Elena Granata: Rompere le scatole, uscire dagli schemi, Il report
Emma Dowling: Le disuguaglianze di genere e la crisi del lavoro di cura Il report
Elena Granata: Rompere le scatole, uscire dagli schemi
“Non vi racconterò che lo spazio è importante per la nostra vita. Non vi racconterò che quando ci alziamo al mattino e ci svegliamo in una stanza la prima cosa che cogliamo sono le cose che ci restituiscono la nostra identità. Non vi racconterò la relazione profonda che c’è tra l’habitat, lo spazio, e l’habitus, il carattere. Non vi parlo parlerò di tutto questo perché mi interessa raccontarvi degli spazi che ancora ci mancano”. Inizia così l’intervento di Elena Granata, professoressa di Urbanistica al Politecnico di Milano, a 8words22, la quinta riunione annuale del progetto Forward. Anche grazie alla pandemia di covid-19 abbiamo capito che siamo fatti per esperienze, per luoghi complessi, per luoghi promiscui dove ci accadono cose che non potevamo immaginare. Ma perché allora le nostre città sono ancora estremamente semplificate? “Tutti noi siamo cresciuti dentro scatole – continua Granata – attribuendo alla scuola la funzione educativa, all’ospedale la funzione della salute, al museo la funzione dell’arte, alla chiesa quella del rito religioso, come se non potessimo pensare l’organizzazione delle nostre vite se non per contenitori. Ma questi contenitori oggi ci stanno stretti e capiamo che abbiamo bisogno di rompere le scatole”. E il modo per farlo c’è, diversi esempi nel mondo lo dimostrano.
Andiamo a Tokyo. Qui è stato costruito da Takaharu Tezuka l’asilo più bello del mondo. Sul tetto, che somiglia a un grande giardino, non avendo imposto la separazione tra gli spazi i bambini corrono rendendo non necessaria l’ora di ginnastica. Nelle aule, che non essendo distinte permettono ai bambini di passare da una all’altra, ci si può anche arrampicare sugli alberi, così ci si espone moderatamente al rischio e si impara a essere cooperativi e ad aiutarsi. Gli spazi sono tutti aperti, se piove i bambini si bagnano e se c’è il sole prendono il sole, e quindi non c’è bisogno di fare educazione ambientale perché il passaggio delle stagioni lo sentono e lo vedono con i loro occhi.
Torniamo in Italia e andiamo a Volterra. Qui il carcere costruito da Armando Punzo è quello che Granata chiama un ibrido: un carcere che dovrebbe essere l’istituzione totale per eccellenza ha al suo interno una compagnia teatrale stabile da 25 anni. In questo modo le persone che vengono da fuori per vedere gli spettacoli non sanno più se sono dentro o se sono fuori. “Dentro fuori, interno esterno, appartenenza esclusione: queste sono le cose di cui dovremmo discutere nei prossimi anni”.
Infine, Copenaghen. Qui Bjarke Ingels ha costruito “Superkilen”, un parcheggio rosa e rosso acceso. Si tratta del classico spiazzo in un quartiere periferico dove ci sono conflitti e povertà, da trasformare in uno spazio di appartenenza, di arte e di bellezza. E l’intuizione geniale dell’architetto è quella di cimentarsi con qualcosa di apparentemente banale: capisce che lo spazio tra le case è quello che consente la ricomposizione delle differenze, la condivisione degli spazi, e attraverso il colore rosa e rosso che risale sulle pareti trasforma questo spazio in qualcosa d’altro. Ci sono i simboli delle varie appartenenze religiose, ci sono le comunità che possono incontrarsi anche in modo casuale e questa possibilità di incontro nello spazio pubblico ovviamente facilità le relazioni.
“Chi sono Takaharu Tezuka, Armando Punzo, Bjarke Ingels?”, conclude Granata “Sono quelli che ho chiamato placemaker. Sono i plasmatori di spazi, le persone che capiscono che dobbiamo rompere le scatole e alterare quel modello spaziale ereditato dal passato per inventare il nuovo e cambiare le vite delle persone”.
