Paola Mercogliano: Tutto come previsto, è l’ora di consapevolezza e mitigazione, Il report
Paolo Vineis: Investire nel futuro, l’ambiente viene prima del profitto, Il report
Paola Mercogliano: Tutto come previsto, è l’ora di consapevolezza e mitigazione
Sembrerà contraddittorio, ma non è chi si occupa di clima a dover parlare di cambiamento climatico. “Il cambiamento climatico è un problema che dovrebbero affrontare i sociologi” dal momento che è l’aspetto comunicativo quello più rilevante, “noi climatologi abbiamo fatto tanto, non siamo in grado di raccontare la crisi che stiamo vivendo”. È con questo appello che si apre la sessione sul clima del sesto appuntamento annuale del progetto Forward – “4words – Le parole dell’innovazione in sanità” – affidata a Paola Mercogliano, responsabile della divisione di ricerca Rehmi (Modelli regionali e impatti geo-idrologici) della Fondazione Cmcc, e membro del Consiglio della Società italiana di climatologia. Due i punti chiave su cui Mercogliano si sofferma: il cambiamento climatico è un fenomeno globale ma non è uguale per tutti. Oggi, infatti, è diverso a seconda della zona che si osserva. Per esempio, il Mediterraneo rappresenta un’area particolarmente colpita: si sta riscaldando più velocemente rispetto al resto del mondo, l’innalzamento del livello del mare sta dando luogo a fenomeni estremi, si stanno verificando con sempre maggior frequenza cicloni simil-tropicali, i cosiddetti medicane (mediterranean hurricane). Ma cosa significa nella vita di tutti i giorni? Quale è l’impatto del cambiamento climatico su città come Milano, Roma o Palermo? Quale, invece, quello sulle infrastrutture su scala locale? Per rispondere occorre far riferimento a “una scienza nuova che fa passi da gigante e ci permette di cambiare un po’ la narrazione del cambiamento climatico”. Una narrazione diversa che ne parli non attraverso le temperature o le precipitazioni, ma attraverso l’agricoltura, le infrastrutture, il turismo sulle Alpi, le alluvioni o la siccità. Insomma, attraverso gli impatti. Analizzando questi scenari – realizzati per ipotizzare come potrebbe evolvere la nostra società in termini di crescita demografica, utilizzo del suolo o dell’energia – è possibile valutare quanto le nostre abitudini contribuiscano ad emettere gas climalteranti nell’atmosfera. Sulla base di questi modelli riusciamo a ipotizzare come cambierà il clima. Pertanto, “sta a noi decidere quali di questi scenari potremmo adottare”. La buona notizia quindi, afferma la climatologa, “è che siamo ancora in tempo”. La cattiva è che occorre tenere in considerazione una certa inerzia del sistema, quindi anche se, ipoteticamente, da domani mattina iniziassimo a non emettere più gas in atmosfera gli scenari non cambierebbero almeno per i prossimi vent’anni.
“Stiamo andando incontro a un aumento generalizzato delle ondate di calore, del pericolo incendi soprattutto sulle Alpi e sugli Appennini, un incremento del numero di episodi di siccità” e su questo forse la realtà sta andando più veloce delle previsioni. “Due settimane fa parlai di siccità a Faenza” prosegue la climatologa, “e il giorno dopo ci fu un’alluvione”. Ebbene, “queste dinamiche opposte fanno parte del cambiamento climatico perché il fatto che la temperatura sia più elevata fa sì che l’atmosfera abbia una maggior capacità di immagazzinare umidità, questo provoca un cambiamento nel regime di pioggia, come periodi molto prolungati di siccità. Quando arriva una perturbazione, la quantità di acqua precipitabile è maggiore ed è così che si verificano eventi così impattanti. Queste dinamiche alternate, soprattutto sul nord Italia, non solo sono molto frequenti ma aumenteranno”. Un altro fenomeno atteso, oltre all’aumento del livello del mare, è quello delle mareggiate estreme soprattutto nell’alto Adriatico, nel Mar Ligure e nell’alto Tirreno, mettendo ovviamente a rischio tutte le infrastrutture costiere.
