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Network/Reti

Harald Schmidt, Paola Velardi, Lorenzo Farina, Sebastiano Filetti

Harald Schmidt: The end of medicine, as we know [Leggi la versione in inglese]
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Paola Velardi: Fenotipi sociali, studiare le reti per capire la malattia [Leggi la versione in inglese] Il report | Il video

Lorenzo Farina e Sebastiano Filetti: Guardare al futuro lavorando in rete [Leggi la versione in inglese] Il report

Harald Schmidt: The end of medicine, as we know

“A volte abbiamo bisogno di momenti di crisi per stimolare l’innovazione”. Esordisce così Harald Schmidt – direttore del Department of pharmachology and personalised medicine della University of Maastricht e capofila dei big data applicati alla network medicine – constatando la situazione di profonda trasformazione della medicina attuale. Secondo Schmidt, il problema fondamentale oggi è che la scienza medica segue uno schema piuttosto ripetitivo, che non consente di identificare i meccanismi delle malattie e quindi di capirle e prevenirle. C’è un momento in cui la malattia inizia, ma bisogna comunque aspettare finché si presentano i sintomi. A quel punto la malattia viene definita sulla base dei sintomi con cui si manifesta. Soltanto alla fine si cominciano a trattare quei sintomi, sperando che questo serva al paziente.
Il senso comune è portato a respingere questa visione pessimistica della medicina. In fondo la vulgata vuole che dall’inizio del novecento ad oggi la mortalità si sia enormemente ridotta. Ma guardando con più attenzione ai dati e considerando separatamente la componente delle malattie infettive (su cui hanno agito positivamente le vaccinazioni, l’igiene e gli antibiotici), non si sono verificati miglioramenti nella mortalità. I dati ci dicono che i farmaci esistenti mancano di precisione: sono in grado di agire in senso positivo sulla patologia di alcuni pazienti, ma rispetto ad altri non ottengono alcun risultato se non i cosiddetti effetti avversi. E oggi non siamo in grado di sapere in anticipo quali sono i pazienti che risponderanno a un determinato farmaco e quali no: è necessario trattarne una quantità davvero elevata per molti anni perché un numero esiguo di persone possa avere davvero benefici da una terapia.
Tra gli anni ottanta e novanta abbiamo assistito a un’esplosione del costo dei farmaci, ma, a dispetto di questo incremento, i risultati ottenuti sono sostanzialmente gli stessi, mostrando un evidente problema di efficacia dell’intera industria farmaceutica, commenta senza appello Schmidt. Eppure, sorprendentemente, non si tratta di un fenomeno recente. Già dagli anni cinquanta si assiste a un costante declino dell’efficacia. Una tendenza che, se continuerà a protrarsi, potrebbe rendere non sostenibile il costo dell’industria farmaceutica entro il prossimo decennio. Ma perché i farmaci falliscono, si chiede Schmidt. Un tempo perché potevano esserci troppi effetti collaterali, perché il farmaco veniva metabolizzato o eliminato troppo presto o per le interazioni con altri farmaci. Oggi, invece, la ragione principale è rappresentata dalla mancanza di efficacia, cioè dal fatto che il farmaco non si rivela in grado di fare quello che le ricerche precedenti avevano suggerito. Di solito, quando ci si riferisce alla ricerca, si considerano i vari passaggi conseguenziali che sottende: dalla ricerca scientifica di base alla fase preclinica, a quella clinica con i trial, fino a ottenere gli eventuali benefici per i pazienti. Ma oggi, constata Schmidt, questa linea è totalmente rotta. I ricercatori producono pubblicazioni, idealmente sulle riviste più importanti, per attrarre fondi con lo scopo di produrre nuove pubblicazioni. Nessuna ricerca in questo ambito viene valutata sulla base dei benefici per i pazienti. È un meccanismo che si autoriproduce, totalmente autoreferenziale, e quindi la ricerca clinica di fatto non avviene perché nella stragrande maggioranza dei casi risponde a logiche che non dipendono dai risultati di salute.
Altro dato allarmante, rileva en passant Schmidt, è che oltre il 50 per cento degli studi nel settore biomedico non è riproducibile e viene prodotto soltanto con l’obiettivo di pubblicare un articolo. Ma il fenomeno più grave che affligge la ricerca biomedica è il publication bias: è più interessante per una rivista pubblicare un articolo che conferma l’efficacia di un farmaco per una determinata patologia piuttosto che uno che presenta dei risultati negativi. Schmidt torna poi per un attimo al problema citato all’inizio della sua relazione, cioè il modo in cui definiamo le malattie. L’iperspecializzazione della medicina contemporanea (riassumibile nello slogan “un organo, un medico”) è quella che ci porta a dare a una malattia il nome del medico che l’ha scoperta (Alzheimer, Parkinson).
La tassonomia medica, che prevede una definizione prevalentemente basata sugli organi colpiti, presuppone che malattie e meccanismi patogenetici possano essere sufficientemente definiti e compresi all’interno di un organo. Come conseguenza, le terapie farmacologiche si fondano per lo più sull’obiettivo di correggere i sintomi o normalizzare i fattori di rischio (elevata pressione sanguigna, colesterolo e glucosio, per esempio). Ma è importante ricordare che né i sintomi né i fattori di rischio permettono definizioni meccanicistiche di una malattia. Ad eccezione delle malattie rare, rileva Schmidt, in cui è possibile diagnosticare una mutazione precisa (spesso singola e grave), per cui è noto un meccanismo e talvolta è disponibile una terapia molto specifica, nella maggior parte dei casi non capiamo esattamente le cause di una patologia. Davvero emblematico in questo senso è l’esempio dell’ipertensione (un sintomo che dà il nome a una malattia): al 95 per cento dei pazienti viene diagnosticata un’ipertensione essenziale (cioè senza causa); sappiamo che il paziente ha la pressione elevata, che è sicuramente un fattore di rischio, ma non sappiamo perché. Data una definizione basata sul sintomo, quello che si cerca di correggere con le terapie farmacologiche è proprio il sintomo, in modo da abbassare il rischio. I pazienti vengono trattati con farmaci che dilatano i vasi sanguigni e il sintomo scompare, ma non viene trattata la causa della malattia perché, evidentemente, non la conosciamo. Si tratta quindi di un approccio inefficace perché la maggior parte dei pazienti non trarrà beneficio dalla terapia.
Nella network medicine, tutti gli organi e le patologie fanno parte di una rete. Quando si assume che un meccanismo patologico sia causato da un piccolo segnale che nel nostro corpo qualcosa non funziona correttamente, è improbabile che questo evento di segnalazione sia rilevante e causi sintomi soltanto in un organo. Ma finché si definisce la malattia all’interno di un organo non è possibile vedere le connessioni e identificare i meccanismi comuni di malattie o sintomi che si verificano molto spesso insieme. Se due malattie si manifestano spesso insieme, allora è probabile che sottendano gli stessi meccanismi causali. Lo stesso discorso vale per i cluster con i sintomi in comune. È sorprendente, afferma Schmidt, la capacità di questo approccio di accelerare i processi di ricerca, perché consente di bypassare la parte della scoperta e di registrare direttamente il farmaco e testarlo nella clinica per provare l’ipotesi.

