Michael Jerrett: Mappare l’ambiente per comprendere il rischio malattia, Il report
Nunzia Ciardi: Regole intelligenti per governare un universo complesso Il report
Michael Jerrett: Mappare l’ambiente per comprendere il rischio malattia
Come è cambiato e come cambia il modo in cui quantifichiamo, misuriamo e valutiamo l’esposizione ambientale, è il punto di partenza della relazione di Michael Jerrett – direttore del Dipartimento di scienze della salute ambientale dell’Università della California – che sottolinea come questo sia un periodo di grande fermento in questo settore, soprattutto grazie ai recenti progressi tecnologici.
Un concetto fondante è quello di “exposoma” che può essere definito come la misura di tutte le esposizioni di un individuo in una vita e di come tali esposizioni si riferiscono alla salute. Nell’exposoma convergono vari tipi di determinanti. Quelli esterni più generali (educazione, situazione sociale e finanziaria, ecc.), quelli interni (metabolismo, ormoni, morfologia corporea, attività fisica, ecc.), quelli esterni specifici (radiazioni, agenti infettivi, contaminanti chimici e così via). Lo scopo primario con queste premesse dovrebbe essere quello di identificare i fattori di rischio tra i vari determinanti per mezzo di studi epidemiologici.
Il dibattito in questo settore, in particolare sulla definizione di exposoma, è proseguito negli anni. Si va dall’exposoma visto come un processo di scoperta che si basa soprattutto sui biomarker fino a concepire l’esterno e l’interno come entrambi ugualmente necessari dal momento che, anche partendo dalla constatazione che tutte le misurazioni (interne ed esterne) sono imprecise, alcune però risultano comunque utili. Quest’ultimo approccio, secondo Jerrett, enfatizza la modalità che privilegia la prevenzione nel campo della salute pubblica. Sempre nell’ottica della salute pubblica, continua Jerrett, è necessario che ci sia un’attendibile quantificazione delle connessioni tra ambiente esterno e ambiente interno perché l’esposizione è spesso il risultato di una complessa commistione di fattori che possono implicare effetti simili sulla salute (per esempio nel caso delle classi diverse di pesticidi o in quello dell’esposizione all’inquinamento dell’aria vs. inquinamento acustico). Un primo decisivo cambiamento in questo senso è risultato dall’abbandono del cosiddetto “modello Mark Twain” di esposizione (cioè, quando si assume un uomo seduto in veranda, di fronte alla porta di casa, che si limita a respirare senza fare nient’altro per 24 ore al giorno), un modello che ovviamente dipendeva anche dalle possibilità tecnologiche di raccolta dati di un’altra era dell’epidemiologia.
Se si accetta il presupposto che bisogna misurare ogni esposizione di un individuo dal concepimento alla morte, allora una componente critica è rappresentata dalla lifeline dell’esposizione, quello che Torsten Hagerstrand chiama time geography (cioè l’esposizione vista come un viaggio attraverso “campi di rischio” nello spazio e attraverso il tempo, un’idea ripresa poi dal “prisma dello spazio/tempo” di Shaw). Quello che è importante capire delle time geographies, spiega Jerrett è che si tratta pur sempre di costrutti teorici e non di realtà empirica. Le nuove tecnologie offrono invece la prima possibilità realistica di misurazioni dirette su un grande numero di persone, e quindi l’opportunità di arrivare a “mini-geografie” di exposomi personali, utilizzabili sia negli studi epidemiologici che nella vita di tutti i giorni. E gli strumenti per raggiungere questo risultato sono rappresenti dai gps, dagli accelerometri, insomma da tutti quei device in grado di monitorare spostamenti, velocità e attività di chi li indossa. E questa visione del mondo in cui i computer sarebbero così ubiquitari da occupare ogni momento delle nostre vite quotidiane (secondo la visione di Mark Weiser dell’Ubicomp World nel 1991) si è di fatto già realizzata, constata Jerrett, con la diffusione degli smartphone nel mondo (se ne contano quasi due miliardi e mezzo) che posseggono tutte le caratteristiche utili a registrare i dati dell’esposizione delle persone in tempo reale. Esistono due modi di registrare i dati, precisa Jerrett: uno opportunistico che sfrutta proprio lo smartphone in sé con le sue capacità native (o con alcune attivabili in background) e un altro partecipativo che richiede invece la presenza di apparecchiature e sensori esterni e la partecipazione appunto dell’utente (per esempio nel caso dell’inquinamento atmosferico).