A cura di Rebecca De Fiore, Il Pensiero Scientifico Editore
Emma Dowling: Le disuguaglianze di genere e la crisi del lavoro di cura
“Le prospettive dalle quali si può intraprendere una conversazione sul genere sono tantissime; io ho scelto quella della cura perché è un ambito nel quale le donne svolgono un ruolo centrale spesso anche a titolo gratuito. Lo si è visto durante la stessa pandemia, quando si è dato per scontato che fossero in prevalenza le donne a doversi assumere la responsabilità delle cure”.
Esordisce così Emma Dowling, docente di sociologia dei cambiamenti sociali all’Università di Vienna e autrice di “The care crisis. What caused it and how can we end it?”, nel suo intervento a 8words, ricordando che mediamente nel mondo le donne dedicano al lavoro di cura non retribuito, sia esso rappresentato dal lavoro domestico, dall’accudimento dei bambini, degli anziani o di chi non è autosufficiente in famiglia, o riguardi attività svolte all’interno della propria comunità o di volontariato, un tempo tre volte superiore rispetto a quello degli uomini, con un conseguente carico mentale tutto femminile. E nonostante sia stato calcolato che il lavoro di cura non retribuito rappresenti il 9% del pil mondiale, ci rendiamo conto della sua esistenza solo quando viene a mancare, perché altrimenti risulta invisibile al pari delle donne che lo svolgono.
La penalizzazione delle donne è però evidente anche quando questo lavoro è retribuito, sottolinea Emma Dowling. Se pensiamo, per esempio, al settore sanitario, sono spesso gli uomini a ricoprire ruoli apicali mentre le donne prevalgono nelle mansioni infermieristiche, rendendo evidenti divari di genere sia legati al salario (gender pay gap) sia ai compiti svolti (gender division of tasks).
C’è poi un’altra considerazione da fare, che si interseca con quella del genere, quando si parla di lavoro di cura retribuito e riguarda il fatto che a svolgerlo sono comunque sempre persone appartenenti a classi sociali modeste, spesso immigrate di seconda generazione o che provengono direttamente da altri Paesi, e quindi più disposte, per motivi di necessità, a svolgere lavori precari e in condizioni anche molto stressanti, accettando basse retribuzioni. Questo ci porta a sottolineare un aspetto chiave del problema, quello legato al valore che si vuole assegnare al lavoro di cura. Perché se da un lato si tratta di un lavoro essenziale e in prospettiva sempre più richiesto, considerato l’invecchiamento generale della popolazione, dall’altro rappresenta un costo che la nostra società vuole tenere il più possibile basso, in questo facilitata dal fatto che è un lavoro considerato poco qualificato e svolto prevalentemente da lavoratrici con uno scarso potere contrattuale.
Si tratta di un paradosso alimentato dal fatto che il lavoro assistenziale non può essere delocalizzato, ma deve essere svolto in presenza di chi ha bisogno di cure: i paesi più ricchi importano forza lavoro dai paesi più poveri, permettendosi così non solo di retribuirla meno, ma anche di risparmiare sui costi di formazione di queste persone che in genere studiano nel Paese di provenienza. E quando emigrano per cercare condizioni di vita migliori all’estero lo fanno lasciando sguarniti i loro stessi famigliari delle cure di cui avrebbero bisogno. È un fenomeno che sia chiama global care chain, sul quale i nostri policymaker dovrebbero riflettere, sottolinea Dowling. Così come dovrebbero riflettere sul fatto che quello dell’economia della cura (care economy) è un mercato che vale, secondo uno studio condotto dalla Pivotal Ventures di Melinda French Gates, 648 miliardi di dollari, i cui costi come abbiamo visto sono però scaricati sulle spalle di chi lo svolge, ossia le donne e le fasce più deboli della popolazione.
Secondo Emma Dowling, l’unica strada che potrebbe condurci a una risoluzione di questa crisi è quella di investire in una ridistribuzione equa dell’attività di cura, in modo che tutti possano usufruirne e che chi lavora in questo settore sia soddisfatto del proprio lavoro e adeguatamente retribuito. Perché dare valore all’attività di assistenza significa fare in modo che tutti possano svolgerla nella propria vita quotidiana, prendendosi cura dei propri familiari senza essere penalizzati, e nello stesso tempo finanziare infrastrutture in grado di offrire assistenza di qualità accessibili a tutti.
A cura di Mara Losi, Il Pensiero Scientifico Editore