Iona Heath: misurare il valore tra etica ed economia
Il report | Il video
Elena Granaglia: il valore in una prospettiva di finanza pubblica
Il report | Il video
Iona Heath: misurare il valore tra etica ed economia
Dopo una rapida riflessione sulle sottili differenze riscontrabili nell’accezione del termine “valore” a seconda della prospettiva da cui lo si considera, Iona Heath, medico di medicina generale di lunga esperienza che ha presieduto il Comitato etico di The BMJ, punta senza indugio il dito sulla preminenza del valore economico nel contesto dell’attuale “rampante capitalismo neoliberale”: “Il denaro, usato in passato come mezzo di scambio, sembra avere soppiantato più fondamentali valori. La venerazione per il successo economico sembra minare ogni tipo di impegno verso principi morali”. I dati dell’ultimo Rapporto Oxfam, che cita, lo confermano: il valore economico degli otto uomini più ricchi del pianeta risulta uguale a quello della meta più povera della popolazione globale (3,6 miliardi di persone).
Per definire meglio l’oggetto della sua riflessione, Iona Heath pone tre quesiti:
- qual e il valore di una vita umana?
- Come si puo misurare il valore?
- Qual e il fine della medicina e dell’assistenza sanitaria?
Al primo, imprescindibile quando ci si accinge ad affrontare una discussione sui valori nell’ambito dell’assistenza sanitaria, Heath prova a dare risposta con le parole del grande scrittore John Berger, morto all’età di 90 anni all’inizio di quest’anno: “Non pretendo di sapere qual e il valore di una vita umana. Al quesito non si può rispondere con parole ma solo con l’azione, creando una società più umana” [1]. Per rispondere al secondo quesito, Heath cita invece il premio Nobel Amartya Sen che nel suo libro The idea of justice scrive: “La tradizione utilitaristica, che opera per portare ogni cosa valutabile a una qualche dimensione presumibilmente omogenea di ‘utilità’, ha contribuito molto a formare questo senso di sicurezza nel “contare” esattamente una cosa (“qui ce n’e di più o di meno”). Tuttavia, ogni serio problema in materia di giudizio sociale difficilmente può evitare di considerare la pluralità dei valori” [2].
Complessa e poi la questione dei fini della medicina e dell’assistenza sanitaria: gli scopi sono molteplici e richiedono mezzi profondamente diversi, rischiando di entrare in conflitto tra loro; quelli che Heath elenca sono:
- questioni che riguardano i singoli, come alleviare la sofferenza, assisterei malati e i moribondi, curare le malattie;
- problematiche che richiedono interventi a livello di popolazione, come prevenire le malattie, aumentare la longevità, crescere una forza lavoro produttiva e in salute;
- la vendita di farmaci e i profitti dell’industria.
“Ma – si chiede Heath – qual e la gerarchia?” Chi decide? Di chi sono i valori che dominano la discussione? Al momento la preminenza dei valori economici sembra conferire all’ultimo punto maggiore priorità di quella che meriterebbe se altri valori fossero considerati alla stessa stregua, se non come più importanti”. Un’affermazione, questa, che Heath suffraga con due grafici (figura 1): il primo riporta le stime delle vendite farmaceutiche dello scorso anno in miliardi di dollari; il secondo mostra invece la vendita di farmaci prescritti che, si prevede, sarà quasi raddoppiata in 14 anni, raggiungendo i mille miliardi di dollari entro il 2020, con una crescita media del 5,1% all’anno dal 2013 al 2020 (figura 2). Inquietante, secondo Heath, è che “questi profitti dipendono interamente dal fatto che tutti noi veniamo convinti ad assumere un numero enorme e rapidamente crescente di farmaci”.
Come se non bastasse, riflette la relatrice, lo stupore che proviamo di fronte alle straordinarie prestazioni delle nostre innovazioni tecnologiche e tale che rischiamo di non vedere i danni che possono causare. “Siamo dei giganti della tecnologia ma siamo dei moscerini dal punto di vista etico. La nostra capacita tecnologica ha il sopravvento sui nostri valori morali. Ogni volta che prescriviamo un esame diagnostico e troviamo una qualche anomalia che non avrebbe comunque causato al paziente alcun danno, gettiamo un’ombra di paura su almeno una vita”. Con queste considerazioni Heath ci pone di fronte ai problemi posti dalla prioritizzazione della prevenzione che “esprime i valori, basati sulla popolazione, di politici e decisori, ma che senza dubbio causa danni a livello del singolo”.