Ridefinire le malattie, cercare meccanismi patogenetici comuni per poi scegliere i farmaci da usare in funzione di questa visione delle cose: “Io credo che al momento noi abbiamo tutti i farmaci di cui abbiamo bisogno, dobbiamo solo capire a quali meccanismi che sottendono la malattia applicarli: cercare nuovi scopi per cui registrare gli stessi farmaci”, chiosa Schmidt. E i nomi attuali delle malattie, che sono semplicemente descrittivi, non avranno più senso senza la spiegazione molecolare. La chiave per identificare i network e arrivare alla causa molecolare della malattia è nei cluster. I recenti progressi nella genetica e nella genomica hanno permesso di apprezzare gli effetti delle mutazioni genetiche in quasi tutti i disturbi e offrono l’opportunità di studiare le malattie umane nelle zone di intersezione tra l’una e l’altra. Ma attualmente la sfida più grande in medicina è che l’80 per cento delle malattie croniche è collegata agli stili di vita, per cui il ruolo dei farmaci si rivelerà quasi irrilevante, e serviranno invece cambiamenti nello stile di vita.
Questa mole di big data, sintetizza Schmidt in conclusione, ridefinirà del tutto la medicina per come la conosciamo, una rivoluzione che ci permetterà di guardare alla malattia in modo completamente nuovo ed è già possibile oggi intravedere il potenziale rispetto al processo decisionale clinico futuro. Abbiamo a disposizione grandi banche dati pubbliche su interazioni molecolari, percorsi e regolazione genica, ma anche su comorbilità ed effetti farmacologici. Il ruolo della scienza di base consentirà di sviluppare la diagnostica, saranno necessari meno studi su animali, il processo di ricerca sarà più veloce.

