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Tempo Articoli

Cinquanta sfumature di tempo

Alla ricerca del tempo perduto guardando dentro di sé, dentro l’io spezzettato.

Alberto Beretta Anguissola

Francesista, docente e critico letterario

By Agosto 2018Luglio 30th, 2020Nessun commento

Nella letteratura il tempo ha spesso svolto un ruolo centrale, anche se non in tutti i periodi storici. Una delle differenze tra i vari classicismi e le visioni del mondo barocca o romantica o modernista sta nel fatto che per lo scrittore e per l’artista “classico” il tempo e lo spazio non modificano la sostanza della condizione umana. Questa è ritenuta sempre identica a sé stessa; mutano solo gli “accidenti”. Ma non è questa l’opinione dei “modernisti” che hanno dominato il ventesimo secolo. Nei primi decenni del novecento molti intellettuali percepirono un’“accelerazione della storia”. Daniel Halévy scrisse un libro che aveva proprio questo titolo. In effetti, chi allora visse per circa settant’anni vide mutare radicalmente, dall’infanzia alla vecchiaia, quasi tutte le abitudini di vita. Le nuove invenzioni si succedevano a ritmo incalzante, la geografia politica dei vari continenti si trasformava rapidamente. Pittura, musica e letteratura percorrevano strade inconsuete. La ricerca quasi ossessiva del “nuovo” aveva sostituito l’aspirazione alla “bellezza”. L’importanza decisiva del Tempo veniva quindi unanimemente riconosciuta. In questo senso, il tempo era  “ritrovato”.  Non  è  quindi un caso se in una delle opere letterarie più significative di quel periodo esso occupa il centro della scena. Mi riferisco al romanzo di Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto.

In un imponente (e un po’ noioso) volume, Hans Robert Jauss, il celebre inventore dell’“estetica della ricezione”, ha cercato di definire quale fosse la concezione proustiana del tempo, ma 300 pagine non gli sono bastate perché una filosofia proustiana del tempo non esiste, ce ne sono almeno una cinquantina: cinquanta sfumature di tempo. Il tempo è innanzitutto per Proust, come per Baudelaire, il Nemico. Nell’ultima poesia dei Fiori del Male, esso è equiparato a un gladiatore che immobilizza con una rete gli avversari (cioè noi stessi) per sgozzarli meglio: è “il reziario infame”. Il tempo ci trascina poco a poco verso il nulla o verso la perdita graduale delle nostre facoltà, trasformandoci quasi in vegetali o semibruti. Il romanzo di Proust, dopo circa 4000 pagine, si conclude in modo contraddittorio. Prima, grazie ad alcune memorie involontarie, c’è un’improvvisa resurrezione del passato e quindi una vittoria contro questo tempo nefasto, una sorta di pregustazione dell’eternità, al di sopra della morte. Ma subito dopo, in un vasto salone, il protagonista ritrova amici e conoscenti. Siccome, per le sue malattie, è stato per molti anni assente dal “bel mondo”, quelle persone gli appaiono irriconoscibili, tanto sono invecchiate e quasi decrepite. Le signore e signorine, un tempo bellissime, somigliano ormai a orribili streghe rugose. Su tutti i capelli, un’abbondante nevicata imbiancante. È la rivincita del tempo, ed è forse  proprio questo  l’amaro  significato  di  quel  titolo: Il Tempo ritrovato. Il protagonista si era illuso di averlo sconfitto, di averlo “perduto”, ma in queste ultime pagine se lo ritrova davanti in tutta la sua devastante onnipotenza. Ad ogni modo, sia che vinca l’eternità, sia che trionfi il nulla, nel romanzo che il protagonista alla fine progetta di scrivere i personaggi saranno descritti come esseri a quattro dimensioni. Alle tre abituali se ne aggiungerà una quarta: il Tempo, che fa salire gli uomini su trampoli sempre più alti, finché prima o poi inevitabilmente cadranno.

Una filosofia proustiana del tempo non esiste, ce ne sono almeno una cinquantina: cinquanta sfumature di tempo.

È però anche vero che, proprio grazie a quei trampoli, la statura umana cresce, diventiamo  simili  a  giganti,  collezioniamo nuove e interessanti esperienze, la nostra vita acquista più sapore, più valore. Se il tempo fosse immobile o assente, un’eterna staticità renderebbe la vita grigia, senza sale. Solo il tempo ci fa vivere successivamente varie vite. A questo punto però c’è un bivio. Tale evoluzione avviene nella continuità di un unitario flusso di coscienza, in cui sensazioni, sentimenti, emozioni si mescolano e si fondono tra loro, come in una maionese ben fatta? (È questa la concezione del tempo come “durée”, come durata, che fu illustrata dal celebre filosofo Henri Bergson). Oppure si tratta di segmenti successivi, separabili l’uno dall’altro in modo da formare una catena di “io” giustapposti ma non fusi insieme, come a suo tempo aveva ipotizzato David Hume? Proust propende per la seconda ipotesi. L’io dei suoi personaggi è discontinuo, spezzettato in sequenze esistenziali che comunicano tra loro soltanto “per sentito dire”. Ogni singolo segmento di “io” muore per lasciare il posto a un nuovo “io”: la vita è un susseguirsi di morti e reincarnazioni. Il tempo è “perduto” proprio perché il segmento successivo è staccato da quello precedente e la memoria volontaria o cosciente non è in grado di ristabilire un collegamento efficace. Ce ne offre soltanto uno scialbo surrogato, a meno che non si verifichi quello strano miracolo che Proust chiama “memoria involontaria”. Con essa il segmento passato (e perduto) irrompe con violenza affettiva dentro il presente. È merito soprattutto di Georges Poulet aver smantellato un tenace cliché del proustismo: l’idea che il romanzo sia l’applicazione del pensiero di Bergson alla letteratura. Secondo Poulet, le due concezioni del tempo interiore – quella di Proust e quella di Bergson – sono radicalmente antitetiche. Così stando le cose, è difficile poter vedere un progresso nel trascorrere del tempo e nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza e poi alla cosiddetta maturità. Lungo questo tragitto, ogni pezzettino di “io” se ne sta per conto suo e non forma una storia unitaria con gli altri pezzettini. Quindi nessuna vera formazione è possibile. Ciò vale per il tempo interiore. Ma cosa pensava Proust a proposito del tempo esteriore o, se preferite, della storia? La storia è per lui, come per Hegel, la dialettica realizzazione dello Spirito Assoluto? Oppure è, come per Marx, la conflittuale ma inevitabile evoluzione verso una società giusta? Non direi proprio. È forse allora l’inarrestabile e degradato allontanamento da una  qualche età dell’oro in una prospettiva crepuscolare di tramonto dell’Occidente? Anche questo radicale pessimismo storico è estraneo alla visione di Proust. Dobbiamo allora  pensare che per lui la storia e il tempo lascino il tempo che trovano? Aderiva egli al metastoricismo di tanti filosofi “negativi” e, in particolare, di Arthur Schopenhauer per il quale gli avvenimenti, di per sé insignificanti, formano un alfabeto che consente di leggere l’immutabile idea di uomo? Certamente in gioventù Proust è stato un tifoso del pensiero di Schopenhauer ma credo che poi se ne sia allontanato. Concludendo, come dicevo all’inizio, è impossibile dire quale fosse esattamente la concezione proustiana del tempo perché, come ogni persona veramente intelligente, egli ha sempre cercato la verità, senza mai trovarla.

Ogni singolo segmento di “io” muore per lasciare il posto a un nuovo “io”: la vita è un susseguirsi di morti e reincarnazioni.