Gli impatti sono sotto gli occhi di tutti: ridotta disponibilità d’acqua, aumento della siccità, perdita di biodiversità, incendi boschivi in aumento, turismo ridotto, aumento degli effetti sulla salute delle ondate di calore, riduzione dell’energia idroelettrica e delle aree agricole, espansione degli habitat per i vettori di malattie. Sulla base delle analisi fatte gli impatti maggiori si avranno sulle infrastrutture, “perché non siamo pronti a gestire il clima che cambia e non lo saremo neanche dopo gli interventi previsti dal Pnrr, perché i costi per mettere in sicurezza tutte le infrastrutture, come dighe o aeroporti, sono eccessivamente elevati”. Non per ultimo, il cambiamento climatico andrà a incidere sull’aumento delle diseguaglianze, fra chi può rispondere e chi non può rispondere all’emergenza. “È vero che il clima, come detto prima, è diverso a seconda della città che noi consideriamo, ma è vero anche che il cambiamento climatico si modula tantissimo sulla vulnerabilità. Infatti le misure che vengono intraprese per ridurre l’impatto del cambiamento climatico, in realtà, non vengono decise sulla base di quanto cambiano le precipitazioni o le temperature, ma sulla base dell’effetto che quel cambiamento provoca su quella popolazione su quella zona, modulandola sulla sua vulnerabilità, cioè sulla sua propensione a reagire in maniera negativa a quel cambiamento. Il cambiamento climatico è un fatto, altro fatto è che ci sono zone d’Italia che hanno una vulnerabilità maggiore rispetto ad altre. Su questo sicuramente si può lavorare cercando di ridurre il rischio”. E, come nell’incipit del suo intervento, Mercogliano si rivolge al pubblico con un appello: “Abbiamo fatto un grandissimo passo in avanti ma adesso bisogna passare all’azione e questo coinvolge tutti, giornalisti, scienziati, medici, veterinari, economisti, chi legifera, mi sento di dire che nessuno si può chiamare fuori da questa problematica e quindi vi invito all’azione”.
A cura di Giada Savini, Il Pensiero Scientifico Editore
Per approfondire:
• Fondazione Cmcc. Analisi del rischio. I cambiamenti climatici in sei città italiane. 2021.
• Fondazione Cmcc. Analisi del rischio. I cambiamenti climatici in Italia. 2020.
Paolo Vineis: Investire nel futuro, l’ambiente viene prima del profitto
L’Antropocene, come ormai si tende a chiamare la nostra epoca, ha visto registrare molti importanti passi in avanti per l’umanità, ma il risvolto della medaglia è che i ragguardevoli traguardi raggiunti hanno comportato una compromissione dell’ambiente. È possibile frenare lo sfruttamento incontrollato delle risorse e governare in modo più virtuoso il cambiamento? Ne parla in conclusione del meeting “4words – Le parole dell’innovazione in sanità” Paolo Vines, che insegna epidemiologia ambientale all’Imperial college di Londra e fa parte del comitato scientifico della Regenerative society foundation.
“Finora, con un certo ottimismo, abbiamo assistito a un miglioramento di molti degli indicatori sanitari, a un aumento della speranza di vita e una diminuzione della povertà a livello globale, con poche eccezioni nel pianeta. Purtroppo, però, il raggiungimento di questi obiettivi sembra essersi verificato producendo fenomeni negativi quali il cambiamento climatico, l’aumento del livello del mare, la progressiva scomparsa delle specie, che hanno implicazioni profonde per la salute umana. Se è vero che già ora si stanno patendo gli effetti di questi fenomeni, è ovvio che tali effetti saranno moltiplicati per le generazioni future” esordisce Vineis, che prosegue affrontando in rapida successione i temi su cui appuntare l’attenzione per cercare di investire nel futuro.
