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Ripresa/Resilienza

Sir Michael Marmot, Rodolfo Saracci, Ginevra Bersani

Sir Michael Marmot e Rodolfo Saracci: Ripartire dal bene comune, Il report

Ginevra Bersani Franceschetti: Ripartire da valori e modelli nuovi, Il report

Sir Michael Marmot e Rodolfo Saracci: Ripartire dal bene comune

Rilanciare con forza i sistemi sanitari nazionali, garantendo massicci investimenti e puntando finalmente anche a prestazioni di altissima qualità, oppure arrendersi alla visione di chi teorizza una “debolezza intrinseca” della Sanità pubblica e rassegnarsi ad una collaborazione sempre più alla pari tra pubblico e privato? Mai come oggi – dopo la pandemia di covid-19 e nel pieno del Pnrr – questo dilemma strategico è centrale nell’agenda politica. E Sir Michael Marmot, professore di Epidemiologia all’University college of London e direttore dell’Ucl Institute of health equity, ha voluto mandare un videomessaggio ai partecipanti al meeting “4words – Le parole dell’innovazione in sanità” proprio per prendere una posizione netta in questo dibattito.

“Sono stato recentemente intervistato alla radio da un giornalista che mi ha chiesto del sistema sanitario britannico e allora ho risposto: «Se stai ipotizzando che il governo stia cercando di distruggere il Nhs, secondo me tutte le prove sono coerenti con quell’ipotesi. Il mancato finanziamento per aumentare i posti di lavoro vacanti, l’aumento del numero di persone in attesa di cure, la scarsa disponibilità dei medici di base, i tempi di attesa in caso di emergenza. E penso che tutto questo faccia parte di una strategia di svuotamento del settore pubblico. È il segno di una perdita di fiducia nel settore pubblico». Nel suo libro “The rise and fall of the neoliberal order”, Gary Gerstel parla sì in particolare degli Stati Uniti, ma fornisce un’analisi molto lucida di questa tendenza storica generale. In buona sostanza, dall’elezione di Franklin Delano Roosevelt nel 1933 all’arrivo di Ronald Reagan alla Casa Bianca nel 1980, le politiche statunitensi sono state essenzialmente quelle tracciate con il New Deal: ma Reagan invece ha istituito un ordine neoliberista. Ebbene, Gary Gerstel sostiene che oggi stiamo assistendo alla caduta dell’ordine neoliberista, ma esito di questo processo è anche il depotenziamento del settore pubblico. Lasciare tutto al mercato. Ci dovrebbero essere servizi privati, non servizi pubblici, questa è la linea generale”, ha spiegato Marmot.

Il professore però avverte: “Ora, tutte le prove suggeriscono che il mercato non è il modo per ottenere un’allocazione ottimale dell’assistenza sanitaria. Perché i fornitori privati di servizi dovrebbero voler affrontare casi complicati? Sono molto costosi, quindi lasciamoli stare. Sì, potrebbero esserci fornitori privati, ma i fornitori privati sono lì a scopo di lucro. Quello che vogliamo fare, direi, è invece creare le condizioni per tirare fuori il meglio dalle persone. Le persone che lavorano nel Servizio sanitario nazionale in generale sono motivate dalla spinta a fare del loro meglio. Non sono motivati dal profitto, sono motivati dal migliorare la salute delle persone che assistono”. Eppure, le scelte politiche di questi anni sembrano voler favorire l’aumento del peso del privato nell’assistenza sanitaria: “In Gran Bretagna i finanziamenti per la sanità pubblica sono stati ridotti drasticamente. E anche i finanziamenti per i principali determinanti sociali della salute sono stati attaccati. Quindi abbiamo assistito a un aumento della povertà infantile. Abbiamo avuto tagli alle amministrazioni locali e perciò subito un aumento della povertà delle persone bisognose di welfare. E tutto ciò contribuirà al peggioramento della salute e all’aumento delle disuguaglianze sanitarie nella popolazione. È tempo di riscoprire il senso e lo scopo del servizio pubblico. Ricordo la frase di John Kenneth Galbraith, che suonava più o meno «Ricchezza privata in mezzo a squallore pubblico». È ora di rovesciare questo concetto. Vogliamo un settore privato vivace, ovviamente, ma abbiamo bisogno di un settore pubblico sano e vivace. E il sistema sanitario ne è una parte importante. È tempo di riscoprire il bene pubblico. E l’importanza di un settore pubblico vivo che sia in grado in primo luogo di prendere le decisioni strategiche di cui abbiamo bisogno in quanto società complesse e in secondo luogo di fornire i servizi di cui abbiamo bisogno. La sanità e la sanità pubblica dovrebbero essere in prima linea in questa riscoperta”.

