. Nelle mani di un clinico esperto, ascoltare, esaminare, consigliare e poi ascoltare ancora – una serie di azioni concatenate e di inazioni finalizzate senza sforzo – sono attività che si succederanno rapidamente senza sprechi e che al paziente sembrano rilassate. La cura non deve essere efficiente, deve essere elegante.
Davanti a un cronometro, i clinici responsabili della coreografia dell’incontro possono decidere di accorciare il balletto. Possono saltare certi passi, alcuni importanti. Faranno domande che prevedono come risposta un sì o un no, interromperanno le risposte dei pazienti nel giro di undici secondi, eseguiranno un esame circoscritto o lo ometteranno del tutto e proporranno un paio di “passi successivi” prima di impugnare la maniglia della porta e indicare che la visita è finita. Coinvolgere i pazienti per capire che cosa conta per loro, dare spiegazioni e lavorare per integrare la terapia nella loro quotidianità, questi gesti di eleganza e gentilezza svaniranno, sostituiti da compiti che i clinici devono portare a termine, come la documentazione (per la fattura) e la fattura. L’analisi e la riflessione su questo paziente sostituite per comodità dall’applicazione semiautomatica di algoritmi per pazienti come questo. La discussione con dei colleghi esperti sostituita dalla visita successiva. Qualsiasi traccia di pratica elegante interrotta da urgenze senza importanza, dalla richiesta di dati avanzata dal computer sulla scrivania del clinico che esige altri dati. In questo modo, l’efficienza non rende elegante l’assistenza sanitaria perché interferisce con la cura della persona. Essa è veloce, ma non migliore, con movimenti estranei che rompono, interrompono e corrompono gli incontri clinici.
L’oppressore non è l’orologio ma la mano invisibile che stabilisce la durata della visita.
In medicina, il tempo impone una certa oppressione. L’oppressore, ovviamente, non è l’orologio ma la mano invisibile che stabilisce la durata della visita concedendole un tempo arbitrariamente breve. Negli ultimi vent’anni, gli incontri clinici si sono fatti sempre più frenetici. La pressione esercitata sui clinici affinché vedano più pazienti in meno tempo impedisce altre azioni importanti: richiamare i pazienti, discutere di elementi sconcertanti del racconto di un paziente con altri colleghi, tenersi aggiornati in ambito medico, riflettere o leggere qualcosa a proposito di un passo falso o di un esito negativo. I clinici devono anche prendersi il tempo per occuparsi del loro benessere. Questi elementi essenziali vengono delegati ad altri, rimandati a un momento successivo o cancellati per sempre. Che l’apparente efficienza ottenuta “overcloccando” il medico crei in seguito sprechi è un dato che sfugge all’analisi. Che la situazione di un paziente sia stata valutata male e richieda di essere riesaminata in una nuova visita può in realtà essere considerata una cosa positiva se per contratto i medici e le aziende dell’assistenza sanitaria sono pagati in base al numero di visite. Se la situazione del paziente si è aggravata, possono essere necessarie analisi e terapie più aggressive e specialistiche. La spinta a eseguire un numero maggiore di visite più brevi può avere come conseguenza l’efficienza senza efficacia. Può anche passare per assistenza sanitaria, ma non è cura dei pazienti.
Quando le risorse sono stringate i più malati possono anche ricevere assistenza sanitaria, ma non del tipo che si occupa e si preoccupa di loro.
Questa ineleganza è risultata ovvia per molti pazienti e clinici in sistemi che non dispongono di servizi sufficienti. Il sistema, scarsamente dotato di personale e finanziamenti, in realtà si tiene a galla grazie al sacrificio personale dello staff e alla generosità dei pazienti che sopportano con buona disposizione d’animo i limitati servizi disponibili. La velocità e la mancanza di rispetto sono una costante minaccia per la dignità umana.
Al contrario, quando le risorse sono disponibili, un’amministrazione elefantiaca, una scarsa organizzazione dei servizi, l’affarismo e la corruzione sperperano queste risorse. In alcuni paesi, la battaglia ideologica sull’accesso universale all’assistenza sanitaria tramite un sistema finanziato a livello pubblico può manifestarsi come una marcata riduzione degli stanziamenti che “dimostrano” l’inadeguatezza del sistema pubblico: gli appuntamenti diventano più brevi, le liste di attesa più lunghe. Dove la mano invisibile del mercato controlla l’assistenza sanitaria, è l’estrazione di eccessivi profitti dal sistema da parte degli investitori che lo privano delle risorse necessarie per supportare una cura dei pazienti attenta e premurosa. Il violento affarismo in sistemi scarsamente finanziati segna un nuovo livello massimo di sfruttamento sui volti frustrati dei pazienti, soprattutto dei pazienti meno capaci di lamentarsi, superare le difficoltà e ottenere favori speciali. Quando le risorse sono stringate per scarsità, incompetenza, giochi politici o per la ricerca del profitto, coloro che sono “nell’ombra della vita”, per dirla con le parole di Hubert Humphrey [1], i più malati e i più umili possono anche ricevere assistenza sanitaria, ma non del tipo che si occupa e si preoccupa di loro.
