Skip to main content

Invisibili

Ioana Cristea, Giorgio Tamburlini

Ioana Cristea: Gli zombie trial sono tra noi, Il report

Giorgio Tamburlini: I bisogni invisibili del bambino, Il report

Ioana Cristea: Gli zombie trial sono tra noi

Di zombie trial, esordisce Ioana Cristea (Dipartimento di Psicologia generale, Università di Padova), ha cominciato a parlare John Carlisle, editor in chief della rivista Anaesthesia. Per anni aveva constatato che tra le submission e gli articoli che riceveva come editor ce n’erano alcuni che sembravano avere qualche problema, con risultati che non tornavano. Nel suo primo lavoro sul tema del 2020 aveva cominciato a chiedere i dati dei pazienti individuali ma soltanto di alcuni articoli che destavano particolare sospetto. I criteri erano, ad esempio, se in passato gli autori di uno studio o autori dello stesso istituto avevano fatto ricerche con dati che si erano in seguito rivelati falsi o incoerenti rispetto al protocollo che era stato registrato o con il contenuto copiato da altri lavori dello stesso gruppo (a volte intere parti identiche), oppure con risultati troppo favorevoli. Gli studi esaminati risalivano fino al 2017, ma è dal 2019 che, da editor, Carlisle ha cominciato a richiedere anche i dati dei pazienti individuali, soprattutto nel caso dei paesi che sottomettevano più lavori, come Egitto, Cina, India, Iran, Giappone, Corea del Sud e Turchia. Nell’articolo del 2020 definiva “dati falsi” la duplicazione di figure e tabelle, la duplicazione dei dati nelle spreadsheet che riceveva, valori impossibili o calcoli non corretti. In sostanza, nella sua definizione, uno zombie trial era uno studio in cui non soltanto vengono identificati dati falsi di quel tipo, ma in quantità tale che se lo studio fosse pubblicato sarebbe poi probabilmente ritirato.

Cristea prosegue analizzando una delle più famose ritrattazioni dell’epidemiologia nutrizionale dallo studio Predimed sulla dieta mediterranea. Gli editor del New England Journal of Medicine in quel caso avevano replicato l’analisi scoprendo un problema abbastanza semplice: gli autori avevano riportato le deviazioni standard come errori standard. Una volta chiesti i dati individuali, il problema, anzi, i problemi sono apparsi decisamente più rilevanti. Ne è seguita, da parte della rivista, una cosiddetta retraction with repubblication, cioè è stato chiesto agli autori di correggere gli errori. Da questa revisione è emerso un pattern: valori di significatività statistica impossibili per le variabili di baseline. L’audit ha anche scoperto però che i partecipanti non erano stati realmente randomizzati. Nello studio si prendevano in considerazione membri della stessa casa e della stessa famiglia, un errore clamoroso che comprometteva praticamente tutta la randomizzazione. Nel complesso, gli errori, almeno quelli verificati, riguardavano il 21 per cento del campione. A questo punto non si trattava più di uno studio clinico randomizzato, quindi quei pazienti sono stati eliminati ed è stato analizzato come uno studio non randomizzato e ripubblicato con risultati molto simili.

Ci sono tanti modi di commettere la frode, riflette Cristea, e non c’è una spia universale per scoprirli in mancanza dei dati individuali. Si va dal fabbricare una parte dei dati al riutilizzarli, dal non somministrare interventi al selezionare i pazienti per convenienza (come pare sia accaduto nello studio Predimed) fino a usare male la statistica.

E quindi cosa si può fare? si chiede Cristea. Una possibilità è controllare i database di registrazione in cui persone della comunità scientifica fanno una specie di revisione post-pubblicazione. Non si può fare a meno poi di considerare quanto siano in generale plausibili i dati: incongruenze nell’articolo, testo uguale in più articoli, ecc.

Recentemente sono stati sviluppati anche dei veri e propri tool per aiutare a valutare se un articolo rientri nel novero dei casi sospetti. Si torna spesso al criterio della plausibilità, spiega Cristea.
In questa prospettiva, sempre più spesso si ascoltano interventi che chiedono che il lavoro di “correzione” della letteratura venga valutato come un vero lavoro accademico e quindi “premiato”, considerando il tempo che richiede e l’ostilità che attira da parte dei colleghi un’attività del genere.

In assenza dei dati dei pazienti individuali (tra l’altro difficili da ottenere) come si può riuscire a identificare gli zombie trial? E poi, anche in presenza di quei dati, che metodo validato usare per considerarli probabilmente falsi? E poi qual è la prevalenza di questo genere di studi e il loro impatto? Sono domande con risposte non scontate, tanto che ci sono stati ricercatori che hanno perfino messo in dubbio il punto di vista dello stesso Carlisle, visto che l’anestesia è un settore noto per il numero di ritrattazioni e potrebbe forse essere intrinsecamente più esposto di altri.