A commentare in sala le parole di Marmot è Rodolfo Saracci, ex presidente della International epidemiological association, già direttore dell’Unità di Epidemiologia analitica dell’International agency for research on cancer di Lione e direttore di ricerca in epidemiologia presso l’Istituto di fisiologia clinica del Cnr a Pisa. “Il mio amico Michael Marmot ha citato Reagan, ma secondo me la figura storica più decisiva nel processo di conversione al neoliberismo in cui siamo ancora invischiati è stata Margaret Thatcher, la quale meglio di chiunque altro ha sintetizzato un modo di vedere il mondo quando disse «There is no such thing as society». L’unica cosa che esiste sono gli individui e il legame di sangue all’interno della famiglia. Non c’è una società nella visione della Thatcher, ma solo la dinamica delle forze economiche lasciate libere di agire. Marmot delinea una parabola di caduta del neoliberismo e alla fine ci mette la rinascita del servizio sanitario pubblico, che è piuttosto secondo me un nuovo inizio”.

Saracci ha poi aggiunto: “La situazione in cui ci troviamo, con la necessità di riscoprire il bene comune, mi suggerisce due riflessioni. La prima è l’intrinseca difficoltà di questa riscoperta: considerare il bene comune più importante di quello individuale di per sé non è una garanzia, è un’impostazione ideologica che – riflette su questo anche una pièce teatrale intitolata “Good” che è in scena a Londra – era anche tipica del Terzo Reich. Il problema non è così semplice e lo è ancora meno nel momento in cui la nostra società viene da decenni di neoliberismo che hanno inciso profondamente purtroppo a livello culturale e sociale. E anche l’uscita dall’ordine neoliberista in cui lavoriamo, dove va a parare? I sistemi sanitari nazionali vengono “svuotati dall’interno” e assistiamo a un livello politico più generale non alla rinascita del pubblico, ma a una ibridazione tra neoliberismo e autocrazia abbastanza inquietante. Ormai del resto nel mondo praticamente nessun Paese è fuori dal sistema capitalistico, quindi non sentiamo più critiche al capitalismo ma genericamente “all’Occidente”. La seconda riflessione si riferisce più specificatamente al settore sanitario: la pandemia di covid-19 ci ha insegnato quanto la popolazione sia disponibile – e disponibile nel tempo – ad apportare cambiamenti anche radicali ai comportamenti. Dentro ai dati sulla pandemia ci sono molti insegnamenti, spero che nei prossimi anni venga portata avanti una profonda riflessione in merito, invece di processi su questioni che non hanno molto senso”.

A cura di David Frati, Il Pensiero Scientifico Editore

Per approfondire:
• Marmot M. La salute disuguale. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2016.
• Milanovic B. Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro. Laterza: Bari/Roma 2022.
• Carra L, Vineis P. Il capitale biologico. Le conseguenze sulla salute delle diseguaglianze sociali. Torino: Codice Edizioni, 2022.
• D’Abbiero M. Affetti privati, pubbliche virtù. La psiche come fattore politico. Roma: Castelvecchi Editore, 2020.

 


Ginevra Bersani Franceschetti: Ripartire da valori e modelli nuovi

La necessità di contribuire alla ripresa economica, culturale e sociale del nostro Paese è la premessa da cui parte Ginevra Bersani Franceschetti per approdare alla promozione di un modello totalmente nuovo di comportamento.

Il percorso compiuto enfatizza un punto di vista inedito, che parte dalla constatazione che l’immensa maggioranza dei comportamenti violenti, delinquenziali o rischiosi nella nostra società è compiuta da uomini. E questo è vero indipendentemente dalla fascia d’età, dall’origine geografica, dalla provenienza sociale, dal livello di istruzione. In qualsiasi variabile si cerchi ci sarà sempre questa proporzione: circa 80 per cento di responsabilità maschile e 20 per cento di responsabilità femminile. Secondo dati Istat, in Italia infatti gli uomini rappresentano il 93 per cento degli imputati per omicidio volontario, l’83 per cento degli autori di incidenti stradali mortali, l’87 per cento degli imputati per abuso su minore, l’87 per cento degli imputati per rissa, il 95 per cento degli imputati per associazione mafiosa, il 91 per cento per rapina e il 76 per cento per furto. Sono il 92 per cento degli evasori fiscali. L’89 per cento degli usurai. Il 93 per cento degli spacciatori. E il 96 per cento della popolazione carceraria. In poche parole le nostre istituzioni, i nostri governi, i nostri ministeri, le nostre carceri funzionano per gli uomini.