A questo proposito Heath cita l’interessante articolo di Dave Sackett sulle caratteristiche della medicina preventiva, giudicata arrogante perché “è aggressivamente assertiva, insegue i soggetti senza sintomi dicendo loro cosa devono fare per rimanere in buona salute; e presuntuosa, sicura che gli interventi che adotta porteranno, in media, più vantaggi che danni a coloro che li accetteranno e vi aderiranno; e autoritaria e attacca quanti mettono in discussione il valore delle sue raccomandazioni” [3]. Oltre a ciò, Heath invita a considerare il senso di minaccia alla salute e l’accresciuto livello di ansietà e paura che generano nelle persone gli interventi che la medicina preventiva invita a effettuare. E “la paura non può essere rimossa”. Governi e media, opinione pubblica e alcuni medici, nonché le industrie farmaceutiche e di tecnologia sanitaria abbracciano con entusiasmo le promesse della medicina preventiva, ma in questo modo, secondo Heath, “cerchiamo di applicare soluzioni biotecniche all’antico problema esistenziale di dare un significato all’inevitabilità dell’umano dolore, alla perdita, alla morte, permettendo ai valori tecnico-scientifici di sostituire quelli umani”.
Nel corso della sua vita professionale come medico di medicina generale, Iona Heath ha potuto constatare con preoccupazione il crescente predominio dei valori economici e utilitaristici della prevenzione sull’assistenza sanitaria e come questi alterino il lavoro clinico e le priorità del sistema sanitario, “minati alla base da fattori che si rafforzano reciprocamente, ossia: la corruzione e lo stravolgimento della scienza biomedica per ottenere benefici finanziari o di carriera; la persistente metafora che paragona il corpo umano a una macchina; la supremazia della scienza preventiva su quella terapeutica; l’assenza della persona che soffre”.
Soprattutto, fa notare Heath, sono le ferite della persona che soffre quelle che non compaiono nelle linee-guida o nei sistemi di valutazione della qualità, pur essendo assolutamente fondamentali per il lavoro clinico. Se, con le parole di Arthur Kleinman [4], Heath ci ricorda che “fornire assistenza è uno dei significati morali fondamentali e una delle pratiche dell’esperienza umana in ogni luogo: definisce il valore umano e si oppone alla mera riduzione al calcolo e al costo”, avverte anche che ciò non accade laddove sono gli imperativi utilitaristici a governare sia la sanità pubblica sia la ricerca biomedica. E quando non e in grado di stabilire il valore della persona che soffre, l’assistenza sanitaria produce risposte generate da algoritmi, ridotte a formule da applicare in maniera indifferenziata [5].
L’ultimo punto cruciale che Heath affronta nella sua relazione e come consideriamo i valori della pratica in relazione ai valori della teoria. A partire dalle parole di Toulmin [6], che afferma che tutti i protagonisti della filosofia moderna hanno promosso la teoria svalutando la pratica, Heath fa notare che anche nell’assistenza sanitaria contemporanea “la teoria batte la pratica e l’evidenza derivata dalla scienza biomedica e usata per guidare la pratica”. Quando ciò avviene ci ritroviamo in situazioni in cui “l’EbM viene usata per indirizzare la clinica” [7]. Questo modo di agire, oltre a spostare il fulcro dell’assistenza sanitaria dal singolo paziente al sottogruppo di popolazione, comporta anche il rischio di trasferire i fini ai mezzi, mentre la vera sfida e occuparsi della malattia e di come essa frammenti, disarticoli e renda incerte la condotta e la dignità delle vite umane” [8].
Nella consapevolezza che non ci sono risposte facili, Heath ritiene necessario far in modo che i valori dell’assistenza sanitaria seguano il “circolo che va dalla pratica alla teoria e poi di nuovo alla pratica, anziché viceversa”, cercando al contempo di liberarli da quella che, adottando un’espressione di Rebecca Solnit [9], Heath chiama “tirannia del quantificabile”.
Report a cura di Silvana Guida, Il Pensiero Scientifico Editore
Bibliografia
[1] Berger J, Mohr J. A fortunate man. The story of a country doctor. London: Penguin Press, 1967.
[2] Sen A. The idea of justice. London: Penguin Books, 2009 (Trad. it.: L’idea di giustizia. Milano: Mondadori, 2010).
[3] Sackett DL. The arrogance of preventive medicine. CMAJ 2002; 16: 363-4.
