Credo che molti medici, a volte inconsapevolmente, abbiano una sorta di loro “madeleine”. È stato all’incirca all’inizio degli anni ottanta quando l’infarto miocardico acuto si curava con nitrati endovena, antiaggreganti, un po’ di eparina e nulla più. Sapevamo che in questi casi vi era spesso una coronaria occlusa ma non avevamo ancora iniziato l’utilizzo dei farmaci trombolitici e lontana era l’epoca dell’angioplastica primaria.
Allora l’infarto miocardico acuto si consumava nel tempo e col tempo. Il tempo esprimeva l’attesa, l’attesa che il danno si delimitasse e potesse sprigionare in seguito la sua devastante potenza. Potevano essere necessarie molte ore, anche 24, forse di più. Il tempo trascorreva senza risparmiare morfina, osservando ripetutamente, a volte ossessivamente, il catetere vescicale tristemente vuoto dei malati in bassa portata circolatoria. Si esultava e si sorrideva all’apparire delle prime gocce di urina.
Il tempo trascorreva a lungo con il malato, spesso molti giorni.
In una di quelle notti di guardia, avevo “fatto il pieno”: quattro ricoveri, quattro malati con infarto del miocardio, quattro persone diverse da quelle incontrate all’inizio del turno, con cui avevo avuto un incontro di breve durata. Alle cinque del mattino, distrutto dalla stanchezza, osservavo un’infermiera muoversi ancora con disinvoltura. Le domandai: “Ma si rende conto di che vita facciamo a volte, qua dentro?”. Mi rispose sicura e serena: “Dottore, ma la vita è fuori di qui”.
Mi sorprese; era un messaggio con duplice significato. Uno di separazione, la vita professionale dentro, quella personale, quel- la “reale” fuori: due tempi da tenere distinti. L’altro, forse inconscio, di divisione più sottile fra una vita sostenuta artificialmente e una più “naturale”: anche qui tempi e modi differenti.
Passano alcuni anni, dieci/quindici, e tutto cambia. Quella coronaria occlusa, causa di danni enormi, va riaperta il prima possibile; in un primo periodo si usavano farmaci trombolitici, poi si è affermata l’angioplastica primaria. Si trasforma il linguaggio: il tempo è muscolo, il mantra del terzo millennio. Ogni trenta minuti che trascorrono con la coronaria occlusa determinano un aumento del rischio relativo di morte dell’otto per cento a distanza di un anno [1]. Quindi fare sempre più in fretta: attivare il servizio di emodinamica, se ce l’hai nel tuo reparto, o organizzare il trasferimento presso un’altra struttura, con il tempo che trascorre inesorabile nell’attesa che tutti gli attori coinvolti inizino il loro stupefacente spettacolo della coronaria che magicamente si riapre.
Poi, se tutto va bene, come nella maggior parte dei casi, il malato torna a casa dopo pochi giorni.
La tecnologia – la téchne, intesa come l’arte di saper fare, di essere padrone e disporre della propria mente [2] – ha trasformato il tempo: non più il chronos dei primi anni ottanta, il tempo circolare della natura che tutto riconduce al suo inizio. La tecnologia trasforma la malattia e il suo tempo, il paziente e il suo medico.
Il tempo adesso è kairos (καιρός), il tempo progettuale, “percorso dal desiderio e dall’intenzione dell’uomo” [3], il tempo veloce dell’opportunità, raffigurato nell’antichità come giovinetto con un ciuffo di capelli in fronte cui aggrapparsi per fermarlo e una nuca calva, perché quando è passato non può più essere ripreso.
La téchne ha trasformato il tempo: non più il chronos, il tempo circolare della natura che tutto riconduce al suo inizio.
Sono sempre meno le notti trascorse con il malato, attorno al suo letto.
Forse solo nei casi più complicati o nelle nuove realtà epidemiologiche, come lo scompenso cardiaco avanzato. Qui il tempo assume un altro aspetto ancora: il tempo della comunicazione paziente-medico, che anche una legge oggi sancisce essere tempo di cura [4]. Costruire questo tempo, nei pazienti con malattia cronica, progressiva, inguaribile, a elevata mortalità (quale lo scompenso cardiaco), significa provare ad attuare una reale e condivisa pianificazione anticipata delle cure.
Anticipare (prendere prima) quale modalità informativa del paziente circa il suo destino, le sue scelte, il suo tempo che rimane.
I tempi della comunicazione si intrecciano con i desideri del malato, della sua famiglia e del loro oblio, rendendoli sempre più complessi e sfidanti.
“I problemi connessi allo scompenso cardiaco sono strettamente collegati alle letture del tempo, il tempo del vivere come il tempo del morire” [5]. Prometeo dona agli uomini il fuoco, simbolo di abilità e di tecnica; ma insieme dona loro anche l’oblio. L’uomo dimentica che la sua vita ha una fine: “Sì, ho impedito agli uomini di vedere la loro sorte mortale… Ho posto in loro cieche speranze” [6]. I tempi della comunicazione si intreccia- no con i desideri del malato, della sua fami- glia e del loro oblio, rendendoli sempre più complessi e sfidanti. E le nostre personali “madeleine” si risveglieranno, forse, quando ci soffermeremo sul tempo dedicato al malato, sulla nostra vita e il nostro tempo trascorso al suo fianco. E su quello che di lui ci portiamo a casa ogni giorno.
E le nostre personali madeleine si risveglieranno, forse, quando ci soffermeremo sul tempo dedicato al malato, sulla nostra vita e il nostro tempo trascorso al suo fianco.
Bibliografia
[1] De Luca G, Suryapranata H, Ottervanger JP, Antman EM. Time delay to treatment and mortality in primary angioplasty for acute myocardial infarction: every minute of delay counts. Circulation 2004;109:1223-5.[2] Platone. Cratilo 414 b-c.
[3] Galimberti U. Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica. Milano: Feltrinelli Editore, 1999.
[4] Legge 22 dicembre 2017, n. 219. Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento. Gazzetta Ufficiale, 16 gennaio 2018 – Serie generale n. 12.
[5] Ricca M. Tempo di morire, tempi per vivere. Scompenso cardiaco, cure palliative e differenza culturale. In: Romanò M (a cura di). Scompenso cardiaco e cure palliative. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2018.
[6] Eschilo. Prometeo incatenato. Milano: Rizzoli Editore, 2004.