Questo non significa ovviamente, argomenta Ginevra Bersani Franceschetti, che tutti gli uomini siano delinquenti e criminali. Ma non è più accettabile che non ci si fermi a riflettere sulla portata di queste cifre. E sul fatto che, contrariamente alle idee preconcette, non c’è nulla nella biologia, nella fisiologia degli uomini che ne giustifichi la maggiore aggressività rispetto alle donne. Sono le scienze dell’educazione e le analisi sociali che ci forniscono delle risposte e ci dicono che esiste una vera e propria acculturazione dei maschi e degli uomini alla violenza, al non rispetto delle regole.
Il concetto principale al centro di questa acculturazione, al centro di questa educazione, è quello della “virilità”. Un concetto che riunisce caratteristiche di forza, di potere, sia fisico che morale, e che si esprime con comportamenti di dominio, di violenza, di discriminazione, di rifiuto, di non rispetto delle regole.

E questo a discapito della società di diritto nella quale viviamo, a discapito delle donne, a discapito anche degli stessi uomini. E il problema è che ancora oggi educhiamo i maschi a questo valore della virilità, in modo consapevole o, e soprattutto, molto più spesso inconsapevole, perché di fatto noi stessi siamo stati educati ed educate attraverso questi schemi e li trasmettiamo senza volerlo.
Sono diversi gli esempi che si possono fare: gli adulti, genitori, famiglia o in generale l’entourage di un bambino, apprezzano molto di più la forza fisica di un figlio maschio che di una figlia femmina, esprimono più raramente i propri sentimenti con il figlio maschio, che viene spinto a essere forte, dominante. Ancora oggi nei libri e nei film la stragrande maggioranza degli eroi è rappresentata da maschi; uomini che praticano violenza, spesso legittimata dal fatto di compiere atti eroici e salvifici.

E anche se questi modelli sono messi in discussione molto più di quanto non si facesse anche pochi decenni fa, la cultura espressa dalle istituzioni, dalla scuola, nelle famiglie non sta cambiando a sufficienza.

Di questa educazione alla virilità, prosegue Ginevra Bersani Franceschetti, siamo tutti vittime. Innanzitutto le donne, attraverso una violenza sistemica che fa sì che oggi in Italia muoia una donna ogni 2,5 giorni sotto i colpi del suo partner o ex partner. Ma anche gli uomini pagano un prezzo alto. A 14 anni i maschi hanno il 70 per cento di probabilità in più delle femmine di morire in un incidente. L’85 per cento dei decessi per incidenti stradali in Italia riguarda gli uomini. La maggioranza dei tumori legati alla dipendenza da tabacco e da alcol è costituita da uomini. Se prendiamo l’intera popolazione maschile è da 2 a 3 volte più probabile che gli uomini muoiano prematuramente, cioè prima dei 65 anni, per una morte evitabile, cioè legata a un comportamento a rischio.
La virilità ha quindi un costo sulla salute e sulla vita degli uomini. La spesa in euro che è sostenuta ogni anno dallo Stato e dalla società italiana per far fronte ai comportamenti antisociali degli uomini è stata definita “il costo della virilità” e non è altro che una semplicissima differenza matematica tra quello che lo Stato spende per i comportamenti antisociali degli uomini e quello che spende per i comportamenti antisociali delle donne. Non è più possibile, sottolinea Bersani Franceschetti, non considerare l’importanza della cifra che lo Stato italiano risparmierebbe se gli uomini si comportassero come le donne.

Si parla di una cifra intorno ai 98 miliardi di euro all’anno. Nello specifico abbastanza soldi per finanziare un po’ meno della metà del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Se educassimo i maschi come già educhiamo metà della popolazione avremmo la possibilità di costruire una società più ricca e più pacifica. Grazie a un’educazione non “virilista” degli uomini risparmieremmo almeno 100 miliardi di euro all’anno che potremmo investire nel sistema pensionistico, negli ospedali, nella ricerca, nella cultura in generale. Ci sarebbero cambiamenti notevoli per la vita dei cittadini, perché i livelli di delinquenza si abbasserebbero drasticamente. Stupri, furti, aggressioni verrebbero radicalmente ridotti e l’insicurezza non sarebbe più un problema. L’auspicio conclusivo di Bersani Franceschetti è che l’abbandono del modello “virilista” dell’educazione possa porre le basi di una società non solo più pacifica, ma anche più ricca.

A cura di Martina Teodoli, Il Pensiero Scientifico Editore

Per approfondire:
• Bersani G, Peytavin L. Il costo della virilità. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2023