A cura di Alessio Malta, Il Pensiero Scientifico Editore

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Paola Velardi: fenotipi sociali, studiare le reti per capire la malattia

In che modo le reti sociali possono portarci a una maggiore comprensione di fenomeni correlati alla medicina e alla salute? È possibile rilevare, e quindi comprendere meglio, i bisogni dei pazienti a partire dall’analisi dei tweet? Le reti sociali possono diventare veicolo di strategie di prevenzione? Sono queste alcune delle domande da cui è partito l’intervento di Paola Velardi, docente di informatica dell’Università di Roma La Sapienza, all’interno della sessione dedicata ai network che ha aperto 4words20, la quarta riunione annuale del progetto Forward.

Il lavoro di ricerca della Velardi ruota tra l’altro attorno all’impiego degli algoritmi per l’analisi del linguaggio naturale sui social media e in particolare allo studio dei social media per la sorveglianza epidemiologica. “Le persone parlano del proprio stato di salute, discutono dei propri sintomi”, sottolinea la studiosa. “Siccome l’uso delle reti sociali è pervasivo, i dati a disposizione sono tantissimi, c’è l’opportunità di sfruttare queste informazioni per applicazioni che possono essere utili per una maggiore conoscenza dello stato di salute dei pazienti. I dati vengono sempre collezionati a livello globale e sono informazioni che non riscontriamo solo nei singoli testi, ma a livello di connessioni tra i pazienti”.
Perché le reti sociali, le interazioni che in esse avvengono e i messaggi che circolano sono così utili? “Ci sono diverse ragioni per cui è importante analizzare le interazioni che gli umani hanno attraverso le reti sociali”, spiega la Velardi. Le interazioni umane raccontano una storia e possono essere la base di un nuovo paradigma di medicina di rete, in particolare per quanto riguarda le emergenze di salute pubblica. Ad esempio, è possibile riuscire a prevedere la diffusione di malattie epidemiche: la sorveglianza epidemiologica può essere supportata e integrata con l’analisi delle reti sociali. Già diversi anni fa si usavano i messaggi pubblicati su Twitter in cui le persone denunciavano di avere l’influenza per prevederne la diffusione. “Abbiamo fatto uno studio più dettagliato in cui abbiamo analizzato i messaggi in cui le persone denunciavano di avere alcuni sintomi dell’influenza e abbiamo visto che la curva di questi messaggi rispecchia abbastanza la curva effettiva dei casi della malattia”, precisa. “Tracciare le comunicazioni su Twitter con informazioni sull’influenza permette di creare modelli di predizione del picco di influenza molto più precisi rispetto a quelli che si otterrebbero utilizzando le informazioni ricevute dai medici”, aggiunge Paola Velardi.
Ma facciamo un passo indietro: cosa significa analizzare le reti sociali? Una rete in senso fisico è fatta di nodi, ognuno dei quali ha lo stesso numero di collegamenti con gli altri nodi. Le reti sociali, come le reti biologiche, invece, sono caratterizzate da una struttura irregolare: “Ogni nodo può avere un numero di connessioni molto diverse, ci possono essere delle zone molto dense o rarefatte, ed è proprio qui, nell’analisi di queste irregolarità che sta l’informazione che è interessante”. Quando dei gruppi di persone interagiscono all’interno di una rete sociale vuol dire che hanno qualcosa in comune. Questo qualcosa può darci informazioni su quel gruppo di persone o di pazienti. Analizzare una rete sociale significa da un lato mettere in campo metodologie per analizzare il linguaggio e capire l’informazione che le persone si scambiano, dall’altro procedere con l’analisi strutturale che permette di identificare le regolarità e irregolarità all’interno della rete che possono dirci qualcosa. L’analisi strutturale delle reti sociali prevede tre passaggi.