[4] Kleinman A. Caregiving as moral experience. Lancet 2012; 380: 1550-1.
[5] Holmes J. The therapeutic imagination. Using literature to deepen psychodynamic understanding and enhance empathy. New York, NY: Routledge, 2014.
[6] Toulmin S. Cosmopolis: the hidden agenda of modernity. Chicago: University of Chicago Press, 1990.
[7] Greenhalgh T, Howick J, Maskrey N. Evidence based medicine: a movement in crisis? BMJ 2014; 348: g3725.
[8] Hargraves I, Kunneman M, Brito JP, Montori VM. Caring with evidence based medicine. BMJ 2016; 353: i3530.
[9] Solnit R. Woolf’s darkness: embracing the inexplicable. The New Yorker, April 24, 2014.
Video abstract
Elena Granaglia: il valore in una prospettiva di finanza pubblica
Uno sguardo esterno al mondo della medicina e quello di Elena Granaglia, docente di Scienza delle Finanze all’Università di Roma Tre, che affronta il tema valore/valori in una prospettiva di finanza pubblica, per aiutarci a capire quali valori ci possono guidare nella gestione delle risorse del Servizio sanitario nazionale (Ssn). La docente prende spunto dal numero di Forward sul tema, per alcune prime, brevi osservazioni sui due valori a cui la rivista ha dedicato spazio: l’importanza degli esiti in termini di salute e il punto di vista del paziente. Sembrerebbero due valori piuttosto ovvi, in realtà Granaglia ne denuncia la quotidiana violazione affermando che e sulla base degli input (i mezzi per produrre salute, le retribuzioni dei lavoratori) che in realtà si misura il valore dell’Ssn. E aggiunge: “Se andiamo a vedere alcune delle riforme che vengono proposte per l’Ssn, non c’è praticamente quasi mai un riferimento a “più salute”, ma l’attenzione e rivolta essenzialmente alla minimizzazione dei costi”. Infatti, “ancora oggi, l’ultima legge di stabilita ha aumentato il peso del sostegno fiscale che viene dato al welfare occupazionale” e viene messa in atto “una politica di sostegno a una spesa che va ad aiutare l’acquisto di fondi sanitari … ma non abbiamo alcun riferimento al valore che questi producono, anzi probabilmente dalla contrattazione aziendale non verrà fuori granché per il miglioramento della salute”.
Ma c’e un terzo valore che, secondo Granaglia, andrebbe maggiormente sottolineato, ed e il valore dell’equità. Per spiegare l’importanza di questo valore la docente si sofferma brevemente sul concetto di sanita come diritto: la salute e un diritto sancito dalla nostra Costituzione, ma i diritti vanno specificati rispetto allo spazio che possono avere, in particolare i diritti a prestazioni positive, come sono i diritti sociali, e tra questi i diritti sanitari, soprattutto a fronte di una situazione di “scarsità limitata”. Ecco perché, dice Granaglia, ci occupiamo di giustizia e di equità. “… non a caso vediamo come, nei momenti di crisi economica, diventa più difficile ragionare in termini di giustizia. La giustizia nasce quando ci sono circostanze limitate di scarsità”. La difficoltà, ragiona Granaglia, nasce nel momento in cui dobbiamo specificare a quali prestazioni in particolare abbiamo tutti diritto: infatti, essendo le risorse limitate, ci troviamo di fronte alla necessita di dover scegliere. Come uscire da questa tensione? “Il modo e essenzialmente quello di fare leva sulla nostra fondamentale uguaglianza morale” i diritti che possiamo specificare attraverso una procedura di scelta che faccia del rispetto della comune uguaglianza morale esattamente il criterio cardine. Questo e quello che fa l’equità, quanto meno nelle prospettive contemporanee dell’equità”. A questo punto la relatrice propone un interessante excursus sull’evoluzione del concetto di equità: dal lavoro seminale di Rawls del 1971, in cui l’equità era essenzialmente imparzialità, a Dworkin che indica nel rispetto della comune uguaglianza morale il criterio utile a specificare i diritti, a Nagel per il quale “l’equità e il linguaggio della prima persona plurale, anziché il linguaggio della prima persona singolare”, senza dimenticare, in Italia, Salvatore Veca, che vede nell’equità il rispetto del punto di vista dell’individuo “chiunque” o, nella filosofia politica più antica, Guido Calogero secondo cui la giustizia doveva prendere il punto di vista della terza persona.