La proposta per avviare una soluzione, conclude Cristea, è un repository aperto e centralizzato di potenziali zombie trial, a cui potrebbe contribuire chiunque della comunità scientifica, ma soprattutto le persone coinvolte in metanalisi e revisioni sistematiche che devono comunque impiegare parecchio del loro tempo nel cercare di capire gli studi, caratterizzarli ed estrarne informazioni. Cristea cita tutti gli studi problematici identificati nelle review Cochrane, tutti studi catalogati con un rating di high risk bias e gli studi identificati da Papyrus come problematici. Ogni sottomissione a questo registro sarebbe accompagnata da un report realizzato, se possibile, seguendo specifiche linee guida e, una volta inserito, si chiederebbero i dati dei pazienti individuali.

Potrebbe essere d’aiuto, secondo Cristea, anche un sistema a semaforo. Sarebbero classificati come “verdi” i trial non zombie che verrebbero rimossi dal repository. In giallo andrebbero gli studi su cui c’è incertezza. E infine risulterebbero “rossi” quelli probabilmente zombie che così rimarrebbero in una risorsa centralizzata sempre consultabile.
“In questo modo cominceremmo ad avere un unico strumento che dia anche un’idea di quanto è prevalente il problema. Questo non vuol dire stigmatizzare, dire ‘sicuramente se il tuo trial è stato sottomesso c’è un problema’. Però è vero che se lavoriamo in modo separato uno dall’altro per cui io sulle mie metanalisi ho un’idea di quali siano i trial problematici, ma tu, se magari lavori su un argomento simile, non arrivi alle mie conoscenze, non possiamo pensare di risolvere il problema”, conclude Cristea.

A cura di Alessio Malta, Il Pensiero Scientifico Editore

Per approfondire:
• Ioannidis JPA. Hundreds of thousands of zombie randomised trials circulate among us. Anaesthesia 2021 Apr;76(4):444-447.
• Bero L. Stamp out fake clinical data by working together. Nature. 2022 Jan;601(7892):167.


Giorgio Tamburlini: I bisogni invisibili del bambino

“I bisogni invisibili sono quelli della mente e dello sviluppo, soprattutto nei primi anni”. Apre così il suo intervento a “4words – Le parole dell’innovazione in sanità” Giorgio Tamburlini, medico pediatra e presidente del Centro per la salute del bambino (Csb) onlus che promuove in Italia i programmi “Nati per leggere” e “Nati per la musica”. E sebbene il problema della sopravvivenza e della prevenzione della mortalità infantile sia di assoluta importanza, “non basta sopravvivere, bisogna vivere possibilmente nella piena potenzialità dei propri mezzi”.

I bambini devono tornare a essere una priorità per la nostra società, essi “hanno tutto il diritto di essere rimessi ‘in testa’… Il primo, fondamentale, passo per ottenere questo è che ‘in testa’ ai genitori vi sia, accanto alla preoccupazione di proteggere l’integrità fisica e la salute dei loro figli, il desiderio di nutrire la loro mente e di dare spazio al loro grande potenziale di sviluppo”, dichiara Tamburlini.

D’altronde i dati a livello globale sulle conseguenze di un sottoutilizzo del proprio potenziale biologico di sviluppo sono drammatici, con una quota che supera in alcuni casi il 50 per cento di bambini coinvolti, i quali manifestano ritardi in una o più competenze.

In particolare ciò avviene nei Paesi poveri dove le risorse sono poche e di conseguenza lo sono le possibilità. Ma anche in Italia un sano sviluppo psichico e il benessere mentale dei più giovani sono motivo di seria preoccupazione. Basti guardare ai dati sulla prevalenza di problemi di natura psicopatologica in bambini e adolescenti sia nel periodo prepandemico (18,6 per cento), sia – drammaticamente peggiori – durante e nel post-pandemia (dal 30 al 100 per cento di aumento): dai disturbi del comportamento alimentare al ritiro sociale, dai tentativi suicidari al suicidio agito, i giovani manifestano una sofferenza che va ben al di là della salute e dell’integrità fisiche.

I primi 1000 giorni – ci dice Tamburlini – rappresentano un periodo cruciale per lo sviluppo del potenziale di ciascun bambino, poiché è in questa fase che i neuroni entrano in contatto gli uni con gli altri creando le sinapsi che a loro volta generano le reti neurali, ossia “l’architettura neurobiologica su cui poggiano e si sviluppano le nostre competenze”. Lo sviluppo di queste reti viene ostacolato se il bambino è privato di apporti essenziali – la nutrizione come pure le interazioni significative – e/o viene esposto a “stress tossico”, in particolare, appunto, nei primi anni di vita. Accanto a una giusta alimentazione, alle proteine, ai grassi e ai nutrienti, però, è parimenti indispensabile quel nutrimento fatto di stimolo relazionale e di interazione.