1. Identificare i key players, cioè gli elementi centrali nella comunità (le persone più influenti, che spesso sono gli uomini) e i “ponti”, ovvero i nodi che connettono due o più comunità, che spesso sono donne.
2. Trovare le comunità, ovvero le zone in cui il numero di elementi e nodi è più denso. L’idea è che individuata una zona di elementi molto vicini tra loro è possibile che questi condividano un fenomeno o abbiano in comune una similarità che può essere, ad esempio, una stessa malattia.
3. Studiare o predire la diffusione dei fenomeni.

Ma a cosa serve in medicina trovare le persone centrali, individuare le comunità e studiare il flusso della comunicazione? Abbiamo già visto come si possa prevedere la diffusione di certe malattie, ad esempio l’influenza, attraverso l’analisi dei messaggi che le persone si scambiano attraverso le reti sociali. Ma non solo. “Se i centri sono degli influencer, una volta trovati i centri si può, ad esempio, bloccare la trasmissione di una certa informazione: se loro vengono bloccati il flusso di informazione virale si blocca”, spiega la Velardi. Studiare le connessioni significa poter vedere come le malattie si propagano, ma anche a comprendere come le opinioni sulle malattie si diffondono. E potenzialmente correggere il tiro. L’altro esempio fatto da Paola Velardi è relativo a una ricerca svolta sui pazienti con il diabete a partire dall’analisi dei forum di salute. “Nei blog e nei forum è il paziente a fare le domande, a dire ciò che è rilevante per lui nella gestione della sua malattia”, sottolinea la Velardi. “Un problema che spesso si riscontra è che c’è una sorta di mismatch tra quello che il medico chiede al paziente e quello che il paziente vorrebbe esprimere”.