Le pressioni e le interruzioni della fast medicine possono fare apparire inesperto un clinico qualsiasi, sostituendo la sua competenza nella pratica elegante con una competenza artificiale nell’assistere i pazienti. Ricevo molte telefonate da pazienti, spesso da familiari e amici, che hanno bisogno di un secondo parere. Invariabilmente, la situazione è complicata. Ma è anche frequente vedere persone su cui i potenti, costosi e dannosi strumenti della medicina sono stati utilizzati troppe volte e troppo presto. È comune anche il contrario: le persone, spesso con mezzi limitati, sono nei guai perché questi strumenti sono stati utilizzati troppo poco o troppo tardi. Queste persone sono nei guai perché l’assistenza sanitaria è stata frettolosa e negligente. Perché fornire assistenza sanitaria non equivale per il malato a essere preso in carico.
Alla Mayo clinic, quarant’anni dopo, l’eleganza la si può ancora trovare, ma si devono esplorare i margini dell’assistenza sanitaria per riuscirci.
Forse non si tratta di una minaccia nuova. Raymond Pruitt, un medico, cominciò a lavorare alla Mayo Clinic negli anni quaranta del novecento, in seguito fondò la Mayo medical school e ne divenne il primo preside. Qualche anno dopo la fine del suo mandato, Pruitt fece un importante discorso ai suoi colleghi. Parlò della Mayo clinic che aveva conosciuto quando era arrivato diversi decenni prima. Sottolineò che all’epoca i medici avevano tempo di fare consulti senza fretta, di riesaminare i casi difficili insieme ai colleghi, di dedicare tempo a conversazioni che rafforzavano l’amicizia, di riflettere e, di solito a fine settimana, di fare il punto su quello che era stato appreso e quello che rimaneva da apprendere. Molti clinici dedicavano il venerdì alla ricerca mentre i propri pazienti tornavano a casa.
Pruitt notò i cambiamenti che aveva osservato, come la Mayo clinic fosse diventata una famosa paladina del contenimento dei costi. Era preoccupato del fatto che l’istituzione potesse avere accresciuto il margine economico ma che nel farlo avesse messo a repentaglio quello che lui chiamava “il margine dell’eleganza”. Pruitt aveva visto l’accurata eleganza della Mayo Clinic – i medici che lavoravano insieme, che camminavano, che non correvano mai, i pazienti che venivano esaminati con attenzione e considerati con garbo – e si preoccupava che tutto questo andasse perduto sotto il rigore dell’amministrazione. L’anno: il 1977.
Quarant’anni dopo, l’eleganza la si può ancora trovare, ma si devono esplorare i margini dell’assistenza sanitaria per riuscirci. È quello che i miei colleghi del Centre for innovation alla Mayo clinic hanno deciso di fare nel 2010. Hanno compilato un elenco dei momenti di “profonda connessione umana” avvenuti nell’ospedale.
Mentre il medico curante e gli altri tirocinanti passavano al caso successivo, un interno ha dato una seconda occhiata e si è accorto che il paziente era turbato. È rimasto lì e si è seduto con calma accanto al letto del malato.
La figlia del paziente era arrivata da un altro stato nel tardo pomeriggio e aveva perso il colloquio con il chirurgo. La sera stessa, nel silenzio del cambio di turno della notte, il chirurgo si è fermato da lei mentre tornava a casa. “Era vestito normale, senza camice” ha ricordato la donna.
Nessun eroismo, nessuna esagerazione. Solo semplice cura della persona resa straordinaria dalla pressione esercitata da un’assistenza sanitaria di “elevato valore” che considera le piccole gentilezze un lusso.
L’assistenza sanitaria frustra continuamente qualsiasi speranza di rendere la malattia e la terapia componenti eleganti della vita di una persona.