Un’indagine di Save the Children, del 2019 (Indagine Idela) [1], ha utilizzato uno strumento internazionale, un indice di sviluppo generale, che misura le competenze motorie e cognitive classiche, dimostrando chiaramente che i livelli di competenza in bambini di 36-54 mesi, in tutti gli ambiti, sono – sì – in relazione con alcuni determinanti sociali noti, quali il livello di istruzione e l’occupazione dei genitori o la frequenza al nido, ma anche con altri fattori come la pratica della lettura precoce in famiglia. Questo ci dice molto sul fatto che attitudini, abitudini e comportamenti in famiglia hanno fortemente a che fare con lo sviluppo. Che il rapporto tra povertà e sviluppo sia mediato dai comportamenti genitoriali è una buona notizia, sottolinea il presidente del Csb, poiché comportamenti “sono aggredibili più di quanto non lo sia la povertà che richiede ovviamente tempi più lunghi” di attenuazione e risoluzione. Ci sono pertanto margine e spazio per un intervento che agisca sull’ambiente familiare che è per il bambino, né più né meno, “sempre un ambiente di apprendimento”, il luogo privilegiato di quell’interazione precoce che modella lo sviluppo.

E cosa accade quando manca questa interazione? “Se il potenziale biologico del bambino è intatto, comporta un ritardo di sviluppo più globale” prosegue Tamburlini, “se invece il potenziale è già compromesso, tale mancanza agisce come comorbilità, aggravando la situazione e facendo emergere quei problemi che non sono determinati dalla biologia ma dall’ambiente”.
Purtroppo tutt’oggi sono molti i genitori che ancora non hanno le conoscenze e le competenze giuste per capire quali siano i bisogni di una mente in via di sviluppo e che pertanto non sanno come rispondere a bisogni prioritari che rimangono disattesi.

È del 2018 un documento fondamentale prodotto dall’Organizzazione mondiale della sanità, Unicef, Banca mondiale e altre associazioni [2] e tradotto in italiano dal Csb. In esso si esplicita come i pilastri di uno sviluppo infantile precoce non siano solo quelli tradizionali (salute, nutrizione, educazione precoce, sicurezza), ma anche la genitorialità responsiva sulla quale è necessario lavorare e investire.

Ci sono diverse buone pratiche per lo sviluppo che rappresentano vettori di genitorialità responsiva: il canto, la parola e il massaggio prenatale e postnatale, le condizioni del parto facilitanti il bonding, l’allattamento al seno e l’alimentazione responsiva, la lettura, l’esperienza sonora e il gioco condivisi, la frequenza precoce al nido e un utilizzo appropriato dei device digitali.

La genitoralità responsiva va imparata e supportata attraverso interventi che riescano ad accompagnare i neogenitori in questo compito specifico, interventi che devono prima di tutto “coinvolgere attivamente i genitori ai quali non servono le prediche, ma serve la pratica, serve imparare facendo, mettersi sul tappetino assieme ai propri figli, impegnandosi in attività di qualità come il gioco, la lettura, ecc.” afferma ancora Tamburlini. Si tratta di investire con decisione in un “sistema 0-6” anni attraverso un insieme di interventi articolati e specifici.

“Potremmo avere un mondo significativamente migliore se solo si sapesse tradurre in azioni concrete quanto decenni di ricerca in varie e diverse discipline – dalle neuroscienze alla psicologia dell’età evolutiva, dall’economia dello sviluppo alle scienze sociali – ci hanno fatto comprendere sullo sviluppo del bambino nei primi anni, sui fattori che lo influenzano e in particolare sul ruolo svolto dall’ambiente familiare”. È un processo che ha bisogno dell’impegno di tutti: legislatori, amministratori, operatori dei servizi che si prendono cura dei bambini e delle loro famiglie, docenti a cui è affidata la loro formazione, enti del terzo settore impegnati sui temi dell’infanzia, aziende che hanno a cuore le comunità e i loro giovani dipendenti. Perché bambine e bambini tutti abbiano “le migliori opportunità per partire bene nella vita”.

Bibliografia
[1] Save the children. Il miglior inizio. Disuguaglianze e opportunità nei primi anni di vita.
[2] World Health Organization, United Nations Children’s Fund, World Bank Group. Nurturing care for early childhood development: a framework for helping children survive and thrive to transform health and human potential. Geneva: World Health, 2018. Versione italiana a cura del Centro per la salute del bambino.

A cura di Manuela Baroncini, Il Pensiero Scientifico Editore

Per approfondire:
• Tamburlini G. I bambini in testa. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2023 (in corso di pubblicazione)
• Tamburlini, G. Interventi precoci per lo sviluppo del bambino: razionale, evidenze, buone pratiche. Medico e bambino 33 (2014): 232-239.