La ricerca ha provato a costruire un fenotipo digitale o fenotipo sociale, usando i social media per valutare la qualità della vita di un paziente, per guardare realmente al modo in cui egli vive la sua malattia nella sua vita quotidiana. La malattia monitorata è stata il diabete attraverso un’analisi incentrata sul paziente efficacemente dedotta da un’analisi testuale automatizzata dei social in cui i pazienti parlano di salute.
Un approccio integrativo rispetto agli studi di quality of life assessment, basati sui classici questionari dati ai medici, da cui emerge una visione della malattia meno disallineata tra medico e paziente. Raccogliendo, analizzando e sfruttando in maniera automatizzata queste informazioni è possibile arrivare a una visione più dettagliata e ricca di sfumature dell’esperienza dei pazienti: questo è quello che Velardi definisce il “fenotipo sociale” delle malattie. Il fenotipo sociale che è emerso dallo studio mette in luce come i pazienti con diabete esprimano online una percezione della loro malattia diversa da quanto inferito dalle valutazioni standardizzate che potrebbe utilizzare un medico. “Abbiamo studiato i pazienti diabetici in Italia chiedendoci quali sono le complicazioni che i pazienti percepiscono come più fastidiose per la loro vita quotidiana, quali sintomi sono più frequentemente denunciati, se ci sono delle differenze di età e di genere nella percezione della malattia, e li abbiamo confrontati con dei semplici questionari che chiedevano risposta alle stesse domande”. I pazienti con diabete, in particolare i più giovani, non sono particolarmente angosciati dalle preoccupazioni che invece assillano i medici. Al centro dei loro pensieri, non ci sono le complicanze della malattia, ma ci sono questioni legate alla vita quotidiana, come il controllo glicemico, i ripetuti esami a cui sottoporsi, la necessità di seguire una dieta e il dover continuamente limitare l’alimentazione.
Dunque, possiamo fare quality of life assessment studiando le comunità online? La risposta è sì, ma a patto che questi dati sulla percezione della malattia siano percepiti come fonte complementare di informazione. Includere il percepito del paziente rispetto alla sua malattia, analizzando lo storytelling che egli stesso ne fa online, così come le conversazioni con altri pazienti, può significare arrivare a cure più adeguate tenendo a mente che la loro efficacia è anche funzione di una migliore comprensione condivisa tra medico e paziente di una malattia e del suo trattamento, una visione in cui le esigenze del paziente siano meglio integrate con le esigenze della cura della sua malattia.

A cura di Norina Wendy Di Blasio, Think2it

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Guardare al futuro lavorando in rete

“Network/Reti” è stata la parola chiave scelta per aprire la quarta edizione del congresso 4words, che ha avuto al centro gli interventi di Harald Schmidt, Direttore del Department of pharmacology and personalised medicine della University of Maastricht, e Paola Velardi, professoressa di informatica alla Sapienza università di Roma. In seguito ai due interventi, Lorenzo Farina, anche lui docente alla Sapienza università di Roma, ha affermato che “nessuno vuole negare che la medicina abbia raggiunto grandi successi. Ma qui ovunque vediamo scritta la parola ‘forward’ che significa che il problema è vivere sulla frontiera di ciò che non riusciamo a fare”. Va bene essere soddisfatti, infatti, ma gli esseri umani vogliono andare avanti, scoprire nuovi territori, e per fortuna ci sono persone che riescono ad avere uno sguardo nuovo su fatti che sono sotto gli occhi di tutti. Farina ha deciso di concludere la sessione con una domanda perché – come ha sottolineato – sono proprio le domande a farci andare avanti, non le risposte: “Abbiamo visto che le reti sono uno strumento matematico, quindi la matematica diventerà la regina della medicina? O ci permetterà di ridefinire un paradigma di ricerca biomedica?”. Domanda a cui ancora non sappiamo rispondere.

Sebastiano Filetti, professore di medicina interna e preside della Facoltà di medicina e odontoiatria della Sapienza università di Roma dal 2015 al 2018, ha scelto di concentrare il suo intervento sulla parola “cross-disciplinarietà”. “Harald Schmidt è un farmacologo e si occupa di reti, Lorenzo Farina e Paola Velardi sono ingegneri e si occupano di reti, io sono un medico. Lavoriamo insieme perché quando parliamo di trasformazione della medicina bisogna acquisire una visione diversa: non l’aspetto tecnico, ma le potenzialità, e se non si entra nei meccanismi della rete non si possono capire le potenzialità”. La rete, dunque, parola chiave della sessione, ha creato essa stessa una rete di collaborazioni. E se la medicina di oggi deve trasformarsi, i medici devono acquisire nuove competenze. Fondamentale, dunque, sottolinea Filetti, è riuscire a trasmetterlo ai giovani. “Teniamo a mente quello che dice Popper: noi non ci occupiamo di discipline, ci occupiamo di problemi. E quello che fanno le reti è proprio vedere la complessità di un mondo in cui noi affrontiamo la diversità. Altrimenti non curiamo le malattie, le controlliamo, che è un ottimo risultato ma vogliamo di più”.