Dopo aver descritto uno studio spagnolo sul campo a Barcellona sulle capacità dei cellulari da questo punto di vista e aver descritto alcuni device con sensori costruiti ad hoc, Jerrett si sofferma sull’importanza strategica della cosiddetta citizen science: i cittadini sono estremamente sensibili alla loro esposizione ambientale, una predisposizione che garantisce una notevole motivazione a collaborare, trasformandoli in una risorsa inestimabile per la raccolta di dati in partnership con governo e università. Tra l’altro, come dimostrano alcuni casi scuola, la citizen science è spesso in grado di migliorare considerevolmente la raccolta dei dati rispetto ai soli network governativi. In questo modo aumenta anche la possibilità di avere dati sufficienti per avvertire le persone sui rischi per la salute (per esempio, nel caso dell’inquinamento atmosferico). Insomma, conclude Jerrett, si tratta di una questione cruciale. Le persone per la prima volta hanno la chiave per proteggere in proprio, con la loro partecipazione, la loro stessa salute, un capovolgimento di prospettiva che rappresenta anche uno spostamento di potere.
A cura di Alessio Malta, Il Pensiero Scientifico Editore
Nunzia Ciardi: Regole intelligenti per governare un universo complesso
“Quanto cresce internet nel mondo? Quanto è cresciuta la rete durante la pandemia?” Questi gli interrogativi con cui Nunzia Ciardi apre il suo intervento durante la quinta riunione annuale di Forward. Ciardi, che da anni si occupa di sicurezza informatica, è stata direttrice della Polizia postale e delle comunicazioni ed è attualmente vicedirettrice generale dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale, “che si occupa della resilienza cyber del Paese, mettendolo in sicurezza nella transizione digitale”.
Oggi, oltre il 120 per cento degli italiani ha in tasca uno smartphone. Nel 2009, solo il 15 per cento. Certi numeri, afferma Ciardi, danno “l’idea di un’accelerazione che ci pone di fronte a una rivoluzione vera e propria, riduttivo definirla ‘tecnologica’ o ‘culturale’, questa è stata una vera e propria rivoluzione antropologica che ha cambiato il rapporto con la realtà”. Questo sviluppo ha trasformato in pochissimi anni la società, in termini di digitalizzazione dei processi, di interconnessione tra le persone, di servizi essenziali nel cyberspazio. La digitalizzazione e la transizione digitale sono processi oramai ineludibili per competere socialmente ed economicamente sulla scena internazionale. Ma tutto questo ha un rovescio della medaglia in termini di sicurezza. I reati tradizionali si stanno azzerando, quelli informatici invece “sono aumentati con percentuali impressionanti che se fossero riferite a reati tradizionali ci farebbero tremare le vene dei polsi” avverte. Dal 2019 al 2020 gli attacchi verso infrastrutture che erogano servizi essenziali sono aumentati del 90 per cento. In particolare, si tratta di ransomware, virus che vengono inoculati nel sistema informatico e cifrano tutti i dati presenti all’interno, rendendoli indisponibili. La particolarità di questo crimine è quella di evolversi al pari della tecnologia, molto rapidamente. “Le aziende hanno imparato a proteggersi, anche se non sempre in modo appropriato”, ma non è sufficiente perché la criminalità non si limita più a criptare i dati, ma li vende a terzi, chiedendo un riscatto in cripto valute o minacciando di pubblicarli, arrecando quindi un danno notevole.
Ma il nodo da sciogliere riguarda la “mancanza di interlocutori” che la Polizia postale e delle comunicazioni, ai tempi in cui Ciardi ne era direttrice, ha riscontrato nelle infrastrutture sanitarie nel momento in cui tentava di raggiungerle prospettando il pericolo. Gli ospedali a rischio di attacco, racconta, non avevano “un referente informatico, oppure era in ferie. Non rispondevano o, peggio, chi rispondeva non capiva di cosa stessimo parlando. Eravamo disperati”. Per rendere l’idea della gravità di questa mancanza è utile sapere che “i dati sanitari costituiscono un mercato in crescita, è considerato venti volte più prezioso di quello delle carte di credito” spiega. “Ma la sicurezza del dato, che peraltro gode di una protezione particolare all’interno del nostro ordinamento, non può essere una giustificazione per non utilizzarlo, perché il dato sanitario ha un’enorme importanza per lo sviluppo di politiche sanitarie ben calibrate. Ecco perché ci servono regole per governare questo universo complesso. Un universo che ha all’interno non solo la confidenzialità, la riservatezza e la disponibilità del dato ma anche l’integrità e la correttezza, per assicurare che sia rilevato correttamente, che gli algoritmi di intelligenza artificiale vengano addestrati con dati non corrotti”. Occorre quindi un bilanciamento delicato, complesso, tra la crescita economica e sociale e il rischio di minacce. Regole sì, ma regole intelligenti, sia sulla privacy sia sulla sicurezza dei sistemi che ospitano quei dati. Ma le regole da sole non bastano, ne occorre una master: la diffusione capillare di una cultura della sicurezza informatica. L’accelerazione di cui prima non ci ha dato modo di metabolizzare il cambiamento. “Sempre meno ci appartiene quell’essere consapevoli di alcune regole fondamentali che impediscono il tracollo di alcuni sistemi. Tra i tanti compiti dell’Agenzia della cybersicurezza nazionale vi è anche questo: una diffusione capillare della sicurezza anche nel settore sanitario”.
A cura di Giada Savini, Il Pensiero Scientifico Editore