Comunque, per tutti costoro, ci tiene a ribadire Granaglia, “il riferimento e sempre qualcun altro, confermando una tendenza a dover giustificare verso gli altri le pretese che noi portiamo nella sfera pubblica”.
Individuare scelte consensuali basate su processi equitativi certamente pone molti problemi, tra cui soprattutto quello del “cosa” garantire. Granaglia a questo proposito riporta il pensiero di Amartya Sen, secondo il quale non ha senso discutere per trovare un’idea perfetta di giustizia, ma si deve cercare di andare a contrastare le disuguaglianze più evidenti. Anche nelle soluzioni parziali, tuttavia, bisogna identificare il punto forte: “Ciò a cui dobbiamo arrivare come consenso non e un’idea di interesse pubblico, come aggregazione di meri interessi, compromessi tra posizioni diverse; ma un nucleo di soluzioni accettabili per tutti, in quanto riflettono un’idea condivisa di ciò che e desiderabile perseguire. L’equità, anche in questa prospettiva più parziale, non si accontenta della manifestazione del volere del singolo, facendo dell’interesse pubblico solo la maggioranza degli “io” che avanzano la loro richiesta. Questa non è equità, perché in questo caso è solo il più forte che vince”. L’equità richiede inoltre che le preferenze avanzate vengano argomentate sulla base di giustificazioni accettabili da tutti. Adottare questo percorso può servire a selezionare alcuni ambiti cui dare la priorità nel contesto sanitario. Granaglia porta qui l’esempio delle aspettative di vita: garantire uguali aspettative di vita a tutti e estremamente difficile (basti pensare a quanto riportato da Sir Michael Marmot nel suo libro, “La salute disuguale” riguardo alla situazione di inaccettabile disuguaglianza presente a Glasgow), ma “… anche se poi non siamo d’accordo sull’obiettivo finale, esserlo almeno sull’ingiustizia, sull’iniquità di una differenziazione cosi forte nelle attese di vita sembra un ambito di consenso parziale che può essere raggiunto”. Allo stesso tempo, per garantire esattamente le stesse aspettative di vita per tutti potremmo paradossalmente giungere a un peggioramento per alcuni, “in particolare per le donne, dal momento che per loro le attese di vita sono superiori a quelle degli uomini. E quindi, se ci mettiamo nella prospettiva equitativa, arrivare ad acconsentire a una declinazione del principio dell’uguaglianza nelle attese di vita che implichi una riduzione di questo fattore per una parte della popolazione sarebbe sicuramente inaccettabile: un’argomentazione di questo tipo non può reggere all’interno di una procedura di dialogo equitativo”.
Spostando l’attenzione dallo spazio della salute a quello dei servizi sanitari, Granaglia porta esempi in altri ambiti quali il costo dei farmaci, il welfare occupazionale, le scelte in materia di finanziamento a sostegno della spesa farmaceutica, dimostrando che adottando una prospettiva equitativa si potrebbero trovare solide argomentazioni, ad esempio, per resistere a un’estensione del finanziamento nell’area dei farmaci antitumorali e destinare risorse ad altri settori del welfare, o per mettere in discussione le agevolazioni fiscali al welfare occupazionale, o per ridiscutere alcuni forti vincoli di bilancio. Il punto tuttavia sul quale Granaglia tiene a soffermarsi, in particolare in materia di costo dei farmaci, e che “pur muovendoci in una prospettiva equitativa, non necessariamente le considerazioni aggregative, utilitaristiche sono da abbandonare. Infatti, quando pensiamo a come allocare le nostre risorse, un criterio potrebbe essere quello di decidere, in modo imparziale, di finanziare i farmaci, i trattamenti, le prestazioni che contribuiscono in qualche maniera a realizzare il maggior benessere e quindi il maggior numero di anni di buona vita, e quindi di vita con poca o nulla disabilita”. La sua posizione è che “in questo modo i principi generali, astratti, aggregativi, al limite anche utilitaristi, possono avere uno spazio all’interno della discussione pubblica. Il punto di fondo e che se ci si pone in una prospettiva equitativa possiamo sostenere anche una posizione di razionamento dei farmaci”.
La sua conclusione e che adottando un approccio equitativo e giustificando le nostre posizioni sulla base di argomentazioni formulate in termini che siano accettabili per altri, pur non arrivando a un consenso generale su tutto, alcune scelte potrebbero essere meglio suffragate.
Report a cura di Silvana Guida, Il Pensiero Scientifico Editore
Video abstract