“Il primo drammatico fenomeno è stata la perdita di biodiversità: anche se molte delle stime, come per il cambiamento climatico, sono affette da incertezze, si parla di una perdita del 70 per cento dell’indice di biodiversità tra il 1970 e il 2018. Al di là delle cifre, è innegabile che si tratti di un fenomeno con importanti ricadute a livelli molto diversi: per esempio riguarda anche il microbioma, che ha un effetto diretto sulla salute umana”. E prosegue: “Altro fenomeno ben conosciuto è quello della deforestazione, con relativa urbanizzazione e costruzione di strade: la progressiva intrusione della specie umana all’interno della cosiddetta ‘wilderness’. Qualcuno ha coniato un’espressione efficace e cioè che la specie umana è l’unica che ha fatto dell’intero pianeta la propria nicchia ecologica. Con una certa irresponsabilità, aggiungerei, perché si ha una perdita di specie non solo in assoluto, ma anche in termini relativi. Per esempio, nelle foreste pluviali soggette a deforestazione sopravvivono soprattutto i roditori di piccola taglia e spariscono più facilmente le specie di taglia più grande. E le specie più resilienti, appunto i roditori e i famigerati pipistrelli, sono anche quelle che trasmettono più facilmente malattie infettive. Altro fenomeno è quello della migrazione delle specie: venendo meno il loro habitat, alcune specie migrano altrove e si verificano commistioni impreviste. E questo porta a uno scambio di agenti patogeni, fondamentalmente virus”.
A proposito delle commistioni tra specie che non avevano mai interagito prima, Vineis sottolinea: “Anche i commerci internazionali legati all’utilizzo delle risorse dei Paesi a basso reddito lasciano un’impronta sotto forma di ‘importazione’ di zoonosi che sono endemiche nei Paesi poveri o in via di sviluppo, anche se questo non è l’unico impatto. Una curiosità: gli scambi di agenti infettivi tra specie animali si verificano anche al Polo Nord, dove lo scioglimento dei ghiacci provoca una migrazione delle foche che vengono a contatto con le lontre e trasmettono loro il virus del cimurro. Non è un virus che si trasmette all’uomo, però dà un’idea degli scambi che si possono verificare tra specie”. Non è invece una curiosità, afferma Vineis, l’impatto della perdita degli impollinatori sulla salute umana: “È difficile stabilire una gerarchia tra i problemi emergenti, ma questo è sicuramente molto grave e, se si verifica in modo radicale, può avere un impatto sulla nostra stessa sopravvivenza”.
Altro problema rilevante è la diffusione di funghi come la Candida a causa dell’utilizzo in agricoltura di fungicidi che hanno la stessa struttura chimica di antibiotici, con la conseguente comparsa di antibiotico-resistenza. E a proposito di fungicidi, antibiotici e sostanze usate in agricoltura, Vineis mostra un grafico elaborato da un gruppo di autori di Rochester che si occupano di salute planetaria, che fa vedere come negli ultimi decenni sia aumentata esponenzialmente l’immissione di sostanze chimiche nell’atmosfera e nell’ambiente. Molte di queste sostanze sono ben note, come il benzene e il toluene, ma assai rilevante è anche l’impatto delle plastiche. “Il punto che sollevano in particolare gli autori” commenta Vineis “è il fatto che con gli strumenti a nostra disposizione, per esempio legislativi, non riusciamo a valutare il rischio tossicologico di queste sostanze chimiche, quindi dobbiamo escogitare nuovi sistemi per capire che impatto abbiano sulla salute e sull’ambiente. Per quanto riguarda il cambiamento climatico in Italia, non possiamo poi trascurare il caso della siccità, che mostra come siamo ancora terribilmente indietro dal punto di vista politico. Alcune stime pubblicate su Epidemiologia & Prevenzione dicono che, sulla base dell’attuale velocità, ci vorranno 79 anni per decarbonizzare l’intero sistema: questo è chiaramente inaccettabile. E sempre a proposito di compromessi tra obiettivi divergenti, la popolazione mondiale è in continuo aumento, cosa che porta alla necessità di produrre più cibo. Questo può avvenire o estendendo i terreni destinati all’agricoltura o attraverso un aumento della produttività dell’agricoltura. Allo stesso tempo, però, bisogna orientarsi verso un’agricoltura più rispettosa dei suoli, organica o rigenerativa. Ma l’agricoltura organica ha una produttività inferiore rispetto a quella convenzionale, inoltre l’estensione dei terreni agricoli va a scapito della biodiversità. Eccoci di nuovo a dover conciliare delle situazioni conflittuali cercando di far fronte a problemi complessi. E francamente, al momento, non vedo grandi soluzioni”.