La spinta per ottenere di più con meno non solo ha avuto effetti sull’esperienza dell’assistenza ricevuta, ma si è propagata sull’esperienza della vita con la malattia. L’assistenza sanitaria ha tolto il lavoro dai professionisti sanitari affidandolo a dei tecnici meno costosi capaci solo di eseguire una parte del lavoro, ai pazienti e ai loro familiari. I manager parlano di lavoro di squadra e attribuiscono la proprietà magica di “tenere l’attenzione di tutti incollata sulla stessa pagina” alla cartella clinica elettronica e ad altre tecnologie. Ma la lista di cose da fare su quella pagina attribuisce una quantità sempre maggiore di compiti alla squadra dei pazienti. Sono loro a dover svolgere il lavoro e a pagarne il prezzo. I pazienti devono trattare con il personale amministrativo per avere accesso alle proprie cartelle, assicurarsi che queste vengano condivise attraverso dei sistemi elettronici incompatibili e cercare di capire fatture incomprensibili e spesso scorrette. I pazienti devono promuovere la comunicazione e il coordinamento fra i medici per assicurarsi che le loro raccomandazioni siano coerenti e sicure se implementate contemporaneamente. Devono scoprire chi devono contattare per parlare di una nuova preoccupazione o per verificare e correggere una ricetta, una fattura, la richiesta di un esame o una cartella. L’assistenza sanitaria frustra continuamente qualsiasi speranza di rendere la malattia e la terapia componenti eleganti della vita di una persona.
La ricerca della massima efficienza si traduce in meno tempo per i malati.
A volte la ricerca dell’efficienza nel sistema sanitario riduce anche gli sprechi per il paziente. Un ambulatorio efficiente che rispetta gli orari significa meno tempo perso per i malati. Collocare dei servizi che i pazienti di solito utilizzano insieme l’uno accanto all’altro può migliorare la comunicazione fra loro e ridurre i tempi di spostamento per i pazienti. Alcune organizzazioni sanitarie, ThedaCare nel Winsconsin e Virginia Mason nel Washington, per esempio, si sono fatte promotrici di questa efficienza usando l’approccio “lean” adattato dal sistema di produzione della Toyota. Un’attenta valutazione del loro approccio ne mostra tuttavia i limiti: si ferma sulla soglia dell’ambulatorio. Ridurre gli sprechi per il paziente nell’auto-cura a casa o al lavoro non rientra nelle loro mappe di processo. Così, quando l’efficienza avvantaggia il paziente è più spesso il risultato di una fortunata coincidenza che di un’aderenza disciplinata dei manager dell’organizzazione sanitaria alla centralità del paziente.
Bonnie è una scrittrice e viaggia per lavoro. È anche madre di due figli e una persona con diabete di tipo 1. Come paziente esperta, ha alle spalle quasi trent’anni di esperienza con questa malattia. Viaggiare, però, con le sue regole variabili, le procedure di sicurezza contraddittorie da un aeroporto all’altro, il cambiamento di fuso orario, i pasti in momenti imprevedibili, gli scatti di corsa da fare per prendere le coincidenze e gli spazi stretti – il sedile al centro, la toilette – la pone davanti a tutte le sfide che un paziente elegante sarebbe felicissimo di evitare. Bonnie, però, ama viaggiare. Il suo lavoro, come la sua famiglia, è fondamentale per la sua realizzazione personale. Bonnie arrivò prima del necessario al controllo di sicurezza. Tirò fuori la pompa di insulina di scorta dal bagaglio a mano (per evitare il macchinario a raggi X) e avvertì l’agente che ne aveva un’altra collegata al corpo insieme al monitor di un sensore di glucosio. Per evitare gli scanner, che possono rovinare i microinfusori, chiese di essere sottoposta a perquisizione. I suoi macchinari e i suoi beni vennero controllati alla ricerca di esplosivi. Bonnie sorrise, aspettando di reagire all’inatteso. Più tardi, a trentottomila piedi da terra, nel bel mezzo di una turbolenza, con tutti i passeggeri seduti per ordine delle hostess e degli steward, i suoi livelli di glicemia si fecero persistentemente alti: il tubicino che collegava il microinfusore alla pelle dietro il braccio destro andava cambiato. Nello spazio ristretto del suo sedile, il 38A, con il foulard abilmente spiegato a mo’ di paravento, Bonnie compì gesti rapidi e precisi, sotto i vestiti, su un aereo che vibrava violentemente, e cambiò il tubicino. Durante tutto il processo, sarebbe sembrata calma, determinata, in pieno controllo della situazione. Il suo splendido sorriso un punto esclamativo perché ce l’aveva fatta a riprendersi. Perché avrebbe avuto rilevazioni della glicemia migliori. Perché sarebbe tornata sana e salva dalla sua famiglia. Perché avrebbe rifatto tutto daccapo la volta dopo.
È nel corso del tempo che emergono la qualità e il significato dell’opera. Non sprecare energia, tempo o attenzione.
Dato che le terapie per il diabete, la pressione alta, la depressione e altre malattie croniche sono permanenti devono essere intessute nella vita dei pazienti, intrecciando i fili con l’ordito della famiglia, degli amici, del lavoro, dello svago e della comunità. Questo intreccio, come le opere degli abili artigiani delle Ande, deve essere pianificato ma flessibile, e deve realizzare i temi che percorrono l’arazzo per il lungo. L’intreccio deve tenere conto delle sfumature e delle deviazioni e rispondere alle nuove sfide e opportunità che l’artigiano può avere immaginato o meno.
I pazienti con malattie croniche devono diventare maestri dell’auto-cura; devono imparare a funzionare a due velocità. Le mani muovono il telaio e i fili in modo rapido e preciso, con gesti economici ed efficienti, senza giri sprecati né mosse superflue. I motivi sul tessuto però emergono solo dopo molte ore o giorni di lavoro. Il legame fra ogni filo della trama e l’intero arazzo è difficile da cogliere se lo si guarda solo fugacemente o si è attratti solo dalle mani. Nel corso del tempo, emergono la qualità e il significato dell’opera. L’artigiano appare paziente, rilassato, elegante. Un’eleganza nata dal non sprecare energia, tempo o attenzione. Un’eleganza data dal non prendere scorciatoie, dall’essere premurosi, dal rispetto. Un’eleganza data dal fermarsi a guardare quello che si è fatto, a disfarlo e a ricominciare da capo se serve.
Il lavoro di paziente può essere una parte appagante della vita di una persona. Ci sono i piccoli trionfi quando si capisce come affrontare la giornata senza farsi sconcertare dalla fatica o dal dolore, quando si improvvisa davanti a una serie di sorprese che ci colgono alla sprovvista, quando si sembra spontanei grazie a una meticolosa programmazione, quando si prende a calci nel sedere l’incertezza e la malattia!
Fare bene questo lavoro può ridefinire la salute quando la malattia non può essere curata. È un lavoro difficile reso più difficile o più semplice dal modo in cui le organizzazioni sanitarie incoraggiano i “momenti di profonda connessione umana”, scegliendo di camminare invece di correre, impegnandosi a portare dentro l’eleganza dai margini, anche a scapito del margine economico, riuscendo a convincere pazienti e clinici a creare senza furia piani di terapia che in modo sensato e fattibile affrontano la situazione del paziente. Senza sprechi né fretta, la cura deve essere elegante.
[Testo estratto dal libro Victor Montori. Perché ci ribelliamo. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2018.]Note
[1] Politico statunitense, vicepresidente con Lindon Johnson e successivamente sconfitto da Richard Nixon nel 1968.
Riscoprire il potere della cura
Victor M. Montori è un endocrinologo molto stimato e docente di medicina presso la Mayo clinic negli Stati Uniti. In questo libro distilla le sue idee, anni di esperienza e centinaia di pubblicazioni in un saggio caratterizzato da uno sguardo sincero e molto personale sulla situazione della medicina di oggi e sul perché le cose dovrebbero cambiare. Ricorrendo a storie di pazienti e a una prosa a tratti poetica, il libro mette a nudo le lacune della medicina industrializzata.
Sebbene gran parte del libro sia centrata sul servizio sanitario negli Stati Uniti, i temi dell’avidità, della crudeltà e del peso economico saranno familiari ai medici di tutto il mondo. Concentrandoci sui pazienti e le loro storie, cogliamo attraverso i loro occhi l’impatto che un sistema sanitario come quello di molti paesi avanzati ha sulla vita di coloro che cerchiamo di aiutare, e non possiamo non restare sbigottiti e scoraggiati.
Nonostante tutto è un libro di ottimismo, di speranza e di futuro. Dopo aver illustrato i problemi che viviamo, una serie di brevi capitoli suggerisce una soluzione elegante e a portata di mano. Il sistema sanitario sembra non preoccuparsi di sé stesso, ma questo libro ci permette di vedere che, attraverso la compassione e la gentilezza degli individui, pazienti e medici possono riscoprire il potere della cura.
Il libro sfida noi e i nostri pazienti a usare le idee di Montori come una chiamata alle armi – per dare inizio a una rivoluzione per una cura attenta e gentile. Splendidamente scritto, con un messaggio elegantemente semplice e provocante, è da consigliare caldamente e, una volta letto, a passarlo a qualcun altro. Abbiamo bisogno di un cambiamento nell’assistenza sanitaria, e questa potrebbe essere la risposta.
Samuel Finnikin
British Journal of General Practice