Vineis passa poi ad alcune riflessioni conclusive, proponendo un lessico per una nuova politica ambientale: “Ho già detto che l’uomo ha colonizzato l’intero pianeta, raggiungendo peraltro dei risultati positivi, tuttavia questo è stato fatto in un modo che è stato definito ‘delle dipendenze’. Ogni nuova tecnologia, infatti, genera a valle delle necessità. Basti pensare allo sviluppo delle automobili, che ha generato cementificazione, costruzione di strade e autostrade, tutto un indotto da cui tornare indietro è estremamente difficile. Questo viene chiamato degli specialisti path-dependence, dipendiamo cioè da un percorso che è stato caratterizzato in un certo modo e in una certa direzione. Si tratta di un’enorme ipoteca della tecnologia, quindi cambiare per mitigare il cambiamento climatico non è facile. Un altro concetto che vorrei proporre è che non c’è sostenibilità senza rigenerazione. Cosa vuol dire? Si parla molto di sostenibilità, però siamo arrivati a un punto in cui nel mese di luglio abbiamo esaurito tutte le risorse dell’anno. In qualche modo dobbiamo pensare a ricrearle, altrimenti nell’arco di qualche anno o decennio saranno esaurite. Questa è un’enorme responsabilità che abbiamo verso le future generazioni e parlare di sostenibilità non è sufficiente. Bisogna affrontare anche l’argomento della sostenibilità della rigenerazione, cioè di come ricreare le risorse che sono state depauperate. Non possiamo tornare all’Olocene, dobbiamo fare qualcosa all’interno dell’Antropocene, qualcosa che sia di tipo rigenerativo”.
E qui entra in gioco il ruolo della finanza e delle imprese: “Naturalmente le imprese sono quelle che producono la maggior parte del reddito, ma al tempo stesso sono largamente responsabili della situazione ambientale attuale. Finora sono stati introdotti meccanismi finanziari insufficienti. Le banche propongono dei fondi chiamati Esg, sigla che sta per environment, social, governance. Si tratta di fondi di investimento in attività che abbiano un impatto non troppo negativo sull’ambiente e dal punto di vista sociale. In realtà sono del tutto inattendibili. L’Economist ha dedicato un approfondimento a questo problema intitolandolo: ‘C’è bisogno di pulizia’. Perché questi investimenti sostenibili non funzionano? Perché i rating degli investimenti dei bond sono effettuati da aziende private su dati forniti dai produttori sui quali non c’è il minimo controllo. Ci sono però delle alternative. Sono in studio nuove modalità di valutazione dei fondi di investimento come il “long-term stock exchange”, che misura la redditività non in termini di ore o giorni ma di anni e si assume quindi un impegno a lungo termine anche relativamente all’impatto ambientale. Inoltre, c’è una crescita di quelle che si chiamano B-Corp: imprese che hanno nel loro statuto clausole che prevedono di mettere il profitto al secondo posto dopo il rispetto dell’ambiente. E poi la grande novità attuale è quella della Commissione europea, che ha introdotto la Corporate sustainability reporting directive, una direttiva che impone alle aziende di notificare in modo molto analitico l’impatto ambientale di ciò che producono e che include la natura come ‘silent stakeholder’. In sostanza, si dovranno valutare non soltanto la bontà finanziaria di un’azienda e la credibilità dei suoi conti, ma anche i suoi impatti ambientali. Vedremo se e come funzionerà. Anche se abbiamo sbagliato, forse c’è ancora qualche speranza” conclude Vineis.
A cura di Bianca Maria Sagone, Il Pensiero Scientifico Editore
Per approfondire:
• Vineis P. Crisi climatica, comunicazione, finanza. Recenti Prog Med 2023;Suppl Forward28;S9.
• Vineis P, Savarino L. La salute del mondo. Milano: Feltrinelli, 2021